4.7.25

Loro non si guardavano negli occhi



Quella sera non si poteva dire
che si stessero guardando negli occhi.
No era diverso.
Era molto di più.
Quelli che uscivano dai loro occhi
erano vagoncini di un trenino a vapore
che sferragliavano su binari di arcobaleno.
Ognuno caricava un cuoricino
che ballonzolava e si gonfiava
ad ogni sbattere di ciglia.
Loro non si guardavano così, semplicemente, negli occhi.
Loro erano in viaggio
senza fermate
senza coincidenze
con biglietti di sola andata
verso una stazione senza orologio.

23.6.25

Pasoliniana



Sotto le suole
terra assetata s’aggrinza
e l’anima biancheggia,
trucioli di foglie esauste
scovano refoli da azzannare.

Un silenzio antico
alza un sipario desueto,
neri contadini sciamavano
unti d’amore per le zolle
e donne di frontiera
cantavano al vento.

Falso progresso ci ammalia
il predominio del marcio
il turpiloquio del potere
l’abominio sui bambini,
ci abbandona financo
la percezione di esistere.

Campi gibbuti
come pensieri adunchi
rarefavano l’aria
di stoppia e fumo.

Ahi! il tempo uncinato
nei vicoli incisi di tufo
immersi negli odori
stagnanti saggezza.

E tu bambino di ieri
raggi dorati
sulla schiena del paese
seduto su gradini
addentati di sogni
puntavi dita verso il cielo.

12.6.25

Ossessione



Ti diverti
a farti rincorrere
scarmigliata di poesia
umida di luna
ebbrezza e furore
mi fai uno sberleffo
vestita di sola luce.

Sei faglia che dirompe
fragore di comete
ossessione di perla
sei endovena dí desiderio
perdizione e miracolo
sei impulso al perverso
rutilante, tracimante.

Sei mia ma ti neghi
sono tuo e mi travolgi

28.5.25

La tortorella smarrita



Mentre la curva della sera
si stropiccia di rosa
avverto l’esitare dell’ora
e i pensieri trattenere il respiro.

Sei sempre tu sullo sfondo
a dettare strofe di malinconia
fra le cime garbate dei pini
rifugio di una tortorella distratta.

È il momento cruciale
in cui frugarmi dentro
e ritrovare le stesse stanze
in cui si siede il cuore.

Vorrei sfrattarmi dai vuoti
dai riti, dalla poesia,
e chiedere asilo ad altri mondi
dove passeggiare senza memoria,
godere di un tramonto
che insegni, infine, alla tortorella
la strada di casa.

23.5.25

Anatomia



Avevo rinominato
le parti del tuo corpo
in cui mi perdevo:
nastrina
piccolo principe
pianeti fatati

e noi
non ci chiamavamo più per nome
ci eravamo battezzati
“Amore”.

21.5.25

“Il materiale emotivo”



Poesia ispirata dal film 


I miei giorni
erano un flusso diseguale,
ma senza ruvidi spigoli,
nè tracimati argini,
piatti, profumati di carta.

Li sfogliavo disattento
sotto una mansarda di stelle,
luminose solo al tatto
che si spegnevano nei volti.

Quando bussasti alla vetrina
non conoscevo ancora gli uragani,
i libri si nascosero dietro le copertine
non credendo alle proprie fantasie.

Mi stappasti come uno champagne
sbattesti il tappeto della vita,
le mie ordinate ossessioni
“ma butta via tutto!”

E facemmo cose,
rubammo mele,
suonammo citofoni,
ci urtammo sull’autoscontro,
e ballammo, ballammo tanto,
fino al giaciglio del sole.

Non mi ero accorto
che avessi la forza di tenere
la clessidra orizzontale
e noi fermi in mezzo
a dondolarci nei sogni
al ritmo di un violinista pazzo.

“È materiale emotivo”, dicesti
“È un ossimoro”, risposi.
Ma ci avrei giocato per sempre.




20.5.25

Nuvole



Mi adesca 
la plasticità delle nuvole
talora pompose o plebee,
affabulanti viaggiatrici.

Le osservo discreto
sovrapporsi e ricomporsi
nei loro scontri silenziosi,
ciondolanti scrittrici
di favole sempre nuove.

