La Musica per Lei era la Porta.
Quando i suoi polpastrelli calavano come farfalle su quel prato bianco e nero lei aveva accesso ad un paesaggio astratto mai narrato in nessun sogno dove piacere e dolore erano sbuffi di nuvole che poteva soffiar via o aspirare e immergersi. Lei pigiava sui tasti senza l’enfasi della memoria, senza la concentrazione dell’impegno. Le dita prendevano vita a sè, promanazioni di un corpo astrale. Solo quando suonava per Lui si riallacciava al mondo con un cordone pulsante. Il suo pezzo dedicato era Sogno d’Amore di Liszt. Lei sentiva il respiro di Lui crescere su ogni nota, sentiva il suo battito colmare le chiuse, scalare gli apici, sprofondare negli abissi. Lei era il suo dono costante, appagante, esplodente.
Dipingere per Lui era il tocco Divino.
Il suo era un pianeta ovattato sul quale ogni sussurro poteva essere fragore ma aveva un colore, una prospettiva, un collocarsi nel disordine cromatico, confine del suo universo. La Natura era il giaciglio in cui si accomodava per dare una voce al silenzio, un senso al rincorrersi delle stagioni, al ciclo della vita. Tutto cambiava quando ritraeva Lei, il suo Amore e la sua Musa. I pennelli danzavano sulla tavolozza come in un rito tribale. La sua mano tracciava costellazioni in un peregrinare folle sulla tela, dove il viso di Lei diveniva icona di luce e bellezza infinita. Cori angelici celebravano questi sfiori a volte teneri e delicati, a volte vibranti e profondi. Lei era la voce di una divinità carnale a cui aveva inventato le fattezze dell’eternità.
Lei era non vedente e lui non udente, ma le loro anime non avevano bisogno di nulla per toccarsi ed amarsi.
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