29.10.24

Slegata



Ti tenni stretta
tanto stretta
da farmi male ai sogni
con il cuore slegato
volasti via
col vento della poesia.


18.10.24

La bolla



Nel grigiore sanguigno
di una masticata routine
mi soffiasti come bolla
avvinta da meraviglia.

Con le pupille avvampate
mi tenesti negli occhi
fino al deflagrarmi.

Ti sembrò doloroso
per il tempo infinito
della vita di una bolla.

Facile scrivere



Non è molto complicato
scrivere poesie…

basta sanguinare.

16.10.24

Sutura



Due corsie. Il deserto delle fazioni, chiasso di sabbie verbali, frolla intorno. La miopia non permette di capire che, in fondo, c’è una sutura.
Il miraggio di procedere verso un sole menzognero, contro una reale retromarcia di barbarie.
E tu sei lì, percepisci l’orrenda bellezza della foto.
Forse capitoli, ti arrendi, forse accelleri a cuore stanco, ad occhi sbarrati.
No non puoi, hai delle lame sotto pelle, nello stomaco, qualcosa che ha la fragranza del Fuoco primordiale. Qualcosa che sa di Terra.
E scrivi, come ti viene, come detta il pianto dell’Anima.

10.10.24

Intarsio di mani



Frango le mani
d’armonie disattese
esacerbate note
su accartocciati pentagrammi.

Ma vi fu un tempo
di mani anelanti
precisi incavi di falangi
che tenevano stretta
la musica del fuoco
l’avvitamento di corpi
perifrasi di sensi sfiniti
danzare a tempo sul mondo.

7.10.24

Convogli d’autunno



Ottobre
sale sul predellino
di un trenino di nuvole.
Cincischia il sole,
e ciarla di calma sopraffina.

Solo il mio cuore
rumoreggia scomodo
innervando versi
genuflessi al ricordo
d’irripetibili stagioni.

5.10.24

Ecchimosi del cuore



Il tuo passaggio
fu squarcio
di tela frusta
argine e stallo
di anonimo fluire.

Fu trionfo
di sapide baccanti,
inverso costrutto
del tempo mortale.

La tua presenza
fu dieresi
d’insipidi monologhi
dolce ablazione
di morti continenti.

Fu ganglio
di carnosi artigli
viluppo di braci
catartica nemesi.

Il tuo dissolversi
fu squarcio di lama
aneddoto del Diavolo
torsione bulimica
di Spazio e Tempo.

Ora accarezzo
le ecchimosi del cuore
e le mostro al mondo
con le braccia sollevate
nel cielo della poesia.

4.10.24

Recensione del romanzo "Amen" di Teodoro Fuso

 

Friedrich Nietzsche teorizzava l’impossibilità dell’uomo di sfuggire al proprio destino.
Nella circolarità del tempo egli, per quanto teso verso un percorso di progresso, si ritroverà ad incrociare le sue paure, i suoi desideri, le sue pulsioni. È la teoria dell’”eterno ritorno”. Dodò in questo romanzo mi ha spiazzato: non mi aspettavo dalla sua penna il parto di una “crime story”. L’eterno ritorno è quello del protagonista – Cesare, alias Aldo – svezzato e cresciuto in una Napoli assediata dalla camorra e segnato da una ascendenza che fa riferimento al ventennio fascista. Viene cooptato in un modus vivendi fatto di violenza, malaffare e sudditanza ai capibastone, ma mantiene un suo aplomb costruito sul rispetto conquistato sul campo e anche su un background culturale che ha modo di forgiare in prigione, dove diviene picciotto del bibliotecario, un mammasantissima, che intravede in lui doti non comuni. Tra queste doti c’è anche la sensibilità che, ad onta del contesto da cui è circondato, lo porta ad essere e sentirsi “diverso”. Il destino insegue quindi Cesare come un mastino insaziabile. Lo irride offrendogli occasioni di riscatto e redenzione, come l’amore di una donna proveniente da un mondo completamente diverso ed opposto al suo. Le vicende si susseguono ad un ritmo incalzante e il protagonista è costretto ad emigrare verso lidi più sicuri dove altri intrecci lo attendono al varco, prima che il cerchio si richiuda ancora, in una nemesi rigenerante.
Ormai so che, quando leggo Dodò, devo prepararmi una sedia comoda, popcorn, immaginarmi una bella colonna sonora, magari qualche fazzolettino (non si sa mai mi finisca male un amore); insomma è come andare al cinema sapendo che il film parlerà di qualcosa che ho dentro, come lo hanno dentro molti che condividono con lui un certo humus storico e culturale, e quel qualcosa mi riaccenderà zone rimaste al buio, angoli nascosti, piazze di ragazzi, profumi di rivoluzione. Lo stile di Dodò è quello di uno sceneggiatore prestato alla scrittura. Il ritmo, i dialoghi, i salti temporali come quelli di una cinepresa, la suspense, sono gli ingredienti tipici di trame cinematografiche di successo. E le pagine girano vorticosamente con una leggerezza che consente solo qualche respiro ogni tanto, perché non vedi il momento di sapere “come va a finire”.
Inoltre in quest’opera in particolare ho apprezzato moltissimo sia le ambientazioni della Napoli dei vicoli e bassifondi con il gergo e i soprannomi tipici dei camorristi e, soprattutto, Dodò mi ha accarezzato con le proiezioni di una Parigi ferma nel tempo, con l’alone bohemienne degli artisti del primo novecento, gli scrittori, i filosofi e i poeti maledetti. Grazie all’autore e…il mio desiderio, e lui lo sa, sarebbe vedere un vero film tratto da un suo scritto.