12.5.20

Il limite del corpo


Tendo alla fuga
divello retrive catene
innesco roventi pulsioni
mi nutro d'impeto
invoco il sublime
annaspo follia.

10.5.20

Dopo la liberazione di Silvia Romano


Vorrei che i miei versi
fermassero la marcia
dei vili senza faccia
che schiumano rabbia
bombardano veleno
ignobili sanguisughe

vorrei che i miei versi
liberassero bellezza
sigillata dagli insulti
esplodessero d’amore
nella vuota pochezza
degli indifferenti

vorrei che i miei versi
fossero grimaldello
per coscienze umiliate
schiacciate vilipese

vorrei che donassero
ali d’argento fuso
ai cuori striscianti
sotto il giogo del Potere

vorrei che i miei versi
gonfiassero bandiere
di gioiosa libertà
vorrei che cantassero luce
nei vicoli dell’ingiustizia

vorrei che i miei versi
fermassero il tempo
e scrivessero nel cielo
un arcobaleno di pace

vorrei che fossero carezza
per coloro che sono fermi
ultimi passeggeri
del treno della speranza.

L'anima del poeta


L’anima del poeta
viaggia sulle note del mito
non teme le ingiurie del tempo
accelera rullando sul dolore

l’anima del poeta è indomita
gracile alle scosse del cuore
ma fugge in alto, impenna
più in alto delle umane miserie

l’anima del poeta è tenera
ma non si fa schiacciare
spiega la sua missione
al destino che volta le spalle

l’anima del poeta è nuda
ma nessuna freccia la perfora
perché ha la corazza del sogno
e pianta radici come quercia

lo sguardo oltre le galassie.

Ciottoli di rabbia



Mentre sfila
su tacchi da entraneuse
la memoria si rimpalla
torce ancora le viscere
di giorni disassati

cavalca un cielo
rosso rubino
rimesta nembi
di fango colloso.

La tensione perpetua
l’olocausto del volo,
l’eutanasia del sogno,
il suicidio dell’eccesso.

Ho sete di veleno
che secchi l’anima blesa
smonti fumose ragioni
incastrate ed accartocciate.

Offro il mio senso nudo
ad una lama benigna
che penetri l’alveo
dei sussurri cementati
nelle orride prigioni
in cui macero fiele.

Affaccio sul mondo


Ho aperto
una finestra sul mondo
ho visto scorrere la vita

non sapevo
con che occhi guardare
lo sciabordio del sole
sulle acque chiare

non sapevo
con che cuore toccare
la gioia dell’alba
riflessa d’azzurro

non sapevo
con che sorriso amare
il volto del cielo
versato sulla mia anima.

La saga di Gilgameš



Era distratto
quel giorno Gilgameš
scrutava i confini del mondo
palleggiando con la Terra
sui gradini del tempo
freestyle in canotta
la grazia di un bulldog.

Sotto gli Archi di Vanagloria,
Mestizia e Furore
tiravano a dadi
la sorte degli apogei:

“lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta
lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta”.

E un Sudario
infracidito di Senso Comune
organicamente spaiato
copriva vergogne sataniche.

“Ma qual è il geomètra
chetuttosaffige?”

Sbalestra la bussola
puntando la prora decisa
sulla rotta dove Angeli e Demoni
si rincorrono su dune di corallo.

Ištar sporge i seni
offrendo voluttà
ma i denti da vampira
affondano nel cuore.

Hubaba lo spaventa
nella Foresta dei Cedri,
lo bracca il Toro Celeste
sul Mare della Morte.

“Ho ucciso divinità
per fuggire dal dolore:
dove sei Utanapistim?
hai sconfitto il Diluvio
rovescerai la mia clessidra.

Ma il serpente ha divorato
la Pianta della Gioventù:
sono solo Gilgameš
e non sarò immortale
non posso più giocare
con la Terra e con il Fato.

Enkidu, amico mio,
mi hai letto deferente
la scritta sul fondale
del Tempio dei Morti
dove stalattiti di ghiaccio
colavano pece fumante
su piaghe purulente:

lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta
lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta”.