Per qualche secondo chiudiamo gli occhi ed immaginiamo la Monopoli medievale. Siamo nel 1500 circa. Nel suo palazzo signorile incastonato al centro del paese, il magistrato Leo Arpona era soddisfatto. Erano arrivati i Veneziani e avevano portato con sé arte e cultura, catalizzando gli interessi delle menti elette della città. Arpona era contento perché, grazie alla sua posizione, aveva maturato delle conoscenze all’interno della leadership dei nuovi dominatori, che gli avevano consentito di arrivare a commissionare un dipinto nientemeno che a Giovanni Bellini, artista la cui fama aveva varcato i confini delle sue origini. Arpona aveva un sogno: la sua famiglia era devota ai domenicani e fin dalla sua infanzia gli avevano raccontato la storia avventurosa di Pietro Rosini, della sua vita integerrima, rigido custode della dottrina, e soprattutto della sua morte da martire. In qualche modo voleva legare indissolubilmente il suo nome a quella vicenda così ricca di epica e misticismo e insieme donare alla città e alla cristianità di Monopoli un segno indelebile del suo amore. Così colse l’occasione che gli si era presentata con l’arrivo dei Veneziani. L’artista raccolse l’invito e la splendida tela arrivò in città. Arpona scelse come destinazione naturale il convento dei frati domenicani, dove aveva già fatto erigere una cappella al Santo. Purtroppo il convento era fuori dalle mura e ciò costituiva fonte di apprensione per il magistrato, considerati i tempi mai stati tranquilli per l’avvicendarsi in quel tempo di tante vicende belliche con dominatori più o meno barbari di usanze e di costumi. Ma tant’è, il quadro fece bella mostra di sé nella cappella di famiglia. Quando Arpona morì, nel suo testamento citò la provenienza del quadro e “fu sepolto con l’abito domenicano all’interno della cappella” sotto lo sguardo amorevole del “suo” Santo (Cfr. G. Bellifemine La Basilica di S. Maria Amalfitana p. 70). Questo fu il primo atto d’amore che dette inizio alla vicenda che arriva fino ai giorni nostri. Il secondo fu la ricostruzione della cappella (distrutto il convento da Andrea Gritti, comandante della guarnigione veneta, perchè non potesse essere utilizzato dalle truppe del marchese del Vasto) con l’icona del Santo, nella nuova Chiesa di San Domenico ad opera dei frati, aiutati dai fondi stanziati da alcune famiglie nobili monopolitane, tra cui gli Indelli, imparentatisi con gli Arpona. E poi via via a cavallo dei secoli con tutte le vicende già narrate, legate alla spoliazione imposta arbitrariamente dai gerarchi fascisti baresi, ostacolata fino all’ultimo da chi, erede dell’amore di Leo Arpona, continuava a difendere la monopolitanità dell’opera. E’ questo il motivo per cui chi è monopolitano non può rimanere né insensibile né “neutrale” di fronte a questa storia. L’arte, il mecenatismo, le proprie radici, la devozione, il martirio, la santità, sono categorie che appartengono alla sfera dei sentimenti e della fede non a quella delle competenze amministrative e burocratiche. L’obiezione tecnica che si solleva è che l’estrema fragilità del dipinto impone la sua custodia in ambienti asettici, privi di umidità e tenuti costantemente sotto controllo. Probabilmente la nostra città è considerata arretrata da questo punto di vista e, a questo punto, se effettivamente un sito del genere non esiste sul territorio comunale, è arrivato il momento di attrezzarsi. Confidiamo che la prossima Amministrazione, ultima erede di quell’atto d’amore iniziato nel 1500, si faccia carico, magari in concorso con le autorità ecclesiastiche, che gestiscono l’attuale Museo Diocesano, di un progetto di allestimento di una degna sede per il dipinto che possa così ritornare, legittimamente, dove Arpona volle che fosse conservato.
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