Qualche giorno fa ho rievocato l'incontro tra egnatini e pediculi, sublime esempio di solidarietà, atto d'amore che ha dato alla luce la città di Monopoli. Questo prodigio auspicherei si potesse replicare sostituendo gli interpreti con menti e risorse che si coalizzino per restituire civiltà e rispetto per l'ambiente, progresso e amministrazione trasparenti e lungimiranti alla nostra città. Oggi propongo uno scritto di Remigio Ferretti, corredato di mie note, che idealmente ci imbarca su una navetta che oltrepassa i confini del tempo atterrando in quei remoti contesti.
Seduto all'ombra della Chiesa di S. Michele(1), con un rinvio memoriale alla nota sinestesia(2) carducciana, mi perdo nel “divino del pian silenzio verde”(3), contemplando dall'alto la nostra “marina” e spingendomi con lo sguardo lungo l’Adriatico, dalla bianca Monopoli verso le rovine di Egnazia, che, ergendo verso il cielo la sua Acropoli, pare ancora non del tutto doma.
Dolcemente immerso nell'onda reflua dei ricordi storici e letterari, mi viene in mente un emistichio(4) di Virgilio: a Enea che ansioso chiedeva del suo destino, così risuonò la voce di Apollo: “Antiquam exquirite matrem”(5). Infatti, mi par proprio di vedere che Monopoli, avanzando verso sud, sospinga le sue case, i suoi figli, la sua anima verso Egnazia, la sua ideale genitrice.
Era Egnazia una fiorente città dei Messapi, retta da sovrani saggi e bellicosi (il piú noto è il re Opi), tanto potente da sconfiggere la gloriosa Taranto(6) (471 o 473 a.C.), nel tentativo di opporsi alla fatale grecizzazione della nostra regione e di tutto il Mezzogiorno.
A circa 7 miglia a nord di Egnazia viveva una piccola comunità di Peuceti (o Pediculi), in maggioranza pescatori, che disponeva di una lunga, profonda e pescosa insenatura, una specie di porto naturale: questo antico centro si chiamava Porto Pedie (o Porto della Giovinezza) e, prima ancora, forse Dyria.
Certo, i confini tra Peuceti e Messapi erano alquanto labili; per di piú, andando a ritroso nel tempo, sino alla protostoria, è possibile trovare stretti legami tra i due gruppi etnici, risalenti da un'unica stirpe indo-europea, illirico-balcanica.
Fu così che, quasi spariti i sostrati linguistici originari, imparammo a parlare l'idioma dell'Ellade e a venerarne gli Dei, assimilandone pensiero, arte e costumi.
E fummo maestri di civiltà: quando i Latini erano ancora pastori o i barbari dominavano le valli dell'Adige e del Po, Aristocle, detto Platone, dalla mente divina e dalle “larghe spalle”, viandante famoso, visitava le nostre contrade, già rischiarate dal genio di Pitagora e di Archita.
Ma, purtroppo, la tanto celebrata aquila romana, radendo a volo le nostre terre e tutto sconvolgendo, ne distrusse quasi completamente lo stupendo rigoglio. Un pò alla maniera di Ennio, dicemmo: “Noi che fummo Peuceti, Messapi, Greci, ora siamo latini”(7).
Mentre si spegneva il sacro fuoco (era metano?) che Orazio vide ardere spontaneamente sugli altari di Egnazia, in Galilea era stato crocifisso un Uomo-Dio, la cui morte cambiò la storia del mondo: anche la Puglia diventò cristiana.
Estinta la forza di Roma, l'aquila fatale, già volta da Costantino, contro il corso del sole, verso l'Oriente, tornò a volare nel nostro cielo, con penne e grido diversi. E parlammo ancora greco, non piú quello di Omero, la lingua arida e complicata dei curialisti e sdolcinato delle alcove di Costantinopoli.
I Goti poi, guidati dal fiero Totila, nel tentativo di strappare all'Impero d'Oriente il dominio dell'Italia meridionale, invasero la Puglia e saccheggiarono la bella città messapica, compromettendone per sempre il prestigio e l'opulenza. La gran parte della popolazione si rifugiò nella vicina località di Porto Pedie e così, dalle due comunità, nacque un'unica città, la nostra Monopoli. E come Porto Pedie aveva imparato da Egnazia a venerare “gli Dei falsi e bugiardi”, soprattutto Mercurio, che presiedeva al commercio e ne favoriva i traffici, gli scambi e i profitti, così Monopoli, sconfitta e prostrata Egnazia, trasse occasione per una piú fervida fede cristiana, accogliendone la dignità episcopale e la Croce patriarcale.
