22.2.18

Antonio Brescia: l'uomo che ha scalato l'infinito a mani nude

Non conoscevo Antonio Brescia. E come me certamente molti altri. Ho perduto un’occasione eccezionale per un rendez-vous con una personalità complessa, poliedrica, un talento adamantino che aveva preso domicilio nell’esosfera e ci contemplava, talvolta con disprezzo per le nostre querule meschinità, talvolta con l’amore che si deve comunque ai propri simili, ancorché imperfetti. Me ne ha parlato il fratello Piero, pervaso da un sentimento commovente che si stenta a ritrovare in quel coacervo di egoismi che è divenuta la nostra contraddittoria esistenza. Il loro rapporto mi ha ricordato lo splendido film di Barry Levinson “Rain Man” nel quale il fratello minore interpretato da Tom Cruise dedica la sua vita al maggiore (Dustin Hofmann), scoprendo ad un certo punto che il suo stato autistico nascondeva una genialità insospettata. Piero, di professione fisioterapista, ma di DNA musicista, mi ha parlato con passione di un fratello da sempre “sui generis”, ma che la sofferenza ha spostato ai confini dell’irrazionale, oltre i limiti dell’umana percezione, verso la ricerca delle Questioni Universali. Mi ha offerto per la lettura due volumetti di poesie: “Stelle d’acqua” del 2005 e “Parabole giocanti” del 2008. A primo acchito pare di essere entrati per errore in un luogo dedicato a pochi eletti, dove vigono leggi della comunicazione estremamente ristrette, i cui tentativi di interpretazione restituiscono il dubbio di essere in veste di intrusi. Ma pian piano restiamo irretiti da un piano semantico che non è semplice ricerca sfiziosa di metalinguaggi, non è vago sfoggiare di contorsionismi estetici: si tratta di una serie di diapositive che il poeta scatta al suo pensiero dinamico, ultraveloce, che cerca spasmodicamente di rimediare su carta, lasciando sempre qualcosa oltre, ancorché la carta si rivela insufficiente a raccogliere. Piero mi racconta che anche la sua pittura ha questa caratteristica, infatti Antonio nasce come pittore e poi trascura questa inclinazione per dedicarsi alla poesia. Evidentemente lo strumento non regge il compito destinatogli, essendo la Realtà incapace di essere al servizio pedissequo ed integrale dell’Assoluto. Eppure Antonio, a ben vedere, in ogni componimento offre una chiave di lettura, anche in un solo verso.
Leit-motiv della sua prima raccolta è il sentimento fortemente critico verso i nostri pensieri miseri, le banali questioni di interesse, gli stupidi rovelli in cui si dibatte l’umanità. Pare di riecheggiare le “maledizioni” di Baudelaire e le stoccate esotico-mistiche e compulsive del sardonico Battiato. Egli è “Un anarchico garbato”:

Lontano da chi ruba ai corvi le carogne
e dai guardoni paghi della ragione che indietreggia…
un anarchico garbato arrischiò la propria pelle
_ come un panno esposto alla freddaNotte _
per raccogliere “la rugiada delle Stelle”

Mentre i prodromi di una inclinazione al tormento è sicuramente “Io faccio il pagliaccio” che richiama la classica figura del clown triste, incatenato ad una maschera che non sopporta:

Io faccio il pagliaccio, ma quando la farsa sarà finita
riprenderò il mio volto di Poeta.

Meravigliosa e indicativa dello sforzo inaudito di “recintare” in mera espressione verbale la vulcanica fantasmagoria delle sue sensazioni è la poesia “Parole”:

Eppure le parole si rivestono di splendore
_ prendono un “valoreinestimabile” _
ma solamente sotto l’inchiostro
che sa avvolgere l’UNIVERSO…
per inglobarLo nella propria legge di carta.

Nella seconda raccolta Antonio è entrato appieno nel vortice della solitudine e della ricerca infruttuosa delle risposte a domande che pochi si pongono, sprofondando nel rumoroso silenzio dell’ignoto. Piero mi racconta che egli si definiva “monaco free-lance”, cioè seguace di una religione che non esiste, come un nomade del pensiero, “emigrante di tutti i giorni”, intrattabile agli schemi, ribelle ad libitum. Le “parabole giocanti” sono traiettorie sfasate nel tempo e nello spazio, proiezioni cosmiche tendenti alla gioia, ma imprigionate da dolorose catene di solitudine e incomprensione
Il verso si fa iconoclasta, a tratti virulento, il passo pachidermico, iperbolico, incurante delle lacerazioni provocate dallo strusciare sulle pareti asfittiche delle convenzioni. Antonio veste il talare laico-blasfemo, irridendo e sprezzando chi lo percuote col cilicio dell’emarginazione. La splendida e tremenda “Resurrezioni” è un poema tragico e inverecondo, un urlo dalle tenebre che sale al cielo e lo infiamma di lava furente di orgoglio:

Io sono lo scemo del villaggio
Ma sono anche il suo custode

L’Inferno ha anche sembianze umane ben definite e viene dantescamente trafitto con la legge del contrappasso:

Tutto il male che mi hai fatto
Sarà il bene che io ti farò

Il sale dell’invettiva viene sparso in modo sistemico:

Nel VillaggioGlobale della Prevaricazione
-Il codardo è salito sul trono,
il figlio dell’arroganza posto in alto;
il povero, l’ingenuo…
come bestie da soma Inculate_sodomizzeranno?!

