27.4.13

25 aprile: la storia non si cambia




Il tentativo di trascinare la giornata del 25 aprile nel novero delle commemorazioni di una non precisata “pacificazione” nazionale è impresa sia improponibile da un punto di vista storico, sia impresentabile da un punto di vista etico-politico. Chi è schierato in questo filone nostalgico-revisionista vuole semplicemente sfruttare il trascorrere inesorabile del tempo come paravento per coprire colpe e vergogne che sono e rimarranno, purtroppo per loro, indelebili. Il 25 aprile del 1945 i partigiani non sono scesi dalle montagne per stringersi la mano con gli ex gerarchi o per dar loro una pacca sulle spalle incoraggiandoli: “Coraggio la prossima volta vi andrà meglio!”. Il 25 aprile del 1945 si è posta la parola fine ad una guerra di popolo in cui erano ben individuate le figure dei liberatori e degli oppressori, in cui erano ben chiare finalità e intenti di entrambe le parti, in cui se fosse prevalsa la difesa della dittatura, nessuno dell’altro schieramento avrebbe avuto scampo. Il 25 aprile del 1945 ha segnato il tracollo di un regime becero, violento, subdolo ed infame. E di quel regime facevano parte personalità variegate, intellettuali e analfabeti, codardi e violenti, razzisti e trasformisti. Di quel regime faceva parte Araldo di Crollalanza. La nostra neo presidente della Camera Laura Boldrini ci ha ricordato che non esiste un fascismo “buono” ed uno “cattivo”. Esiste solo l’espressione più volgare e ignobile di occupazione del potere che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia. E Araldo di Crollalanza ne era protagonista autorevole e quindi ancora più colpevole di altri. A Tonio Rossani ed a quanti come lui sono alla spasmodica ricerca di una giornata dedicata alla pacificazione, ricordo che il 2 giugno è la festa della Repubblica, nata dalla Resistenza, dopo che venne fatta chiarezza in modo inequivocabile sui ruoli ricoperti tra coloro che avevano scelto le armi della dittatura o la forza della democrazia.

23.4.13

1414: Monopoli si ribella

In Italia quando si parla di volani per la crescita, il pensiero vola immancabilmente al cemento. Sembra l’unico moltiplicatore che dia garanzie e che abbia due grossi vantaggi per la classe politica: mantenere quote di potere autoreferenziale, e non impegnare molto i neuroni in faticose elucubrazioni, giacché, organizzare e gestire appalti è semplice. Altro è pianificare controlli e verifiche. I dati dell'Autorità della vigilanza sui contratti pubblici relativi al 2011 ci dicono che gli appalti in Italia valgono l’8,1% del PIL. Di questi quelli che superano i 150.000 euro sono l’86%. Le cosiddette “grandi opere”. A fronte di ciò Eurostat ci dice che l'Italia è all'ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell'Ue a 27) e al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione: l'8,5% a fronte del 10,9%. Leggevo questi dati “in nuce” a delle riflessioni sulla scoperta del torrione cinquecentesco, avvenuta nei giorni scorsi in seguito ai lavori di rifacimento della piazza XX Settembre. Mi chiedevo, ingenuamente forse, come mai non si possa capovolgere il corso degli eventi. La rilevante scoperta archeologica è avvenuta “per caso” in seguito ad un progetto di sistemazione di un sito pubblico. Ma non si potrebbe partire dall’assunto che cercare di riportare alla luce preziosi reperti del nostro passato possa essere una priorità? E indirizzare conseguentemente risorse che vadano ad investire in quella “posta” di PIL tanto trascurata? L’effetto economico moltiplicativo derivante da un’azione del genere sulla nostra città, dalla vocazione turistica (come amiamo definirla) sarebbe rilevante e non confinerebbe il risultato nei ristretti ambiti estivi, come finora ciecamente si è operato. La moderna archeologia utilizza sistemi di sondaggio preventivo (“carotaggio”) che permette di stratigrafare il terreno consigliandone o meno lo scavo. Immaginiamo come sarebbe suggestivo riportare alla luce i resti della principale Porta Nuova della città, probabilmente giacenti sotto largo Plebiscito. Oppure ritrovare nei pressi di Largo Fontanelle segni della presenza dell’antico monastero domenicano. O rivivere le epiche vicende svoltesi al cospetto delle guglie dell’antico Castello/Acropoli, dove qualche rudere certamente riposa sotto largo Vescovado.




