7 novembre 2019

Remigio Ferretti: Lettera aperta a Giacomo Campanelli


Il prof. Giacomo Campanelli (1925-2006) è stato scrittore e protagonista della vita politica cittadina militando nella sinistra socialista. Egli ha condiviso con Remigio Ferretti l’insegnamento al Liceo Classico di Monopoli: Storia dell’Arte il primo, Lettere il secondo. Fu, quello degli anni sessanta e settanta, il periodo aureo del Liceo Classico, nel quale, inizialmente sotto la sapiente ed indimenticata guida del preside Gregorio Munno, ci fu la fortunata coincidenza di docenti di spessore ineguagliabile, come lo furono anche il prof. Menga di Storia e Filosofia e il prof. Riccardi di Greco. Tra Remigio Ferretti e Giacomo Campanelli avvenne quel “miracolo” possibile solo tra intelligenze e sensibilità superiori alla norma: due persone con esperienze, valori, idealità diverse avvertirono il loro “idem sentire”, l’amore per le loro radici, per la “monopolitanità”, proiettata nel cosmo dell’estasi artistica e della “licenza” creativa. Remigio e Giacomo: un unico grande poema da scrivere tra le stelle.

Pubblico l'affettuosa lettera che Remigio Ferretti dedicò all'amico Giacomo in occasione della pubblicazione del suo saggio "La lingua il dialetto e la letteratura" con le mie note.

Caro Giacomo, a differenza del Santo di cui porto il nome, S. Remigio[1], protettore di Parigi, io non posso fare miracoli (chè, altrimenti, ne vedresti delle belle); quindi non io ti ho salvato dal "naufragio degli intellettuali" della nostra città[2], come tu amabilmente affermi, ma tu stesso lo hai fatto, col tuo intelletto, con la tua cultura e col tuo “ésprit”, che ti fa davvero singolare, qualità tutte che, felicemente versate nel tuo libro "La lingua, il dialetto e la Letteratura"[3], lo fanno prezioso e raro. 
L'aggettivo che più spesso saliva alle mie labbra, mentre andavo leggendo e gustando il tuo lavoro, una specie di "epopea popolare" (ma "popolare" è pure la Chanson de Roland[4] e il Cid[5]), era: Delizioso! Il libro, insomma, è una delizia o, come diresti tu, "un delizio". 
Certo, sono ben noti i forzati limiti in terna di comprensione (e di divulgazione) di opere che trattano di storia patria e di dialetto. Ma la tua, non solo ferma nel tempo e nello spazio, per noi e per chi ci seguirà, tutto un mondo, quello della Monopoli del cinquantennio a cavallo del secolo, ma soprattutto scopre ed esalta le forme e il senso di una civiltà, la nostra, per nulla subalterna, antica e pur viva, sapida di sale, quello della ancestrale saggezza greca che lasciò cadere nelle nostre "scuole" e nelle nostre vie Platone, viaggiando per le nostre piaghe e quello ridanciano e caustico dì Plauto. Di tutto ciò tu offri consolante testimonianza, muovendoti, grazie al tuo “lungo studio e grande amore" con avveduta disinvoltura nei meandri dell'"isola" della nostra lingua indigena. 
Chi ti conosce, leggendo il tuo libro, non si sorprende certo della tua ottima conoscenza della letteratura italiana, latina e straniera, né della sicura perizia nel campo della musica e dell'arte. E'soprattutto incantato dal clima in cui tu cali personaggi ed eventi, un clima soffuso di levità e di grazia. La realtà (ma non solo quella cittadina), anche se amara, si riscatta e si illumina sul piano dell'arte per riverberi di fine, saputa ironia, che non risparmia neppure (tanto è proprio delle intelligenze mature) colui che quella realtà vive e fabulosamente racconta.
Le citazioni, che in molti scrittori (e oratori) sono spesso aride figlie dell'erudizione, sono da te invece usate con rara spontaneità, anzi, si adattano “naturaliter” all'elemento che ne porge l'occasione, come veli di serica trasparenza, che, leggermente rivestendolo, ne aumentano dimensione, senso e valore. 
Questo tuo andare oltre il "segno" dialettale e spaziare con voli dosati e pertinenti verso lidi più aperti e conosciuti, ti concilia un pubblico vasto e qualificato che vive, legge e giudica “extra moenia”: cosa non frequente per autori e opere di interesse locale, date anche le ovvie difficoltà fonico-grafiche del dialetto che, per una più ampia fruizione, deve far ricorso allo speciale "codice" universale. 
Che dire dell'interessante accostamento tra il dialetto di Monopoli e la lingua di Mistral[6]? O della sorprendente affinità tra le "battute" del Comico "della macina"[7] e quelle dei monopolitani "veraci", se ancora ve ne sono? 
Il tuo libro, caro Giacomo, va certo riletto e meditato. Spero anche di avere l'opportunità di parlarne insieme. Voglio ora aggiungere, a mo' di conclusione, che l'ultimo tuo capitolo è un vero gioiello: dulcis in fundo. 
La scena da te disegnata, pur ricca di figure e di fatti autentici, respira un'aria stupefatta e quasi surreale, come solo accade quando il cuore di chi scrive, rimosse ormai le spigolose acrimonie di un tempo, colmo di esperienze e ricordi che la "pietas" carezza e smorza, canta alfine con ritmo misurato e commosso: è il canto del poeta, fatto provetto dagli anni e baciato in fronte dalla Musa. 