Dipingono su tavolozze
di cieli dolci o imbronciati
e non s’adombrano per l’oblio
di chi le archivia con noncuranza.

Di rado nello scorrere
s’avvedono compiaciute
di esteti del dubbio
operai di sogni
che condividono con loro
gli abbracci dell’infinito.

A volte chiedo loro un passaggio
confidando nella perizia
di angelici tassisti
che mi scarrozzino lontano
laddove si smarriscano
le solitudini e le contese
in turbinii di pace.

19.5.25

Le parole nel caffè



Castigarmi di parole
è sermone divino
quando ci sei tu
specchiata nel caffè
mentre cerco
di appallottolare i sensi
e tu, ridendo,
mi scarti, mi stiri
e mi guidi l’amore sui fogli.

11.5.25

Gaza



Gaza è un macigno
di ossa stritolate
mangime di corvi,
diroccato museo
di ombre e palloncini.

Gaza ha un dito puntato
verso un occidente putrefatto
immeritata culla
di corrotta civiltà.

Gaza ci rincorrerà
nella notte dei tempi
con la falce del perdono,
brucando con nobiltà
l’erba dell’inanità.

Gaza intingerà
il suo pennello di pane
su tavolozze di Storia
incrostando vergogna
sui vetri delle scuole.

Gaza è urlo della terra
tumefatta da inutili parole
sopraffatta dai silenzi
scavo di tombe nane
coperte da cuori di muffa.

Gaza è un unico
grande, perverso macigno
che rotolerà sulle spalle
della nostra incolore progenie.

8.5.25

Che te ne fai?



Dimmi, cosa te ne fai
dei miei pensieri magri
baci di polvere e sogni
che tamponano le tue ciglia.

Che te ne fai di me
e della mia cieca velleità
ad accanirsi d’amore
su marmoree curve d’anima?

27.4.25

Claudicare



Mentre il tempo
s’impiglia ai passi
incerti e bizzosi
di un aprile stentato,
mi rigiro nel tuo pensiero
premura di golfo accogliente
oasi e madre,
tana del mio scorrere d’inerzia.

26.4.25

Voglia di poesia



Quando hai voglia di poesia
non è complicato:
porgimi il tuo bicchiere
dove hai lasciato il rossetto,
appoggia il piede
sul mio petto,
sorridi,
così spegni le stelle,
leggi le mie labbra
e ti sporgi sull’infinito.

21.4.25

Sempre rincorrendo Pessoa



L’unico indizio
della coscienza di esistere
è l’impulso al porsi domande.

Quando la curiosità
esprime forza centripeta,
coglie la possibilità
che l’autentico essere
non sia “oltre”,
ma che noi stessi
abitiamo un “oltre”:

uno dei milioni
sui quali pochi altri
si pongono domande.

7.4.25

Missive disperse



Il vecchio impiegato
dell’Ufficio Postale
piegò gli angoli delle labbra
e, contemporaneamente,
sollevó, senza apparente sforzo,
le virgole dei sopraccigli.

Mi giudicava così,
appeso al suo sarcasmo,
mentre dalle mani
mi scappava via
l’ennesima lettera
inutile come una prigione.

Tutte quelle poesie
le recapitava lui
ai cuori trasferiti,
indirizzi inesistenti,
destinatari sconosciuti.

Lo pagavano profumatamente
per generare l’illusione
di averle consegnate.

1.4.25

L’inganno d’Aprile



Aprile
è un rubinetto che perde,
un mozzicone di sigaretta
acceso nella notte umida.

Aprile ti mette in disordine
le coperte, i pensieri, i desideri
e cammina scalzo
nascondendo le pantofole
sotto un letto di malinconie.

Aprile tenta di ingannarti
con i colori a pastello
su logore tende di grigio.

Lui è in buona fede:
lo capisco in ritardo
quando mi ha già lasciato
correndo verso il mare.

26.3.25

Il parco e l’altalena



C’era un’altalena
annodata ai profumi
di un parco antico.

Penzolava attraente
verso sguardi curiosi
e braccia smanicate.

Defilato e trasparente
attendevo anch’io
con sommesse vibrazioni
di vedere il primo salto
su quel sedile di legno.