La storia dell’antico castello della città affonda le sue radici nella notte dei tempi. Le vicende che ne hanno caratterizzato l’esistenza hanno un sapore vagamente leggendario. A quel tempo due giganti si fronteggiavano e si alternavano al potere nel teatro tattico-strategico del Mediterraneo: Bisanzio e il Normanno. Per tutti gli storici la matrice normanna di questo fortilizio è fuori discussione. Esattamente si trovava “all’incontro del giardino del palazzo vescovile e le case del Monte Splues, e girava per la strada, per cui si va a S.Domenico” (Cronaca Indelliana). Tuttavia, se indubbiamente, la dominazione normanna iniziata nel 1043, costrinse a trasformare l’architettura difensiva della città, insabbiando l’antico porto-golfo, e rinforzando gli avamposti rivolti verso l’interno, la presenza di un sito “attrezzato” nella zona è già segnalata dall’Indelli, nella sua cronaca, nel 968, quando, descrivendo brevemente le fortificazioni della città (le antiche mura terminavano prima dell’antica chiesetta di S. Caterina “extra moenia”) elenca, tra le altre, “un’Acropoli ove adesso è l’Episcopio”. Qualche indizio dell’esistenza di una qualche opera difensiva pre-normanna si riscontrerebbe anche nel contesto delle vicende che portarono Costante II a scacciare i Longobardi nel 663, dove alcune cronache riferiscono che “...prese i castelli e di paesi della marina Oria, Celia, Conversano, Monopoli, Bari”. Nel campo solo delle ipotesi sconfina quindi un’origine addirittura Longobarda del “castrum”, dato che nel 659 il re Grimoaldo, dovendo effettuare un breve soggiorno a Monopoli, “vi fece costruire varie chiese” (Indelli). Domenico Capitanio (“Il sistema difensivo e la città”, Monopoli nel suo passato, V) riportando le parole dell’Abate Corona lo descrive come “di dimensioni spropositate rispetto alla città, come un capo in un corpo nano, fatto di grossissime pietre, sorgeva su una bella piazza…nel luogo più alto…pareva fusse posto sulle spalle della città…da sopra poi si scopriva tutta la campagna, in modo che la si poteva tenere sempre netta”). Solo queste “grossissime pietre”, non supportate però da alcun ritrovamento, potrebbero far supporre la sovrapposizione di strutture medievali ad un origine primieramente classica. 




L’antico castello fu distrutto nel 1414 (a colpi di artiglieria, ci informa ancora Capitanio). Il Saponaro (V. Saponaro, “Monopoli tra storia e immagini, dalle origini ai giorni nostri”, Fasano 1993) scrive: “I cittadini di Monopoli si ribellarono al castellano, per soprusi e angherie sofferte e assaltarono il castello, radendolo quasi al suolo e uccidendo il castellano”. Più specificamente, le “angherie” a cui si allude erano favoritismi sulle gabelle e concussioni praticate dagli Ufficiali Regi verso coloro che potevano “ungerli” (Nihil sub sole novi…). Il Nardelli invece attribuisce le cause alla prepotenza del Castellano quale custode delle chiavi delle Porte, nell’aprirle molto tardi, anche nella stagione invernale. Fu poi inviata una delegazione alla sovrana Giovanna II per spiegare i motivi del gesto, che non erano attribuibili a ribellione, ma a resistenza contro i soprusi, e la regina perdonò e confermò i privilegi già concessi dal predecessore Ladislao. Insomma, i cittadini di Monopoli sacrificarono la loro “perla” difensiva pur di sottrarsi con orgoglio alle prevaricazioni del “potente” dominatore di turno. Altri tempi, altre coscienze.

20.4.13

Monopoli: storia di un autentico Barone

Scrutando nel passato della nostra città scoviamo figure emerite che si sono distinte per dirittura morale e coscienza civile. Nel Risorgimento queste qualità spesso avevano modo di coniugarsi con il patriottismo, che, in quel tempo, era forza propulsiva della tensione verso la libertà e la giustizia sociale. In questo post propongo la storia del Barone Tommaso Ghezzi Petraroli, rivisitata da Remigio Ferretti in un articolo pubblicato su "Puglia" del marzo 1984, corredato da mie note.


