Di solito quando enumeriamo le virtù appartenenti ad uno stimato conoscente ci potremmo fermare a cinquanta, sessanta; se volessimo proprio esagerare senza sconfinare nella vanagloria, arriveremmo a novanta. Non ci sogneremmo mai di toccare i “millanta”. Pur tuttavia, anche il nostro suolo natio è frequentato da personaggi che, coniugando riflessivamente il verbo, “si millantano”. Bisogna peraltro riconoscere che il personaggio del millantatore affonda le sue radici nel passato, dai classici letterari a quelli teatrali. Ricordiamo il famoso Pirgopolinice, il “Miles gloriosus” di Plauto, per non citare il quasi contemporaneo filosofo greco Teofrasto che, nei “Caratteri”, fotografò per la prima volta l’archetipo del personaggio. Scorrendo nel tempo, troviamo poi il Calandrino, protagonista di gustosi episodi narrati nel Decameron nei quali è proiettato alla ricerca dell’elitropia, erba donante i poteri dell’invisibilità: una virtù che farebbe comodo a tanti nostri politici, per sfuggire alle congiure della magistratura. La maschera assurge sempre più a trasfigurazioni giullaresche: nella commedia dell’arte e nel romanzo d’appendice viene promosso da soldato a Capitano: Matamaros o Fracassa. Non è dato sapere se di lungo corso o meno. In particolare nel caso del racconto di Théophile Gautier, egli, barone di Sigognac (guarda che combinazione!), esercita le sue doti solo quando riveste il ruolo di Capitano, sul palcoscenico: ha inizio lo sdoppiamento della personalità e si sdogana definitivamente la finzione quale governo del mondo. Facciamo un salto indietro e torniamo all’impero bizantino. Dal palo passiamo alla frasca? No, c’è un filo conduttore. Fino al regno di Eraclio (VII sec.), i titoli nobiliari erano quelli in auge presso i cugini d’occidente. Poi Alessio I Comneno, senza consultare nessun saggio, riformò la materia e istituì nuove scale gerarchiche che resistettero fino alla caduta dell’Impero nel 1453. Quindi ci furono Basileos, Despotes, Sebastokrator, Kaiser, Protosebastos ecc. ecc. Dopo un lungo elenco arriviamo finalmente ad Akrita, il Barone. Quindi, ricapitolando, se oggi qualcuno volesse fregiarsi del titolo di Akrita, dovrebbe vantare (o millantare) un suo avo insigne, vissuto alla corte di Bisanzio fino al 1453. Facilissimo da dimostrare. Basta pagare una società araldica che ricostruisca il proprio albero genealogico, per poi continuare a recitare sul palcoscenico il ruolo di boccaccesco Capitano/Barone.
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