Lasciare la strada maestra per addentrarsi su percorsi poco battuti, dove non si percepisca un facile epilogo, è prerogativa degli spiriti curiosi, che colgono gli eventi come opportunità di arricchimento interiore, qualunque sia l’esito finale. In campagna si aprono ai nostri sensi delle striature sul corpo della terra che chiamano alla scoperta con cenni silenziosi, come si deve al rispetto verso la natura circostante. Per qualche secondo sostiamo, attendendo il dialogo spontaneo tra cuore e cervello, ragione e poesia - dove in noi non c’è contesa - e poi governiamo il passo, lento, nel corridoio misterioso. Le suole scricchiolano, proiettano zollette, rilasciando le pregresse molecole di freddo bitume, adeguandosi all’immersione nella vivente umidità. Ci accarezza l’idea di avanzare scalzi per interagire ad armi pari con la verginità del suolo. Il tratturo ha la stessa radice del verbo “trarre” cioè assorbire la bellezza, la pace, ma anche la memoria e la malinconia di un tempo violentato, derubricato, sconnesso. Assaporiamo l’incanto di giocarci attimi di vita da deglutire ai margini, sui cigli, sotto le pietre secolari, defilati agli eventi che torcono le viscere, eventi che sono rimasti indietro, mescolati all’asfalto, postati nelle reti iperveloci. Camminiamo e non sappiamo se abbiamo voglia di ritornare. Vorremmo passare parola ai nostri affetti più cari perché possano avviarsi con noi o senza di noi, ogni tanto, nei tratturi che la strada ci presenta, per andare avanti e contemporaneamente tornare indietro, fra le cose grezze, antiche, immobili, dove ritroviamo pezzi di noi stessi che abbiamo dimenticato.
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