Furono dei capelli
dal colore di corteccia
che si agitarono
capricciosi sulla schiena
e vidi partire la rincorsa.

Dolci erano gli ondeggi
con le materne spinte
in un trionfo di sorrisi
e la manina sollevata
a fare ciao alle nuvole.

Volli accostarmi
a chiedere con lo sguardo
un segno d’intesa
per aiutare anch’io
a prendere in giro le rondini.

Il mento si abbassò,
il sorriso si divise,
raccontai una storia
di fatine ed aquiloni
e per qualche minuto
il parco ammutolì.

È passato tanto tempo
il parco non c’è più
e nemmeno l’altalena:
oggi c’è una donna
che non ricorda più
e mai ricorderà
chi giocò con lei
in un balbettio
di primavera.

23.3.25

Scritture brevi: Il vecchio molo



Era la fine di aprile. In quel periodo il suo paese si gode lo spettacolo di una primavera in trionfo e di un’estate in embrione, che si prendono sottobraccio come vecchie amiche, scambiandosi i loro migliori doni: i profumi della natura in festa, deliziati da una temperatura gradevole, da apprezzare in una rarefazione di moltitudini.
Il giorno di festa lo sospinse verso il mare.
Il suo luogo preferito era un vecchio molo abbandonato, dove un tempo approdavano mercantili, circondato da una larga cala protetta dal maestrale. Stese il suo telo sulla liscia superficie di cemento e si sedette comodamente in un silenzio surreale. Il sole aveva preso possesso del cielo come un antico feudatario medievale, scalciando via ogni tentativo di nuvole. L’aria era avvolta da una calura inebriante. Il mare aveva apparecchiato una tavola trasparente, sulla quale qualche timida onda si limitava ad accarezzare gli scogli, dove i granchi sgambettavano pigramente. I gabbiani sembravano volare d’inerzia, come cercassero comode amache da occupare con le ali aperte per abbronzarsi.
Da qualche giorno era depresso. Aveva la sensazione che l’amore della sua vita fosse nella fase terminale. Non aveva bisogno di riflettere più di tanto su cosa stava accadendo per una ragione ben precisa: era certo, per com’era la sua indole, che qualsiasi decisione avesse preso, avrebbe finito per distribuire sofferenza sulle persone intorno a lui e i relativi rimorsi lo avrebbero inseguito incessantemente. Sarebbe accaduto anche ove avesse deciso di non decidere. Questo peso lo opprimeva come un macigno sul torace.
Si distese sull’asciugamano e indossò gli auricolari. La musica da sempre aveva il potere di trascinarlo lontano. A volte la cercava per distrarsi. In altri casi per infossarsi ancora di più nel dolore, per escoriarsi l’anima, cercare redenzione o farsi scomunicare dalla vita.

“𝙄 𝙛𝙤𝙪𝙣𝙙 𝙖 𝙡𝙤𝙫𝙚 𝙛𝙤𝙧 𝙢𝙚 𝙊𝙝, 𝙙𝙖𝙧𝙡𝙞𝙣𝙜, 𝙟𝙪𝙨𝙩 𝙙𝙞𝙫𝙚 𝙧𝙞𝙜𝙝𝙩 𝙞𝙣”.

Le note entrarono nei suoi padiglioni con la forza di un ariete. Quella canzone era ormai una hit tra le più conosciute e, come spesso accade, il suo stesso successo la ridimensionava in originalità e trasporto. Ma la musica ha una connessione stretta e dirompente con i momenti topici in cui viene ascoltata. E questo, per lui, era uno di quelli.

“𝙊𝙝, 𝙙𝙖𝙧𝙡𝙞𝙣𝙜, 𝙟𝙪𝙨𝙩 𝙠𝙞𝙨𝙨 𝙢𝙚 𝙨𝙡𝙤𝙬, 𝙮𝙤𝙪𝙧 𝙝𝙚𝙖𝙧𝙩 𝙞𝙨 𝙖𝙡𝙡 𝙄 𝙤𝙬𝙣”.