Il barone patriota monopolitano

Il Barone[1] Tommaso Ghezzi-Petraroli è certo una delle figure più fulgide del Risorgimento meridionale. Nato a Monopoli il 21/1/1803 da antica e nobile famiglia di origine spagnola, si mise subito in luce per le sue doti di ricca umanità e viva intelligenza, diventando, appena ventitreenne, Sindaco[2] della città natia, poi, Consigliere provinciale e Deputato provinciale alle Opere Pubbliche. Affascinato dagli alti ideali di libertà, di indipendenza, di Patria[3], congiurò, con altri generosi spiriti di Puglia e Basilicata contro il regime borbonico e fu tra i capi dei moti del 1848. Ma quando trionfò la reazione, egli pagò duramente lo scotto dei suoi trascorsi patriottici[4], specie in relazione agli storici eventi della Dieta di Monopoli[5] e del Memorandum di Potenza[6]. Processato e condannato a 19 anni di carcere, ne scontò cinque, terribili, nei bagni penali di Procida e di Nisida. Durante la spietata prigionia rifulse il mirabile comportamento della sua consorte, donna Maria Concetta Manfredi[7], che per poter visitare frequentemente l'adorato marito, si privò di oro, gioielli e denari, che elargiva agli esosi suoi carcerieri. Graziato nel settembre del 1855, tornò a casa, distrutto da un male inesorabile. Vi morì solo tre anni dopo il 24 maggio 1858. 
Mentre le gesta e le sventure del patriota monopolitano sono note ai più, per merito di quanti si dedicarono allo studio del Risorgimento meridionale, primo fra tutti il Lucarelli[8], meno note sono le circostanze della sua formazione, della sua attività amministrativa, della sua cultura.
Non sappiamo, ad esempio, dove avesse studiato. Certamente dapprima a Monopoli, poi forse a Napoli; sappiamo però che era fecondo e focoso oratore e, per quanto ci è dato di leggere, scritto di suo pugno, penna erudita e brillante. Ne fanno fede le pagine del diario relativo agli anni di carcere, ed alcune lettere destinate ad amici da Panfilo Indelli nel prezioso libro: “Pagine dimenticate” e la commovente iscrizione, da lui dettata nel 1841 che campeggia sul portale del Cimitero di Monopoli.[9]
Ma la misura della sua vasta e profonda cultura umanistica è offerta da una sua epistola, dal Ghezzi scritta nel 1843[10] e dedicata ad un suo giovane concittadino e parente, Sante Martinelli, ma pubblicata solo nel 1966 su “La Stella di Monopoli” dal rev. Don Cosimo Tartarelli[11], benemerito cultore di storia patria.
Lo scritto prende lo spunto dalla scoperta di alcuni mosaici in una villa a circa un miglio di distanza dal centro cittadino, verso ponente, di proprietà di tal Matteo Siena[12]; ma, in realtà, anche al di là del fine didattico a pro del Martinelli, allora poco più che ventenne, è un piccolo e prezioso saggio sulle origini di Monopoli e gli avvenimenti più importanti della sua storia.
Lo stile, di evidente sapore ottocentesco, anzi con cadenze e costrutti addirittura tardo-settecenteschi, è parecchio decoroso, anche in virtù di ampie volute di gusto classico, raramente vivacizzato da qualche “fiorentinismo” e solecismo[13].
Ma quel che più induce a sorpresa e ammirazione è la sicura padronanza che il Ghezzi mostra in genere, del mondo antico e in particolare della latinità. Il Barone, infatti, rivela una cultura vasta e ricca, certo “umanistica” non però in senso stretto, ché essa spazia dalla archeologia al diritto, dalla filosofia alla storia, dalla Bibbia a Dante. Gli è familiare Cicerone (in particolare quello del “De legibus”) come attestano lo stesso “cursus” della sua prosa, ma anche testuali citazioni di passi del grande Arpinate. Egli non solo conosce i maggiori poeti latini, quali Orazio e Ovidio (quello delle Metamorfosi), ma anche i minori, quali Valerio Massimo[14] e persino l'oscuro Flegonte di Tralles[15], autore di una Storia delle Olimpiadi.
A parte qualche svista e qualche idiotismo, l'epistola del Ghezzi è una interessante spia per chi voglia meglio approfondire la sua inquieta e forte personalità[16].

Remigio Ferretti.

