19.1.18

Passeggiando per il paese che non c'è più (1)

Quando non siamo sovraccarichi di pensieri e incombenze quotidiane, rilassati, percorriamo a piedi le strade cittadine, può succedere che qualcosa ci richiami alla memoria immagini e vicende del passato. E’ singolare che, dei cinque sensi in nostra dotazione, l’olfatto sia quello capace di penetrare più nel profondo del nostro archivio in disuso, di sollevare polvere, altrimenti permanente, a celare volti, emozioni, turbamenti. Quella che mi accingo a raccontare è una “road story” percorsa in un paese che non c’è più, ma i cui ruderi emergono con forza trascinati alla superficie da odori e aromi che scuotono gli altri sensi, rincorrendoli e coinvolgendoli. I sensi di un bambino hanno grandi ali che trasportano in luoghi immaginari, ma tutto quello che immagazziniamo da piccoli non lo perdiamo se ci abbiamo sognato sopra. I luoghi citati non sono sincronizzati nel tempo, ma si dispiegano con armonia nel decennio di cui si tratta.
La Monopoli a cavallo degli anni 60/70 era una placida cittadina con velleità da “grandeur”, ma che in fondo si beava della sua immobilità socio-culturale. Io, poco più che bambino, terminavo la scuola elementare all’Istituto San Giuseppe e iniziavo la Scuola Media Galilei. Mi recavo spesso a casa dei miei zii in via Bixio 248, visto che mamma lavorava e mia zia, maestra, mi faceva doposcuola. Da qui con lei uscivamo nelle belle giornate e facevamo tappa al Bar Veneto dell’ineffabile Romano. Venivamo avvolti subito da effluvi di pasticceria e chicchi tostati. La mia scelta preferita era però rivolta verso la granita di caffè e panna: una delizia che non mi stancava mai. La consumavo seduto su una panchina nella Villa S.Antonio. Lascio nei ricordi la mano di zia Wanda e esco dalla villa verso via Rimembranze. Dove ora c’è il Conservatorio, c’era l’elettrauto Carparelli. Continuando ad esplorare i dintorni mi sovviene il Bar Commercio, dove ora c’è Pantera Rosa, che emanava cornetteria fino al balcone del quinto piano dove ho abitato fino al ’68, in Corso Umberto 41. In via Magenta c’era il Ristorante Pasqualino. In via Bixio ad angolo con corso Umberto sorgeva il primo supermercato Gamma, che divenne poi Standa. Poi il cinema Radar e l’Hotel Savoia. Del cinema impossibile dimenticare la maschera Spinelli a cui facevamo tanti scherzi da prete (tipo dividerci in più posti sparsi nella sala e provocare rumori vari, così lui correva da una parte all’altra con un frenetico agitare di torcia) e il soffitto che si scoperchiava (manco l’Allianz Arena) e che faceva penetrare aria fresca che scacciava fumo pervicacemente intrappolato. Verso la stazione scavallava quell’odore inconfondibile del catrame dei binari. C’era una biglietteria con esseri umani, allora. E un capostazione con la paletta. E degli operai in salopette e guanti. Ero affascinato dai treni e dal funzionamento degli scambi. Alla domanda cosa farai da grande rispondevo sicuro: “Il Manovale!!”. Reputavo di grande responsabilità saper attaccare e staccare i vagoni e governare la direzione da far prendere ai convogli. Una metafora della vita nella quale ci tocca dover decidere quale direzione prendere, cosa portarci dietro e cosa lasciare su binari morti. Oltrepassando Parco Bovio e imboccando via Del Drago (allora immaginavo che si chiamasse così per qualche mostro preistorico che avesse imperversato lì vicino) mi incuriosiva vedere dei vecchi binari che scendevano verso mare lungo una via che si chiamava allora, coerentemente, Strada Ferrata. Scoprii successivamente la storia del trenino ciuf ciuf che arrivava fino in Cementeria a cavallo fra le guerre, mirabilmente descritto da Giacomo Campanelli. Proseguendo lungo via del Drago si confluiva nuovamente in via Rimembranze che terminava in un terreno che ospitava un carrozziere, dove ora c’è la palazzina dell’Ufficio Postale. Scendendo da via Trieste ricordo solo campi e terreni incolti. L'attuale via Marina del Mondo era una strada non asfaltata ampia quanto la strettoia esistente dopo la Stazione di Servizio. Da qui, come oggi, si raggiungeva Lido Pantano, allora l’unico stabilimento balneare a pagamento in paese. Qui mentre il juke-box caricava i 45 giri “Una rotonda sul mare” e L’isola di Wight”, io imparavo a nuotare. Svoltando a destra si percorreva via Fiume e accanto al campo Veneziani non c’era ancora il Palazzetto dello Sport. Il mio sport da bambino era il minibasket. Il prof. Del Giglio ci allenava dove capitava che ci ospitassero. Ricordo allenamenti all’addiaccio alla palestra della scuola S.Antonio, oppure alla Galilei, se ci andava bene. Presi a cuore la questione del Palazzetto. Carta e penna, scrissi all’on. Moro che babbo mi aveva fatto conoscere. La somma che mancava alla sua realizzazione arrivò e Il Palazzetto venne eretto. Un mattoncino piccolo piccolo posso dire di averlo messo anch’io. (continua)




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