Il suo cuore iniziò ad accelerare, inciampando e ingolfandosi come un’auto che passasse repentinamente dall’asfalto allo sterrato. Gli si materializzò il volto di lei, sorridente, chino su un orizzonte ignaro e inondato di luce. Il sole intuì di essere d’impaccio e richiamò velocemente un cirro d’emergenza. Ebbe anche la sensazione che i gabbiani, educatamente, scansassero quello spaccato di cielo per non interferire con la sua proiezione.
Pensò che l’amava, oh si! L’amava davvero tanto e non voleva perderla.

“𝙊𝙝, 𝙗𝙖𝙗𝙮, 𝙄'𝙢 𝙙𝙖𝙣𝙘𝙞𝙣' 𝙞𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙙𝙖𝙧𝙠 𝙬𝙞𝙩𝙝 𝙮𝙤𝙪 𝙗𝙚𝙩𝙬𝙚𝙚𝙣 𝙢𝙮 𝙖𝙧𝙢𝙨 𝘽𝙖𝙧𝙚𝙛𝙤𝙤𝙩 𝙤𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙜𝙧𝙖𝙨𝙨 𝙬𝙝𝙞𝙡𝙚 𝙡𝙞𝙨𝙩𝙚𝙣𝙞𝙣' 𝙩𝙤 𝙤𝙪𝙧 𝙛𝙖𝙫𝙤𝙪𝙧𝙞𝙩𝙚 𝙨𝙤𝙣𝙜”.

Gli venne in mente che aveva sempre desiderato una cosa che non si era ancora potuta materializzare. Voleva ballare con lei un lento come si usava negli anni ‘70, interminabile, guancia a guancia, con i suoi capelli che gli finivano negli occhi, baciandole i lobi delle orecchie, e mormorandole cose ridicole, sconclusionate, poesie di bambini.
Ormai piangeva a dirotto e i gabbiani disegnavano ghirigori in quello spazio vuoto dove si era dissolto il sogno.
Si tolse gli auricolari e notò che il sole aveva riconquistato il suo incontrastato dominio.
Era solo, aggrappato a quel vecchio molo, dove un tempo poderosi natanti avevano ghermito la terra, mentre ora la sua fragile barchetta stava lentamente prendendo il largo verso un misterioso destino.

2.3.25

Scritture brevi: Il giardiniere


Van Gogh: Il giardiniere


“Stai tranquillo”, mi dicevano. E questa cosa, per di più, la leggevo da tutte le parti: sui biglietti dei baci Perugina e tra i versi dei poeti famosi. E forse avevo iniziato un pò a crederci.
Sarà così: Il Tempo ha le sue proprietà taumaturgiche.

“Arriverà ogni giorno come una brezza delicata e un pochino alla volta ti si sfocherà tutto”,

come quelle pellicole Super 8 che giravano sui proiettori decenni fa. E come succede per i “mantra”, la norma non vale per tutti, o forse per pochi o nessuno. Chissà.

Allora io ho provato ad immaginare il Tempo nelle sembianze di un abbronzato giardiniere che un giorno viene a far visita.


- Salve! Come va? Le serve qualche lavoretto?
- No guardi, non credo proprio.
- Sa perché glielo chiedo? Passo spesso di qui e ho notato che il suo terreno è da anni pieno di buche.
- Ha ragione. Ma non ho la forza e neanche tanta voglia, forse, di riempirle.
- Senta, io sono un esperto imbattibile in queste incombenze. Mi chiamano tutti - a volte m’invocano - per provvedere a ricoprire vuoti che, a parte l’aspetto estetico, possono divenire ricettacolo di indesiderabili conseguenze.
- Dice davvero? Lei ha così tali competenze da svolgere in modo semplice ed indolore questo lavoro?
- Assolutamente. Non se ne pentirebbe e mi ringrazierà per aver riportato il suo terreno nelle condizioni ottimali per andare avanti.

Dirò la verità, queste parole mi facevano riflettere. Un giardiniere di quell’esperienza avrebbe potuto fare al caso mio. Quelle buche sarebbero state riempite ed io non sarei stato più costretto a fare giri larghi ogni santo giorno, per scansarle e non doverle incrociare per poi stare a rimuginare.

- Va bene, accetto la sua proposta. Quando intende iniziare?
- Anche subito, se è d’accordo.
- Certamente, prima si incomincia e prima si finisce.

Pausa.

