“Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude...”. L’”animus poetandi” è pervaso dal trasporto verso i “suoi” luoghi e non rimpiange esserci un “caro” ostacolo che cela spaccati d’infinito allo splendido paesaggio. Malinconiche lanugini di simile “pathos” colgono forse il monopolitano che volge “il guardo” verso quell’area desolata, un tempo fieramente occupata dallo stabilimento “Ceramica delle Puglie”. Allo scorrere del crepuscolo, baluginano ora le luci della ferrovia e delle case rurali, puntelli argentei disseminati nella campagna. Su questo ed altro riflettevo mentre, leopardianamente, cercavo di afferrare l’“oltre”, stranito, in quella piana sconvolta. Riflettevo non tanto sulla pochezza e sulla temporalità delle vicende umane, ma sulla velocità che ad esse il piglio cinico e nodoso della Storia può imprimervi. E mi pareva di rivedere la tenacia di mio padre che, insieme ad altri benpensanti, gioiva e soffriva dei provvisori successi e dei subitanei rallentamenti che, allora, nel pieno di quegli anni ’60 straordinari e controversi, il progetto Ceramica subiva, figlio dei miraggi e dei compromessi che hanno fatto la storia del Meridione d’Italia. Il mitico Pieropan, che talvolta faceva capolino a casa mia, era forse un omone alto e pelato (ma io avevo solo 4 o 5 anni, potrei confondere le proporzioni), e le sue visite erano sempre foriere di buone nuove: si capiva dall’umore di papà che volgeva al meglio. Una volta mi portò dal ricco settentrione le costruzioni Lego: da allora non le abbandonai più e per me divenne una specie di eroe (il suo nome riecheggiava Peter Pan). Papà in quel periodo si recava spesso a Roma e quando ci andava: “era per la Ceramica”. Un brutto giorno pensò che tutto dovesse saltare “per colpa del gas”: era annichilito. Poi tutto fu superato e la pietra, con annesse centinaia di provvide speranze, venne calata. Chissà sotto quale monticello di macerie giace ora, inerte testimone, cinta ancora di quelle speranze, prima fattesi realtà e poi rantolate fra i detriti. Se, d’incanto, avesse lingua e favella quella pietra! Epicamente rievocherebbe lacrime e dolore, fatica e sudore, giovani braccia tumide, abrase, di smalto imperlate, di fumo intrise, infine invecchiate, abbarbicate al vero senso che l’esistenza e la dignità dell’uomo reclama: il lavoro. Il lavoro mortificato, deluso, derubato, bruciato, in questi tempi bui dove l’uomo-merce è immolato sull’altare del profitto. C’è una simbiosi innegabile che lega l’opera dell’uomo alle mura dove si compie; e questo vincolo va al di là e sorpassa la relazione effimera che ci può essere tra esse e l’imprenditore, il quale ne ha facile premura per ragioni patrimoniali: la storia della Ceramica negli anni ci parla anche di questo. Le associazioni ideali trascinano il flusso dei miei pensieri verso quello che fu l’Istituto S.Giuseppe: anche lì un pugno, violento, nel petto di chi in quelle aule ha acciuffato barbagli di sapere e di chi teneva saldi nella memoria echi della propria missione educativa, ancora vaganti fra le volte scrostate. Odiavo il “solfeggio” e quella suora che mi relegava sempre dietro la lavagna con il libro aperto sulla testa! Quanta emozione per le recite delle mascherine nel commovente teatrino. Che sapore strano e diverso aveva l’uovo fritto della “refezione”. E che sballo il tirocinio, quando sgambettavano le ragazze del magistrale! La scuola è un grande mattone della nostra personalità, e nessuna ruspa riuscirà a scalfirlo. Poi un giorno, penso, verrà giù la Cementeria: l’ecomostro. Niente paura, come dice Ligabue, riusciranno alla fine a costruirne un altro un pò più in là. Non so se quella, pur auspicabile, bonifica, lascerà solidali o semplicemente indifferenti chi ci ha respirato per anni polveri e sabbia, chi ci ha perso un padre od un nonno, chi ci ha contratto l’asbestosi o la silicosi. E i nostri balconi invasi da lenzuola grondanti cenere, ma benedetta perché “dava lavoro”. Le mura, quelle mura, le “fabbriche”, sono un’altra grande parte della vita, di una vita orgogliosa, granitica, pettoruta: una vita da operaio. Migliore senza dubbio di quella da vivere oggi, nel segno della non-appartenenza, uguale nel disuguale, a caccia di identità travolte dal precariato (dal latino prex quindi ottenuto per preghiera, e di breve (???) durata). Finalmente “torneremo a riveder il mare” (ma fino a quando? Non ho dimestichezza e quindi temo le capriole impazzite del PUG e dei suoi esegeti, e le percentuali che ci quantizzano gli spazi). Ho sentito tante voci glorificare il mare: le stesse che poi nulla fanno per invertire la spiacevole tendenza a recintarlo e nasconderlo, “bunkerizzandolo”. Lentamente scompare una Monopoli orgogliosa e garbata, umile e generosa, ottimista e sapida: ricordo le sirene che squarciavano l’aria scandendo i turni lavorativi e noi, liceali goliardi, che aspettavamo al varco il “lento” di turno che, tardando a introitare un concetto, poi, all’improvviso, lo afferrava con una esclamazione - AHHAAAAA! - e subito lo canzonavamo: “Ecco che escono gli operai della Ceramica/Cementeria!” Una Monopoli nella quale si agitavano spiriti liberi, intelletti raffinati, autodidatti tenaci e spregiudicati, un paese dove i circoli letterari e politici erano da Rodolfo, da Peppino Di Bello o da Ciro Genualdo o, semplicemente, nei crocicchi al borgo. Una Monopoli che amava sé stessa, onorava la bandiera, di qualsivoglia colore, parlava un idioma comprensibile e rispettava l’avversario. E perciò ci stringe il cuore vedere quella landa rasa e brulla e ci pare udire le voci levarsi da quelle macerie che vorrebbero tornare a vivere in comunione con gli uomini, con il lavoro manuale, di chi “sapeva fare” ed ora non sa più, non c’è più. Incombe l’Ipermercato. E’ ancora la Storia che pigia, sperticata, sul pedale. La prevalenza (e talvolta la prevaricazione) del terziario. Niente più amore, passione, arte e dolore nelle cose “create” (non “prodotte”). Nulla dura più nel tempo, solo orpelli da competizione. Velocità e consumo. Precarietà e fragilità. Sul ciglio della strada, idealmente agitiamo il bianco bastone del non vedente, trattenendo il respiro: oltre il margine il vuoto ci fa soli.
(*) Pubblicato su L'Eco Del Sud-Est del 8/8/2008