24.9.18

25 settembre: compleanno di mio padre Remigio Ferretti poeta e Sindaco





Ripropongo con uguale commozione lo scritto di più di vent'anni orsono in suo ricordo.
La foto lo ritrae mentre commenta un canto della Divina Commedia.

Quando mi ritrovo nel Caffè Rudy, mi capita spesso, papà di incontrare abituali frequentatori che mi salutano e - glielo posso leggere negli occhi - rimangono assorti, delusi, ancora una volta, dalla tua assenza. Il più commovente è il buon Saverio Pisciarino, il quale si sofferma sulla soglia, frugando con lo sguardo nel cantuccio dove eri solito interloquire con gli astanti di facezie varie, di episodi singolari, di commenti letterari e politici. Poi, visibilmente contrariato, Saverio scivola verso il bancone, consuma velocemente e si congeda. Un giorno gli ho chiesto: "Perchè non ti fermi, come facevi di solito?" E lui: "Non ho più Remigio con cui parlare. Che senso ha trattenersi oltre?" Già. Che senso ha trattenersi oltre? Forse è stato questo il dubbio che ti è morto sulle labbra quella sera di maggio che ti ha rapito. Che senso ha trattenersi oltre in questo luogo sonnacchioso e lavico, in questo ruolo da Don Chisciotte senza pace, in questo tempo bruciato dalle bramosie senza fine. Avevi tanti progetti ancora, è vero. Soprattutto il tuo libro, come una creatura amorevolmente svezzata, era lì, pronto per le stampe. Quell'ultima sera ho capito papà e ho promesso che le tue poesie avrebbero camminato per le strade e le piazze della tua città.
Che strano destino, papà. Non riuscivamo a parlare facilmente, noi. Ma da quel giorno ho riannodato con te un filo virtuoso. Mi ritrovo spesso, nell'arco della giornata, a commentare con te la vita che scorre e ci sfiora con le sue movenze inusitate, a cercare suggerimenti, consigli per decisioni difficili, pulviscolo di saggezza che solo un padre può dare.
Che strano destino, papà. Ero solo un bimbo quando il Municipio mi affascinava come un castello incantato, e tu eri il Principe del Castello: scorrazzavo per quei corridoi che profumavano di carta e di inchiostro infilandomi in ogni pertugio; e poi, assumendo un'aria solenne, mi eleggevo tuo segretario, annunciandoti le visite, impettito, davanti al tuo ufficio. Ricordo un giorno, di aver sabotato il Centralino spingendo tutti quei bottoni colorati di quella affascinante tastiera nascosta nella stanza del custode, il tuo amico Mimì Colavitti. E poi quella volta che feci impazzire Celestino, l'indimenticabile Vigile Urbano, che si chiedeva disperato che fine facessero quei palloni che sequestrava ai ragazzacci per la strada e poi, improvvisamente, sparivano dal ripostiglio del Comando. Ero un bimbo per il quale immaginario e realtà spesso coincidevano e l'assoluta incoscienza dei privilegi da me goduti rispetto agli altri bimbi della mia età, avevano fatto tracimare la tua figura nel mito. Soffrivo la tua incostante presenza nella mia vita di giochi infantili. Gli impegni ti tenevano lontano da casa e il giorno più bello della settimana per me era la domenica mattina: potevo saltare sul tuo letto e godermi il mio papà finalmente a mia esclusiva disposizione. In tua assenza, cercavo testimonianze di te fra i tuoi cassetti: e fu così che scoprii le poesie. Detto fatto, e anch'io volli essere poeta: scrivevo versi che sembravano telegrammi, emulando vocaboli per me astrusi, rigidamente a macchina, non immaginando che esistesse qualcosa che si chiamasse bozza. A casa l'ilarità fu grande e, naturalmente, ci fu qualcuno che, banalmente, sentenziò: "buon sangue non mente". E invece mentiva.
Grazie papà per avermi indicato l'onestà come valore trasversale, come ultimo baluardo di fronte alla mercificazione, alla mortificazione degli ideali, perchè possa aggirarmi a testa alta tra la gente e dichiarare, al pari dei tuoi alunni ("E' stato il mio professore!"): "Io, sono suo figlio!". 
Grazie papà per avermi insegnato la forza irresistibile del perdono: perdono per chi ti ha tradito, perdono per chi ti ha deriso, perdono per chi ti ha sfruttato, per chi ti ha calunniato. Perdono per te che mi hai un pò tarpato le ali, perdono per me che ti ho negato tutte le occasioni di dialogo. 
Grazie papà per avere scelto la mamma come compagna di viaggio: un incredibile avventura sbocciata fra le bombe di una guerra fratricida, una presenza discreta fino alla trasparenza, una spalla possente nella giungla della vita, una dedizione costante, fino all'ultimo affanno. 
Grazie papà per l'insostituibile compagnia di un fratello; siamo come lucciole, a volte ottenebrate da una notte tempestosa: presto l'aria si quieterà e l'alba ci troverà solidali e preparati al nuovo giorno. 
Grazie, infine, papà per avermi insegnato ad amare il mio paese: ho compreso il messaggio ed avrò a cuore le nostre comuni sorti perchè - come tu concludi la poesia "Giorno no" - si compia il tuo auspicio e Monopoli possa vivere, umanamente, la sua "novella storia". 

Monopoli, 27 maggio 1995
tuo figlio Ferruccio

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