- Allora? Cosa sta aspettando?
- Eh! Mi deve dare gli attrezzi!
- Cosa? Ma che razza di giardiniere è lei? Si presenta senza attrezzi?
- Ascolti, per questo lavoro io ci metto la manodopera fatta di lentezza e accuratezza, non lascio fastidiosi residui, ma lei deve crederci davvero e fornire la necessaria collaborazione.
- Ho capito. E se io non avessi gli arnesi che servano allo scopo?
- Guardi bene. Ce li hanno tutti. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, se li procuri. Deve dimostrare che davvero ci tiene, altrimenti io non posso far nulla.
- Così lei mi sta dicendo che io, in fretta e furia, dovrei affacciarmi alla prima ferramenta e raccattare le prime cose che trovo? Mmmm…sa che le dico? Lasci stare quelle buche. Ormai sono storia e parte della mia terra. E poi, chi mi dice che se le facessi ricoprire non ne vengano poi fuori altre, meno profonde, meno perfette, meno vissute? No guardi, laggiù in fondo a quelle buche, scavando, è venuto fuori quello che sono ora, il vero me stesso. 
- A lei la scelta, io le ho fatto la mia proposta. Mi stia bene.
- Arrivederci.
- Addio.

26.2.25

Try - P!nk



La mia reinterpretazione.


La domanda è sempre uguale:
Cosa starai facendo ora,
proprio ora?
Mi viene di chiedertelo
sotto la cenere
di un fuoco che non smette
non smette mai di bruciare.
Un fuoco che non uccide
perché il suo compito
è solo far soffrire.
Ma perché innamorarsi
se poi si deve bruciare?
Sarebbe più facile scomparire
che stare distesi tra le domande.
Non so se riuscirò ad alzarmi
ma devo provare e riprovare
provare e riprovare
per tornare a camminare
e spegnere questo fuoco.
Provare e riprovare
provare e riprovare
fino a quando tornerò a camminare
fino a quando mi chiederò ancora:
Cosa starai facendo ora?

24.2.25

Abissi di luna



E così, in sincrono
mentre la luna si fa mare
mi assale la tua onda
inabissandomi e frugandomi,
anima dissetante,
densità, unicità, furore,
infine estremo candore,
trabocchi da tutti i pori
a secernere mistero.

18.2.25

Ti riconobbi



Ti riconobbi subito.
Ti portavi il cuore addosso,
cieco ed incredulo.
Strascinavi i pensieri
su letti di lacrime disseccate.
Le tue guance si chiedevano
se davvero
avessero inventato i sorrisi.
Camminavi scalza
sulle spine degli inganni.

Ti riconobbi subito.
Ti avevo baciato la fronte
prima di nascere
sapendo
che saremmo dovuti morire tante volte
prima di incontrarci.

16.2.25

Posso?



Posso slegarti i capelli?
Portarti in bici,
regalarti conchiglie,
sporcarti di sabbia e sogni,
leccarti gli sbuffi di nutella?

Ti va se riavvolgo il nastro
perché non so se ho capito bene
quella volta che mi hai detto
“sono tua”?

Posso, per favore,
dimenticarmi
come ti ho conosciuta,
inciampando nei sorrisi,
per incontrarti di nuovo?

Posso? Su dai facciamolo…

12.2.25

Le dita del poeta



Meteore astrattive
trafiggono orizzonti verticali
indicati da ossessive falangi
mentre il poeta
percuote parole desuete
inesausto carpentiere di sogni
scalpiccia mirabilie
sfaccendato d’amore.

9.2.25

Someone Like You - Adele



La mia “rilettura”

Ti chiedo scusa
se ogni tanto senza permesso
ti trascino nei miei pensieri.
So che hai una vita tua
che forse sei felice
perché hai le cose
che io non ti potevo dare
perché era impossibile
cercarle sulle nuvole.

Mi sembra ieri
che la luna ci raccontava favole
e mi sembrerà sempre ieri
anche tra mille anni.

Ti chiedo scusa per i miei sogni
in cui ti invito a ballare
ma volevo ti ricordassi
quando mi dicevi
“Saremo in tre
io te e i calzini spaiati
e, dai,
qualche volta l’amore dura
anche se a volte fa tanto male”.

Non fa nulla
troverò una come te,
altrimenti la inventerò
e le scriverò lettere d’amore
su post-it attaccati al cielo.