Ma un barlume di volontà riesce ancora ad insinuarsi:

…io mi congedo Stanco
annunciando il prossimo ritorno.

Le liriche alternano pessimismo (preponderante) a speranza (fioca) con un ondeggiare che lascia turbamenti profondi e probabilmente generano rimpianto in chi ha, incolpevolmente, secolarizzato embrioni autodistruttivi. In “miSfoglio” il poeta pare arrendersi a una insoddisfazione cosmica:

Anticipo l’ombra in cui dovrò errare…
con un mazzo di fiori per l’abisso
di rotaie che brillano ancora parallele
e mi ricordano che devo andare

Eppure la sua volontà ha una forza primordiale “Fear no more”:

…più non temere gli ostacoli
che hanno bloccato il tuo fluire
ostruendo le possibilità e i limiti!?
afferrati alle ali della PoesiaASSOLUTA!?

Lo stesso rapporto con la sua arte è messo in discussione poiché essa è matrigna di dubbi insolubili “fra la nostraDemenza e il mioEsilio”:

Barcolliamo su gambe di cera
E sotto i nostri piedi
C’è la strada che conduce alla poesia!?

Sul versante opposto si rivela, non del tutto obnubilata, la dimensione fortemente terrena in“Desideri”:

Chi può fermare i desideri nel loro cammino?!
può il travaglio diventare magico!?
Forzare non vorrei
ma tentare bisogna…Sogna…SOGNA.

Insomma, gli spunti che traboccano dalla lettura tracimano per ogni dove e, ad ogni ripasso, alla stessa stregua della levatrice del tormento dell’Autore, essi si moltiplicano ponendo inevasi quesiti, prima invisibili, in un rincorrersi senza tregua, ma che noi, semplici fruitori, accogliamo con sommo gaudio.

E’ molto difficile metabolizzare la scomparsa di un familiare con il quale, pur essendo in costante connubio, alla fine del viaggio terreno lascia comunque sempre il rimpianto di non aver detto o fatto qualcosa. Ancor più quando la sua assenza ci pare un furto senza spiegazioni. E allora occorre spargere i ricordi, spalmarli nel tempo a venire, cercando di risarcire la memoria offrendo questi doni prodigiosi, questi coriandoli di luce sopraffina al pubblico che, come me, si è perso un Grande. Nutro la speranza che queste mie brevi e, sicuramente insufficienti righe siano il primo, modesto, contributo perché si dia inizio a questo percorso.
Coraggio Piero, è tua la missione.

7.2.18

Passeggiando per il paese che non c'è più (5)

Dedico questa appendice a tutte le inevitabili omissioni intervenute nei precedenti post, anche affidandomi ai gentili suggerimenti di quanti mi hanno riportato alla memoria altri luoghi riaffiorati dalla nebbia del tempo. In Piazza Monsignore sotto il palazzo D'Auria c'era il negozio di calzature di Mirizio dove mia madre mi comprava le prime scarpe, anche quelle di vernice che si aprivano giocando a pallone. Nei pressi dell'Istituto S. Giuseppe c'era il Bar Odeon e la prima succursale della Posta dove andavo ad acquistare i francobolli di prima emissione per la mia collezione. Sull'altro lato della strada, ricordo vagamente il mulino Meo-Evoli, dove ora ci sono i palazzi Alba, l'ultimo mulino "cittadino" rimasto. Sotto l'Istituto "Montessori", occupato dalle prime due classi del Liceo Scientifico c'era il bar Kennedy (poi Florida, ora Blanco) che frequentavamo durante le ricreazioni.
Tanti i bar che mi sono tornati in mente: il Bar Sisina, una vera e propria istituzione alla fine di via S.Anna, dove di fronte ricordo la pizzeria Corallo. Il bar di Giuseppina in via Ten.Vitti, angolo via Marsala e il bar Levante in via Sforza dove ora c'è l'emporio cinese, tutti frequentati per via dei gloriosi flippers (emblematica la "mossa" per evitare di perdere la pallina senza far uscire il "tilt").
In piazza D'Annunzio si fronteggiavano in quotidiana concorrenza il bar Trieste e il Tipsy Bar.
Un discorso a parte merita la sede dell'Arca Gam nel vicolo di fronte al Cinema Vittoria, ora via Ligabue. Anche a Monopoli fiorì una scuola politico/cuturale alternativa il cui mentore fu Angelo Montanaro. Grazie a questa presenza, nel paese vennero introdotti temi che la plumbea egemonia democristiana aveva reso tabù.
Attendo altri preziosi contributi.


13.09.2019: Mi è tornata in mente la mia prima autoradio installata sulla 500 di mia madre che aveva un prezioso opzional: un sedile ribaltabile (uno!). Era la Tanga della Voxson, la più piccola in commercio.