[1] Il titolo nobiliare gli pervenne dal padre Gaspare che lo aveva ricevuto dal fratello Pietro. Il nonno Tommaso Nicola (1703-1751) era erede diretto di Pietro Francesco Ghezzi (o La Ghezza), capitano d’artiglieria, che, contraendo matrimonio con Laura Petrarolo (o Petraroli) di Ostuni, ultima del ramo baronale della casata, trasmise ai suoi discendenti il titolo e il feudo. (Notizie da “Monopoli Illustre” di Michele Pirrelli).
[2] Dal 1826 al 1831.
[3] Tommaso Ghezzi assistè da bambino alla visita che Gioacchino Murat compì a Monopoli il 24 aprile del 1813 e ne fu sicuramente affascinato. Nel 1822 fece parte della delegazione che incontrò i patrioti greci venuti a chiedere aiuti ai liberali in Terra d’Otranto. Fece parte della Giovane Italia, viaggiando spesso nella provincia per tenere i contatti con gli altri patrioti ed “attrezzò” il suo villino sito vicino al Convento dei Frati Minori per le riunioni “politiche”.
[4] Egli disperse per la sua attività molta della sua fortuna; dopo la condanna subì poi l’espropriazione di tutti i suoi beni.
[5] Non appena giunta la notizia certa dei tumulti e delle stragi del 14 e 15 a Napoli, inizia a Monopoli la giornata memorabile del 22 maggio 1848 con lo sferragliare di carrozze che portano forestieri al Borgo dove si sono formati crocicchi di curiosi: qualcuno improvvisa brevi comizi (Tommaso Ghezzi parlò sotto lo sventolante vessillo tricolore), alcuni si scambiano cenni d’intesa, i più sono indifferenti, qualcuno disapprova apertamente. Il gruppo dei forestieri e dei cittadini con alla testa il Barone e Don Giuseppe Del Drago si reca al Comune dove il Sindaco Francesco Paolo Martinelli assume un atteggiamento “pilatesco” e la voce grossa la fa il Capitano Don Angelo D’Erchia dall’alto della sua autorità militare, affatto intimorito da alcuni atteggiamenti “spavaldi” nei suoi confronti, soprattutto da parte di “personaggi” ambigui di Ceglie. I patrioti, meravigliati e seccati dalla indifferenza, se non dalla ostilità, manifestata dai rappresentanti delle Istituzioni e che pare contagiare il popolo tutto che li circonda, decidono di ritirarsi a discutere nella locanda dell’Albergo Mylord all’angolo tra Via Polignani e Piazza V.Emanuele, gestito dal Sig. Salvatore Alba. La funzione “strategica” di Monopoli, posta a metà strada tra Lecce e Bari, nonché la “vitalità” patriottica dimostrata negli anni precedenti dai nostri concittadini a partire da Rocco Lentini, aveva ispirato la proposta dell’istituzione nella nostra città di un “governo provvisorio”. Tra i molti partecipanti (“La porta della locanda pareva un formicaio”) alcune “spie” che poi tradirono i patrioti davanti ai giudici borbonici. (Notizie tratte dalla tesi di laurea “La cospirazione monopolitana del ‘48” di Maria Mastronardi).
[6] Il 25 giugno, in Potenza convennero i cospiratori dalla provincia di Bari (monopolitani, il Barone e il sac. Don Carlo De Donato), dal Salento, dalla Capitanata, dal Molise e dalla Basilicata e formularono il solenne “Memorandum delle provincie confederate di Basilicata, Terra d’Otranto, Capitanata e Molise”, nel quale si pronunziarono contro la repressione borbonica e a favore dello Statuto con “facoltà di modificarlo, correggerlo in ciò che vi ha d’imperfetto, e meglio adattarlo al progresso reclamato dall’andamento della Civiltà dei tempi”.
[7] Sposata il 19 dicembre 1821.
[8] Antonio Lucarelli (1874-1952) studioso di Acquaviva delle Fonti, allievo di A. Labriola, uno dei massimi esperti di brigantaggio.
[9] “Tu che questi avelli pietosi a meditare ti conduci, vedi delle umane sollecitudini come poca polvere rimane!”
[10] Venne scritta a metà agosto del 1838 e data alle stampe il 10 luglio del 1843 dopo un “visto” di censura.
[11] Don Cosimo Tartarelli (1906-1987) fu un sacerdote estremamente colto (conosceva diverse lingue classiche, moderne e due lingue orientali), custodiva una ricchissima biblioteca ed era un accanito cultore di storia patria. Uomo tenace e schivo verso qualsiasi tipo di onorificenza, costruì dal nulla, viaggiando spesso all’estero per raccogliere fondi tra gli emigrati, le chiese di Cristo Re, Antonelli e Madonna del Rosario, per anni Arcidiacono della Cattedrale, terminò la sua esistenza come “parroco di campagna”. (Nicola Giordano). 
[12] Furono scoperte, anche monete greche, etrusche e romane. (D. Capitanio, “Monopoli nel suo passato”, vol.5.
[13] Dal lat. Solcecismus, dal gr. Soloikismòs e questo da Sòlojkos, che parla scorrettamente come un abitante di Soloi\lat. Soli, città di Cilicia. Errore contro la purità della lingua o contro la buona sintassi, cosi detto perché gli abitanti di Soli, colonia di Rodi la patria della greca favella, mescolandola in Cilicia, l’avevano corrotta.
[14] Valerio Massimo è uno storico Romano del I secolo. Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia il suo protettore Sesto Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali “Factorum et dictorum memorabilium libri IX”. Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti ripresi da fonti diverse (tra le quali Marco Tullio Cicerone, Tito Livio, Varrone ed altri), suddivisi in 95 categorie.
[15] Paradossografo, vissuto nel I secolo d.c., a Tralles (odierna Aydin in Turchia), “liberto di Adriano Imperatore”, di lui ci è giunta una raccolta di prodigi ed eventi soprannaturali (ha descritto l’eclissi di sole del 24 novembre 29 d.C. a mezzogiorno, accompagnata da un terremoto, particolarmente forte, nella regione contigua della Bitinia) tramandata in un solo codice Palatino. La storia delle Olimpiadi è narrata fino al 140 d.c. Della sua opera si interessò per motivi filologici anche Giacomo Leopardi.
[16] Per tutti si cita il giudizio dato dal can. Manfredi (uno dei “delatori” al processo), alla notizia del suo arresto: “E’ già in gabbia, il leone!”.

