Il 27 gennaio del 1995 a Fiuggi si consuma lo scioglimento del MSI-DN. Vengono rinchiusi negli armadi olio di ricino e manganelli (salvo nostalgiche tentazioni, a volte, di rispolverarli) e Fini, Gasparri e La Russa rimpiazzano le icone di Almirante, Romualdi e Rauti. Emilio Romani ha quasi 23 anni ed è segretario locale del Fronte della Gioventù. Aderisce con entusiasmo alla causa di AN, ma i miti degli anni dell’adolescenza non si abbattono mai e, pur mutando le strategie politiche, nel suo DNA il piglio autoritario e decisionista sarà sempre in auge. Mentre i santoni del partito guardano con sospetto l’abbandono della tradizione della destra sociale, le giovani generazioni post-fasciste sposano con fervore le tendenze iperliberiste del berlusconismo e aprono il loro cuore a chi, finalmente, li ha tirati fuori dal ghetto. Dopo una gavetta propedeutica, necessaria per introiettare saldamente i precetti ipermediatici del Capo, la nostra città (dove l’humus del cinquantennio conservatore-democristiano ristagna e fermenta), nel 2008 è pronta ad accogliere il fenomeno Romani. La catarsi dell’uomo forte, il simbolo giovanile del rinnovamento della politica, la necessità imprescindibile di essere alleati delle “lobbies” degli affari e del cemento, sono il fondamento del suo successo. Emilio è lucido, furbo, gran comunicatore. Empatico e belloccio, intriga, trascina, seduce. Scompagina il fronte degli avversari, un pò cupi ed ingessati, come sempre divisi. Mi azzardo qui a immaginarlo politicamente epigono di padri putativi diversi: il Machiavelli che raccomanda al Principe di essere contemporaneamente ”leone, volpe e centauro”; il cardinale Richelieu del “saper ingannare come prerogativa dei re” e il suo successore Mazarino che indica come prerogativa necessaria del governante dover essere insieme “simulatore e gran dissimulatore”. Il sindaco per lui è rimasto il podestà: coniuga volontà di potenza e mistiche visioni di sapore nietzschiano. Come Zarathustra, il profeta narrato dal filosofo tedesco, ottiene la rivelazione dell’Avesta, così Romani scopre la formula vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Legge Carlyle nel passo in cui descrive la storia come terreno riservato agli eroi, per poi approdare, un pò alla maniera di D’Annunzio, all’interpretazione dell’uomo politico come “vate”. E, come vate, utilizzando effetti speciali da fare invidia a Carlo Rambaldi, ha saputo trasformare un quinquennio amministrativo di calma piatta, nel fantasmagorico ribaltamento dell’ovvio, dello scontato, del già visto, appropriandosi e stravolgendo, come nel caso del PUG, anche progetti faticosamente realizzati da altri. Dietro questa cortina fumogena ha occultato abilmente le condotte scriteriate sulla gestione dei rifiuti, che espone il comune e le nostre tasche a rischi non quantificabili e le speculazioni sulle svendite assurde di beni comunali (aree ex Cementeria, Casina del Serpente, ex carcere, Pagano), i cui ricavi sono finiti in mille rivoli, ma non certo a beneficio della città. Di contro, le vessazioni impositive alla cittadinanza non hanno avuto riflessi sui servizi e l’obbedienza istituzionale ai potentati economico-finanziari (i quali non votano, danno solo incarichi, non hanno idee politiche, ma solo tornaconti) è stata il “leitmotiv” di questi cinque anni. Non è riuscito però nel gran vezzo democristiano di accontentare tutti, e per questo, ha registrato defezioni e diserzioni e, come Richelieu, sta fronteggiando i tre moschettieri Alba, Marasciulo e Zaccaria. La realtà dovrebbe essere tangibile: il progressivo impoverimento della “middle class”, spina dorsale di questa città; la crisi delle grandi aziende con tante famiglie scagliate nella disperazione; la strage delle partite IVA di commercianti e artigiani; la vergognosa condizione dei nostri ragazzi privati del futuro e costretti ad elemosinare scampoli di precarietà; le giovani coppie impossibilitate a pagare affitti salati e ad acquistare casa; l’edilizia scolastica fatiscente che costringe a bibliche transumanze (non dimentichiamo il doppio incarico alla Provincia); l’agricoltura e la pesca trattate sempre e solo a colpi di clientela; una gestione del turismo dissennata con spiagge pubbliche fatte occupare militarmente; l’assenza di una politica organica della cultura e la penuria dei relativi necessari contenitori (l’altro giorno riferendosi al Radar dal palco affermava come il Re Sole: “Il teatro sono io!”, - ma dov’è? - si parla dell’Araba Fenice) con la Biblioteca Comunale in perenne ristrutturazione, che grida vendetta. E la colpa della lentezza nella concessione di nuove licenze commerciali viene attribuita ai funzionari comunali, eccessivamente “burocratici”. Non è un bel sentire: un sindaco che attacca e scarica i suoi principali collaboratori, le sue braccia tese verso la città. Probabilmente troppi controlli danno fastidio. Tutto viene abilmente dissimulato, come predicava Mazarino. Il fuoco pirotecnico ha avuto una prevedibile impennata negli ultimi mesi del suo mandato, dando ragione a chi, come Guy Debord, scriveva che “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Ora, come D’Annunzio a Fiume, esclama: “Hic manebimus optime!”- Vogliamo fare il bis!, sicuro che i suoi giochi di prestigio abbiano colto nel segno. L’ultima rotonda, Romani stava per regalarcela sul mare, su spartito e testo non di Fred Bongusto, ma del gruppo Marseglia, che ha progettato un oleodotto con terminale marittimo su di un pontile lungo 700 metri ed un sistema di condotte che, da cala Pantano, dovrebbe raggiungere gli stabilimenti del gruppo ubicati nella zona industriale. Riflettevo sulla rotonda come metafora del suo operato. La rotonda è un percorso obbligato che non conduce a nessun traguardo. La rotonda vieta di fermarsi, condanna a girare senza méta, smorzando così la capacità di riflettere. Confido che i miei concittadini sappiano, al contrario, riapprezzare i semafori che, scandendo le pause, spingono a riconsiderare il percorso, a fissare il punto d’arrivo, a chiedersi, in coscienza, se, dopo cinque anni, stanno meglio o stanno peggio.