Ti chiedo scusa
per le mie poesie
sono troppo invadenti
perché leggere come le stelle,
ma volevo ti ricordassi
quando mi dicevi:
“Saremo in tre
io, te, e le macchie di caffè
perché, dai,
qualche volta l’amore dura
anche se a volte fa proprio male”.

3.2.25

My way - Frank Sinatra


La mia reinterpretazione:

Un giorno malaticcio
di un febbraio informe
mentre camminavo
su una strada
acciottolata di pensieri,
scalciando parole mal viste,
mi sono voltato indietro
richiamato nel dubbio
dalle mie stesse scarpe.

E ho guardato le cose
con le loro anime lasciate,
ciò che ho amato e perso,
ciò che continuerò ad amare
le sconfitte illuminate,
e le vittorie oscurate.

Ma sono stato io
e l’ho fatto a modo mio
con in saccoccia gli sbagli
le tentazioni e gli inganni.

Solo io ho camminato
su questa polvere di eventi
e tutte le volte
che ho travolto qualcuno
ho chiesto perdono
fuori e dentro di me,
molto dentro di me.

Ma sono stato io
e l’ho fatto a modo mio
con in testa la vita
e la voglia di sogno.

E ora sono qui
non manca molto ormai
in alto ci sono stelle sconosciute,
mondi fantastici
e sono grato a me stesso
per la strada che ho percorso
amando, soffrendo,
ferendo e ferendomi.

Ma sono stato io
e l’ho fatto a modo mio.

29.1.25

Dimmi se hai sete



Questa notte
raccontami di te
del rossetto sbavato,
di quel tacco spuntato
e di quegli spaghetti improvvisati
un pò scotti ed un pò tristi.

Raccontami del tuo orgoglio
masticato con gusto,
e di quel bacio sulla fronte
alla bambina cresciuta in fretta.

In questa notte inutile
di lacrime e preghiere
dimmi se hai sete,
se ti serve un ritornello,
se cerchi ancora
un brivido sottolineato
al quarto verso
della nostra poesia.

24.1.25

Il bar delle briciole



Dopo tanti anni
sono tornato in quel bar
dove ci rubavamo gli sguardi
e le dita si sfioravano
su tazzine compiacenti.

Avevamo poco tempo,
sempre poco, maledetto tempo,
ma che importava,
se ci attendeva il “per sempre”.

Un caffè decaffeinato per te,
il mio cappuccino,
ed il malizioso cornetto
diviso in due baci.

Che bizzarro quel bar
dove ci guardavano tutti,
ma non c’era nessuno.

Che teatro quel bar
dove ci ignoravano tutti,
ma era pieno di occhi.

Andavamo via
con le briciole addosso
che ci rammentavano
per tutto il giorno
di esserci amati lì,
in quel bar
sotto il tavolino
tra i benpensanti.

Dopo tanti anni
sono tornato in quel bar.
Ma non c’era più il bar,
nè le tazzine,
nè le briciole.
La gente aveva altro da fare.

Non c’eri più neanche tu
anche se,
guardando meglio,
ti baciavo ancora.

Parole senza meta

📷 Jean Cocteau, Il sangue di un poeta, 1930


Inaridirsi di parole
anarchiche
è chiacchiericcio
senza meta,
bulimismo stoico,
riflesso condizionato
dal rifluire
in un Nulla cosmico
dove Ulisse
annega
nell’assenza di Penelope.

19.1.25

Le poesie si scrivono da sole. (Bukovskiana)



Sai che mi succede?
Non come fanno altri che si siedono sotto un albero, guardano la luna e poi pensano: “Ora le scrivo qualcosa di bello.”
No no, per niente.
A me accade che trovo una tavola apparecchiata di parole, musica e tanto profumo di te. E non parlo di Chanel, io dico il tuo sudore, il tuo stupendo odore di donna scalza e spettinata dopo una notte d’amore e barzellette sconce. Non devo fare nessuno sforzo, tipo mettere una parola di qua ed una di là, inventare verbi o piazzare metafore e ossimori. Le parole prendono un disordine preciso seguendo le nostre follie, girano in tondo al tuo corpo, si bevono tutto il vino, si sparpagliano come sale, si mescolano e vibrano. Oh, quanto vibrano. Mi portano via lontano, in alto, ma sempre con la tua mano nella mia mano. E non so mai dove arriveremo, amore mio. Ma qualunque posto sia, anche l’inferno, troveremo lì pronte le nostre poesie, ad aspettarci, a prenderci in giro, a disegnare sogni, a danzare su fogli imbrattati di stelle.

