29 maggio 2012

Il gioco del calcio


1968. Un anno che di solito viene citato solo con le ultime due cifre, perché non può confondersi con nessun altro secolo. Avevo da qualche tempo iniziato a seguire il calcio. Come fanno tutti i bambini: i colori del gagliardetto, gli amichetti, le figurine, le belle giocate. Non era lo sport che praticavo ma, prima o poi ti ci trovi immerso e coinvolto. Coltivavo la mia passione da solo in casa, contro tutti, in ossequio al mio carattere ribelle, un papà interista e democristiano (che sfiga!) e mamma e fratello juventini: che brutta compagnia! Il calcio era la Radio. Quella a transistor, portatile, che stressava le pile e gracchiava le voci. Oppure il Radiogrammofono gigante, a valvole, che impiegava dieci minuti per accendersi e, dovevi calcolare bene, altrimenti ti perdevi l’inizio di “Tutto il calcio, minuto per minuto”. La Tv aveva due canali e due colori e faceva stare in linea, perchè dovevi percorrere tanti metri al giorno per commutare. La tivvù dei ragazzi e poi, all’interno del Telegiornale (quello col mappamondo), notizie di sport, ma solo quali partite si sarebbero giocate e la classifica. Niente commenti, gossip, telecamere nei bagni dello stadio e quant’altro. La Domenica era il clou. Partita in differita alle 19. Poi la Sportiva alle 21, che dribblava anche il Carosello, per noi destinati inderogabilmente al letto. Gianni Rivera il mio mito. L’abatino di Brera, quello che sembrava stesse su un parquet con la stecca da biliardo ai piedi. Quello che parlava alla palla come ad un essere vivente, indicandogli la strada giusta. Quello che nessun difensore osava toccare perché temevano di essere colpiti da una stregoneria. Quello che apriva la strada a Pierino PratiLaPeste, e il pallone di cuoio cucito a mano, non una sfera perfetta, andava dove andava, dove doveva andare. Il Milan di Nereo Rocco, il “paron”, ogni intervista a rintracciare l’Italiano smarrito, in mezzo ad un gergo misto dialetto-calcese. Era frequente per tutti snocciolare la formazione preferita a memoria come fosse San Martino di Carducci. Gli altri giocatori? Semisconosciuti, se non fosse per le figurine Panini. Iniziai a giocare una schedina del Totocalcio. Due colonne costavano 50 lire quanto un cono gelato con (poca) panna, di quelli che ti si squagliavano tra le mani e poi lo finivi leccandoti le dita. Una volta, avevo undici sulla scheda e aspettavo il risultato di Milan-Fiorentina che si doveva vedere alla TV, in differita. Il mitico Enrico Ameri (che poesia!) non diceva il risultato finale alla fine della trasmissione radiofonica per lasciare il brivido della suspence. Ovviamente avevo l’1, manco a dirlo. Il Milan vinse 2-0 e feci dodici. Vinsi 35.000 lire e le misi nel salvadanaio, quello blu della Banca dell’Agricoltura, con maniglia e chiave su cassetto a ribalta. Come Pulcinella, non ricordo più cosa ne feci. Il Gioco era gioco. Nudo e crudo, puro e azzimo, come il pane che ti nutre e non ti gonfia, zolloso e non ampolloso come il campo degli stadi del 1968, dove garretti e terreno erano tutt’uno, dove si prendeva a calci la palla e non la vita.

21 maggio 2012

Ex Italcementi: rifacciamo Villa De Martino!


Nelle tiepide serate d’agosto dopo che gli ultimi filamenti di sole rossastro avevano disegnato l’aria si preparavano i tavolini e gli scranni dell’orchestrina. Fra poco sarebbe stata musica e folla, fra poco le coppie avrebbero danzato sulle note dei più famosi “chansonnier”, fra poco l’atmosfera sarebbe stata intrisa di festa e di magia. I nostri padri, le nostre zie, gli amici di famiglia, i notabili e i borghesi più semplici, tutti avrebbero provato l’inebriante volteggiare nel verde, immersi tra palme e pineti, tra bouganville e ciclamino. Sarebbero sbocciati amori, ne sarebbero tramontati altri, si sarebbe discusso di progresso e civiltà, di ideali e di sogni di grandezza, si sarebbero gustate le tele e i colori dei pittori di Puglia. Questa era Villa De Martino negli anni ’50. Un’oasi di verde e seduzione. Poi il cemento sovrano e cieco, ebbe il sopravvento. E Villa De Martino sopravvive nei ricordi, e in un triste giardinetto soffocato sotto via Barnaba.
La Villa De Martino con annesso palazzo signorile fu realizzata da Carlo De Martino, armatore monopolitano, su suggerimento della moglie di origini torinesi, Bice Gazzo. L’area verde di oltre un ettaro, con affaccio sul porto, era impreziosita da una statua di Diana cacciatrice e offriva spazio a serate danzanti e varie manifestazioni. Dopo il trasferimento di proprietà ai Giannulo, all’inizio degli anni ’60, venne quasi completamente distrutta per fare posto ad un gruppo di fabbricati. Nel sottosuolo vi è una cripta con alcuni affreschi. Casualmente anche a Posillipo esisteva una “Villa De Martino” che, nel 1962, venne distrutta per far posto ad un palazzo di cinque piani, dando impulso anche ad una interrogazione parlamentare.
Leggo del progetto di “riqualificazione urbana” (sotto questo attributo può nascondersi di tutto), dell’area Italcementi. Leggo di cubature e volumetrie. Leggo di cemento ancora sovrano e cieco. Abbiamo un’occasione per chiedere perdono alla Storia: restituiamo Villa De Martino ai monopolitani. In quei luoghi quasi confinanti alla sua posizione originaria. Restituiamo alla città un polmone sul mare, un balcone verde sull’azzurro. Ritroviamo il gusto della convivialità sobria e civile in un contesto unico e imperdibile. Ce ne sarebbero grate le generazioni a venire.