5.4.13

Monopoli: il barone e Capitan Fracassa.



Di solito quando enumeriamo le virtù appartenenti ad uno stimato conoscente ci potremmo fermare a cinquanta, sessanta; se volessimo proprio esagerare senza sconfinare nella vanagloria, arriveremmo a novanta. Non ci sogneremmo mai di toccare i “millanta”. Pur tuttavia, anche il nostro suolo natio è frequentato da personaggi che, coniugando riflessivamente il verbo, “si millantano”. Bisogna peraltro riconoscere che il personaggio del millantatore affonda le sue radici nel passato, dai classici letterari a quelli teatrali. Ricordiamo il famoso Pirgopolinice, il “Miles gloriosus” di Plauto, per non citare il quasi contemporaneo filosofo greco Teofrasto che, nei “Caratteri”, fotografò per la prima volta l’archetipo del personaggio. Scorrendo nel tempo, troviamo poi il Calandrino, protagonista di gustosi episodi narrati nel Decameron nei quali è proiettato alla ricerca dell’elitropia, erba donante i poteri dell’invisibilità: una virtù che farebbe comodo a tanti nostri politici, per sfuggire alle congiure della magistratura. La maschera assurge sempre più a trasfigurazioni giullaresche: nella commedia dell’arte e nel romanzo d’appendice viene promosso da soldato a Capitano: Matamaros o Fracassa. Non è dato sapere se di lungo corso o meno. In particolare nel caso del racconto di Théophile Gautier, egli, barone di Sigognac (guarda che combinazione!), esercita le sue doti solo quando riveste il ruolo di Capitano, sul palcoscenico: ha inizio lo sdoppiamento della personalità e si sdogana definitivamente la finzione quale governo del mondo. Facciamo un salto indietro e torniamo all’impero bizantino. Dal palo passiamo alla frasca? No, c’è un filo conduttore. Fino al regno di Eraclio (VII sec.), i titoli nobiliari erano quelli in auge presso i cugini d’occidente. Poi Alessio I Comneno, senza consultare nessun saggio, riformò la materia e istituì nuove scale gerarchiche che resistettero fino alla caduta dell’Impero nel 1453. Quindi ci furono Basileos, Despotes, Sebastokrator, Kaiser, Protosebastos ecc. ecc. Dopo un lungo elenco arriviamo finalmente ad Akrita, il Barone. Quindi, ricapitolando, se oggi qualcuno volesse fregiarsi del titolo di Akrita, dovrebbe vantare (o millantare) un suo avo insigne, vissuto alla corte di Bisanzio fino al 1453. Facilissimo da dimostrare. Basta pagare una società araldica che ricostruisca il proprio albero genealogico, per poi continuare a recitare sul palcoscenico il ruolo di boccaccesco Capitano/Barone.