Le lacrime della luna



Le poesie
sono lacrime raccolte
dalle guance della luna
una sull’altra
fanno una scala d’argento
per raggiungere
le dimore celesti
degli amori dispersi.

Siamo ciò che si vede?



La nebbia
iato tra l’essere e il possibile,
oscuro attonito frantumarsi,
elisione di pulsioni,
costrizione a fermarsi
sull’orlo del dubbio
tra ciò che vorremmo scrutare
e l’infinita probabilità
di più mondi invisibili
dove nuota l’amalgama
di anima e materia.

12.1.25

Scritture brevi: La lezione dei fenicotteri



Quella sera si dovevano vedere. E in lui si agitavano onde contrapposte. Come sempre. Era trascorso un pò di tempo dall’ultima volta e non vedeva l’ora di toccarla, di sentire il suo profumo, di farla divertire e donarle attimi di felicità. Erano momenti in cui chiudevano il mondo fuori, insieme alla precarietà e le contraddizioni proprie di un rapporto costretto a nascondersi alla luce del sole. D’altra parte, forse anche per le problematiche di quella situazione, quando si dovevano incontrare, lui si faceva inchiodare dall’ansia. Percezione di inadeguatezza, paura di deluderla, sensi di colpa mai sopiti. Lei però aveva la capacità di azzerare tutto, rivoltando le sue paure come calzini e sistemandogli i pensieri nella mente con una metodica che applicherebbe una governante in un disordinato ripostiglio.
Si tranquillizzò un pò pensando che, sicuramente, anche questa volta sarebbe andata così.
Salì velocemente a piedi le quattro rampe di scale, entrò nell’appartamento e si chiuse la porta alle spalle.
Il suo sorriso lo accolse come un vento fresco in una torrida giornata estiva.
La baciò, prima sulla fronte, poi sul naso e poi sulla bocca. Odorava di massa e glielo disse.

“Si, in effetti ho preparato una pizza.”
“Ma l’hai fatta riposare sulla pancia?”
“Scemo!”

Risero e fu subito casa, sincronia, complicità. Le aveva portato un gelato, alla frutta, cosa che la faceva impazzire.

“Mmmmm! Grazie amore!”

Si sedette a tavola e notò la TV accesa. Stavano trasmettendo un documentario.

“Cosa stai guardando?”
“Niente di che, parlano dei fenicotteri.”

La voce fuori campo stava dicendo:

“…e si fermano in gruppi anche numerosi tutti su di una sola zampa…”

“Hai sentito? Che strano.”
“Si” rispose lei con voce annoiata “sembra che riescano a riposare meglio così.”

La spiegazione sembrò soddisfare la curiosità e l’aroma della pizza s’impadronì dell’attenzione generale.
Le loro conversazioni sfioravano appena le vicende di tutti i giorni, salvo non fosse accaduto qualcosa di veramente importante. Lui lavorava come capo servizio nelle ferrovie, ma fin da bambino amava la pittura e aveva anche esposto opere in qualche galleria locale. Lei insegnava inglese alle scuole medie, ma nei ritagli di tempo, suonava il violino. Per questo quasi sempre finivano per far l’amore dopo che lui le mostrava qualche bozzetto e lei gli strimpellava sopra, ispirata dai suoi soggetti.
Si amavano con la dolcezza e la furia che le loro anime dettavano ai corpi.
Lui, immancabilmente, alla fine piangeva, come se non ci fosse stato domani.
Quella sera però accadde che mentre si preparava per andar via, chissà per quale motivo, gli tornò in mente il documentario con quelle strane immagini dei fenicotteri tutti inquadrati in file ordinate e tutti che si reggevano su di una zampa.
Si salutarono con la solita passione. Non pensò più ai fenicotteri.
Ma fu anche l’ultima volta che la vide.