Nei secoli, mentre della città di Messapo non restarono che i ruderi e persino il suo porto si inabissava, Monopoli, sita alla confluenza dell'Appia con la Traiana, cresceva di abitanti e di importanza, grazie anche al suo porto naturale, che i suoi nemici riuscirono purtroppo a insabbiare. Posto di transito e di sosta tra Bari e Brindisi, finì con l'assumere il ruolo di solo e comodo sbocco dì un vasto retroterra.
Sul filo del tempo edace, eserciti e popoli, di razze o nazioni diverse, calpestarono e dominarono le nostre contrade: Longobardi, Svevi, Angioini, Aragonesi, Ungheresi e, da ultimo, Murat, alfiere della libertà, col suo bianco cavallo e i suoi predoni, per non parlare dei Saraceni e delle loro incursioni e devastazioni. In noi certo qualche traccia è rimasta degli usi e delle lingue di tante genti straniere, ma nella nostra indole, nel nostro carattere, nel nostro dialetto, resiste qualcosa che ci lega alla matrice egnatina e quindi alla civiltà, alla cultura, all’idioma di Atene e di Bisanzio.
Quando sulla bocca del nostro popolo fioriscono parole come: cèndre, vastèse, pèndeme, trappìte, zóche, chénistre, ci rendiamo conto che in esse, duri a morire, sopravvivono etimi greci, a ricordare e confermare la nostra identità e la nostra storia.
Quando Monopoli, per antica tradizione, accoglie e abbraccia, con senso di spiccata ospitalità, tutti i forestieri che vi capitino e molti inserisce nel suo tessuto umano e sociale, dando loro affetto e sicurezza, imita e ripete Porto Pedie, che accolse e abbracciò i profughi di Egnazia, a formare una stessa famiglia, una nuova comunità, unica per leggi, riti e civili costumanze.
Quando, con orgoglio e stupore, ammiriamo i nostri cantieri e laboratori, le opere del nostro lavoro e del nostro ingegno, soprattutto le realizzazioni e i successi dei nostri imprenditori, specie nel settore del commercio, frutto di fiuto e di coraggio, il pensiero corre a quel dio Ermes, a cui i nostri lontani progenitori dedicarono templi, preghiere e devote cerimonie e da cui forse abbiamo tratto una delle nostre due anime, quella laica e mercantile.
Quando ci prende quel dolce sopore, quella sottile mollizie, quella saputa pigrizia, che sono in fondo la nostra riserva psicologica e il sale della nostra esistenza, ci riconosciamo ultimi figli del vicino Oriente dove rifulse la Troia del ben chiomato Paride e della bella Elena, la fastosa Persia, tutta sete e gemme, la lussuriosa Bisanzio di Teodora, donde giunse qualcosa sino a noi, influenzando alquanto il nostro modo di sentire e di vivere.
Quando, nei momenti gravi e decisivi della nostra giornata terrena, meditiamo sui misteri della vita e della morte, riscoprendo la nostra anima migliore, quella cristiana, ripensiamo grati all'apostolo Pietro, che, predicando e benedicendo, passò per le nostre plaghe, diretto al suo supplizio romano e ci diciamo felici di avere, da allora, creduto in Dio uno e trino, cogliendo nel suo volto la nostra stessa immagine e di avere poi, tramite Egnazia, accresciuto la nostra fede in Cristo e la dignità della nostra Chiesa.
(1) A 13 km. da Monopoli, alle “falde” della Loggia di Pilato, sorge S. Angelo di Frangesto poi S. Michele Arcangelo, protettore dei campi, una chiesetta risalente al sec. XI o XII anticamente annessa ad un convento di suore del Casale, che si dice fu retto da una Agnese monopolitana.
(2) Fenomeno psichico consistente nell’insorgenza di una sensazione auditiva o visiva in concomitanza con una percezione di natura sensoriale di diverso tipo, o, in semantica, stretto rapporto tra due parole che si riferiscono a sfere sensoriali diverse ( es. “voce chiara”). (Treccani).
(3) G. Carducci: “Il bove” v. 14.
(4) Dal lat. tardo “hemistichium”, gr. ἡμιστίχιον, comp. di ἡμι “mezzo” e στίχος “verso”. Nella metrica classica, ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla cesura. Per estens., sono così chiamati i versi incompiuti dell'Eneide di Virgilio, e, in genere, qualsiasi verso incompleto. (Treccani).
(5) Cercate l’antica madre!
(6) Narra Erodoto: “…fu questa la più grande strage di Greci e Reggini che noi conosciamo, che dei Reggini morirono 3000 soldati e dei Tarantini non si poté nemmeno contare il numero”.
(7) Quinto Ennio (239 a.C. – 169 a.C.) poeta, scrittore e storico romano: "Nos sumus Romani qui fumus ante Rudini", Annales Liber XVIII.