Tuo Remigio Ferretti 

“L’Informatore” 31/1/1987 

[1] Remigio di Reims (440ca. - 533ca.) fu vescovo cattolico dell'omonima città in Francia. Viene venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Nato probabilmente a Laon attorno all'anno 440, sarebbe stato eletto vescovo di Reims all'età di 22 anni. Riuscì a convertire il re merovingio dei Franchi, Clodoveo I, alla religione cristiana, con l'aiuto della sposa di quest'ultimo, Clotilde. Il re fu battezzato il 25 dicembre 496 nella cattadrale di Reims. La leggenda vuole che lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, portasse l'olio consacrato al vescovo: la cattedrale di Reims divenne quindi in seguito il luogo privilegiato per la consacrazione dei re di Francia successivi. Remigio morì il 13 gennaio dell'anno 532 (secondo altre fonti 533). Le sue reliquie si trovano nella basilica di Saint Remi a Reims
[2] Campanelli scrisse nella dedica del volume: “A Remigio Ferretti per grazia ricevuta. Per essere stato tratto in salvo, giusto un anno fa, da un tremendo naufragio. Con la speranza che non abbia a ripensarci, dopo questo libro, per gettarmi di nuovo in mare.” 
[3] Schena Editore, 1986. 
[4] La Canzone di Rolando o Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell'XI secolo è una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio considerata tra le più belle opere della letteratura epica francese. La Chanson fu scritta in 4002 decasillabi raggruppati in lasse (strofe dalla lunghezza variabile) da un autore ignoto (forse Turoldo, che si nomina negli ultimi versi e probabilmente ne fu solo il compilatore) e canta la Battaglia di Roncisvalle, avvenuta il 15 agosto 778, quando la retroguardia di Carlomagno, comandata dal paladino Rolando, prefetto della Marca di Bretagna e dei suoi paladini, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai baschi probabilmente alleati dei saraceni. 
[5] Il Poema del mio Cid, ovvero il Cantar de mio Cid, è un poema epico formato da 3733 versi di autore anonimo risalente al 1140 circa considerato il primo documento letterario spagnolo. In esso si narrano le imprese eroiche di Rodrigo Díaz de Bivar, il Cid Campeador (dall'arabo sayyd o sìd - signore) eroe leggendario delle lotte contro gli arabi, morto nel 1099.
[6] Frédéric Mistral (1830-1914), poeta francese, fondatore nel 1854, insieme con altri scrittori, dell'associazione denominata Félibrige, nata per promuovere l'uso della lingua provenzale moderna in letteratura. 
[7] Tito Maccio Plauto (240 a.C. circa – 184 a.C.) è stato un drammaturgo latino. Secondo lo storiografo Varrone, Plauto era un attore girovago; investiti i guadagni della sua attività teatrale in rischiose operazioni commerciali, perse tutto e fu costretto a lavorare alla macina di un mulino.

3 commenti:

  1. Ci sono ancora uomini come questi, in giro? Onore a loro che, con la loro esistenza, hanno onorato Monopoli.

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    1. Era un’amicizia profonda tra due intellettuali che si stimavano pur nella diversità di ideali. La cultura sedimenta spigoli, erode barriere, sigilla impeti. Un’epoca che oggi ci appare remota e non replicabile.

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