Erano passati anni e lui era sempre rimasto con una nuvola di domande in testa che lo seguiva dappertutto. Aveva ormai rinunciato a cercare ostinatamente delle risposte a quelle domande, ma, se avesse potuto, le avrebbe volentieri cancellate battendo ferocemente la “x” sulla tastiera della sua vita. Non si era mai più innamorato e i suoi disegni facevano una ben triste fine nel cestino della carta straccia. Vagava spesso per le strade del paese e ogni strada, ogni vicolo, ogni piazza, persino ogni marciapiede lo rincorreva con la frase: “Qui sei stato con lei, ricordi?” Si, purtroppo ricordava tutto con precisione. Ogni gesto, ogni battuta, ogni risata, erano maligni scherzetti che lo attendevano al varco.
Una mattina si ritrovò sul molo del faro, circondato da gabbiani querulanti. In lontananza potè scorgere una figura eretta sull’orlo della banchina. Si avvicinò e si rese conto che era una ragazza con accanto una sedia a rotelle. Ma la ragazza era in piedi e si reggeva su di una sola gamba! Con cautela le si accostò. Poteva avere una quindicina d’anni. Quando si accorse della sua presenza, le rivolse la parola.

“Buongiorno, ti serve aiuto?”
“No grazie, è molto gentile, ma sono a posto.”
“Ma come fai a resistere?”
“Non è difficile. Lo faccio spesso.”
“Cosa ti è accaduto?…se posso chiedere…”
“Ho avuto un incidente anni fa. Ho fatto tanta riabilitazione, ma in realtà non era solo l’esercizio fisico la cosa di cui avevo più bisogno.”
“E di cosa?”
“Avevo perso un pezzo di me, importante, quasi fondamentale. All’inizio mi sentivo persa, non avrei più camminato, la vita mi sembrava una cosa ordinaria, senza più slanci. Poi all’improvviso ho capito che dovevo rialzarmi, che quel pezzo di me in realtà non l’avevo perso, ma l’avevo solo accantonato e la mia anima lo aveva conservato. Ora ogni volta che voglio ringraziarla, questa meravigliosa vita, mi alzo sulla gamba rimasta e ne sento di nuovo due, saluto il cielo e ritorno a sorridere.”

Lui la guardò con ammirazione e, come d’incanto, gli tornò in mente il documentario.

“Ti ringrazio tanto, posso abbracciarti? Non sai che regalo mi hai fatto oggi”.

Si allontanò con una nuova luce negli occhi: aveva scoperto la lezione dei fenicotteri.

4.1.25

Scritture brevi: Tu sei così fragile



Un giorno potrebbe accadere che vi siano rivolte queste parole. Allora fermate con una mano il tempo e lasciatevi toccare con dolcezza dalla delicata sinestesia innescata dalle labbra che le ha pronunciate. 
Improvvisamente tutte le maschere, le corazze, i volti, le resistenze di cui avete dotato il vostro background vengono oltrepassate. È tutto un ferrovecchio, un superfluo, un armamentario desueto. Chi vi ha guardato in trasparenza ha delle facoltà che credevate appartenere alla sfera dei miracoli.
Tenetevi stretta quella persona che ha rinvenuto la chiave della vostra serratura più intima. Quella chiave che avevate scagliato via con rabbia tra le onde di una spiaggia deserta e senza luna.
Tenetevi strette quelle dita che hanno scavato l’argilla nel vostro cuore, tirando fuori quel piccolo, piccolo “meglio” che sopravviveva, tra mille stenti e rimpianti.
Tenetevi stretta la lente di quell’anima che ha osservato i minuscoli pezzetti in cui si era frantumata la vostra fantasia e li ha ricomposti sul palmo della mano, con la colla dell’affinità, perché li ha riconosciuti simili ai suoi.
Tenetevi stretti quegli occhi che hanno guardato lontano per scoprire nudità che erano vicinissime, ma che neanche voi immaginavate potessero ancora esistere.
“Tu sei così fragile” è la mano che ti accarezza le ombre, la sutura delle ferite nei tuoi pensieri, la cieca fiducia che avevi nascosto chissà dove.
“Tu sei così fragile” è la parola “fine” che manca nelle vecchie poesie e insieme la parola “ancora” che manca in quelle nuove.