28.7.21

Mano nella mano

 

Io e te
mano nella mano
era calma di luna
tacchi dolci di vento
mentre sulla piazza
ci invidiavano gli angeli.

Mano nella mano
saltavamo su marciapiedi
di zucchero filato
bevendoci gli occhi
ridendo di gusto
di chi non conosce la follia.

Mano nella mano
ci alzavamo dai crateri di Venere
su dischi volanti vestiti a festa
irridendo alle invidie
di chi non sa sognare.

Mano nella mano
era luce dipinta di cielo
sulle labbra oasi d’amore
ballavamo su cerchi perfetti
le nostre canzoni a memoria.

Mano nella mano
ora cerco la tua mano
e afferro fantocci sgualciti
sfaldati disegni d’aurora
morte celata da sorrisi.

Anime perse

Quando incontrerò la tua anima
vagante nel villaggio dei “forse”
accarezzerò i tuoi capelli
guidandoti nella casa dei “perché”
chiuderò i tuoi bagagli di paure
nella stanza degli “osiamo”
ti prenderò in braccio
varcando la soglia dei “mi fido di te”
e bacerò il tuo risveglio di fata
librandoci nel cielo dei “per sempre”.

Dopo di te

Dopo di te
inanello poesie alle nuvole
cercando squarci di cielo
dove s’affacci il tuo viso
ed io possa raggiungerti
a cavallo di una falce di luna

15.7.21

In punta di piedi

 

In punta di piedi
stenderò un tappeto rosso
dove barcollano le tue paure
fino alla cantina dell’oblio.

In punta di piedi
spalancheró le finestre dell’anima
per soffiare fuori i tuoi rimpianti
e portarli oltre il tramonto.

In punta di piedi
coprirò con petali di rose
le tue verità nude
perché divengano il mio tesoro
che nessuno mai profanerà.

Un solo posto nel mondo


C’è un solo posto nel mondo
dove si parla coi gabbiani
dove la notte ha tre lune
scorrono fiumi di cioccolata
e i grilli s’innamorano al tramonto
è il luogo dove sboccia il tuo sorriso,
e la mia anima appoggia le sue labbra.

Ti cerco ancora
nelle piaghe dei versi feriti
che urlano fra zolle spaccate
quando il sole è una spada furente,
brace viva sulla mia vita.

Esse aspettano
di germinare da sementi rare
baciate da divine rugiade
il fiore rubato alla mia vista
dal giardino dell’Eden.

E ci ritroveremo ancora
sdraiati fra cuscini di stelle
dissetati dall’umore dei sogni
fra risate di nuvole
danza di vento
carezze sui nostri corpi
avvinghiati all’infinito.

Quel giorno

 

Quel giorno
hai girato il cucchiaino del caffè
hai diviso il cornetto
sparso briciole di pane
e hai morso il boccone.

Quel giorno
hai rivoltato il mio stupore
hai diviso la mia paura
sparso petali di sogni
e mi hai morso il cuore.

3.7.21

Life di Teodoro Fuso: la mia presentazione.

 


Stasera sono stato invitato dall’amico Dodò a parlare del suo romanzo. Ma Teodoro Fuso, nella veste di scrittore, ci presenta solo una delle sue metamorfosi. Egli si può definire un artista completo. Completo ma non compiuto. Perché sono convinto che altre sorprese ci attendono, plasmate dalla sua enorme capacità creativa. La potenza dell’Arte si può paragonare all’energia che risiede nell’atomo. Come la fissione dell’atomo produce la sua divisione, così lo spirito artistico deve cercare di esprimere la sua travolgente carica in diverse forme di espressione. Pertanto, dal nucleo primordiale che ha generato il musicista è poi nato il video maker, il pittore e poi lo scrittore. (se non ho dimenticato qualcosa).
Ed in tutte queste attività Dodò è riconoscibile: la sua identità e la sua impronta sono inconfondibili e ci trasportano sui suoi binari emotivi di riflessione e interpretazione del mondo. Anche il suo romanzo è intriso di sé, del suo modo inconfondibile di pensare e riferire i suoi sentimenti.
Hemingway diceva che “gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade.” E il nostro beneamato comandante Che Guevara potrebbe fare la sua chiosa aggiungendo che “la qualità più bella di un rivoluzionario è sentire nel più profondo di noi stessi ogni ingiustizia commessa, contro chiunque nel mondo.”
Dodò sembra aver incarnato questi due assunti quando ci racconta nel suo incipit (e non solo in questa ultima sua opera) l’ultimo periodo nel quale l’idea rivoluzionaria è sembrata tanto vicina da poter essere toccata e realizzata.
Life in sostanza è un racconto che cuce due epoche. Una breve prima parte che si dipana con tutti gli ingredienti di un romanzo storico calato in quella straordinaria parentesi, qual è stato il ‘68, con le sue vicende, le sue impennate, le sue contraddizioni, e con la sua meravigliosa volontà di far salire l’immaginazione al potere. Dodò ci ricostruisce le colonne sonore di quegli irripetibili anni in cui i ragazzi di Liverpool, partendo da seminterrati, percorsero la strada che li portò ad essere il fenomeno musicale del secolo ed il punto di riferimento di quella che venne chiamata la “beat generation”. Veniamo poi trasportati nella turbolenza delle strade avvolte da fumogeni dove schiere di ragazzi manifestavano contro le guerre, contro l’arroganza del Potere, per rovesciare tutte le gerarchie dominanti, dalla cultura all’istruzione, dalla filosofia al costume che ne erano asservite e complici. Qui vengono tracciate le personalità di alcuni protagonisti. Personalità ispirate ed allenate ad un sistema di valori e ideali che - scopriremo - resteranno pietre miliari della loro esistenza. In questi frangenti Dodò non manca di darci elementi sicuramente autobiografici come i prodromi della sua arte di musicista, il suo impegno politico, la sua militanza sul campo, la sua coerenza intellettuale. Egli si muove con padronanza su un terreno più volte esplorato, analizzato e metabolizzato.
Il lettore si aspetta pertanto che la narrazione evolva verso un canovaccio ancorato a quelle situazioni, con le enormi scosse emotive ed adrenaliniche che le accompagnarono e le definirono.
Invece no. Dopo i primi due capitoli si affronta un imprevisto salto attraverso un varco temporale. Ma ciò che avvenne tanti anni prima rimane sempre sullo sfondo, e di tanto in tanto i suoi venti di passione spirano qua e là tra i capitoli del romanzo. Veniamo catapultati in un’attualità non ben precisata, anche perché il contesto storico generale non è più globalizzante e dirimente sulle vicende dei personaggi, i quali sono diventati maturi nelle loro storie personali, nelle loro scelte lavorative e sentimentali. Però essi vengono affiancati ed attorniati dalla generazione successiva. E qui devo sottolineare che la penna dell’autore fornisce le sue più interessanti evoluzioni, in quanto le vicende individuali, variegate e curate nei particolari, riescono a trascinare il lettore senza un attimo di pausa. Precipitiamo nella curiosità di conoscere passo passo dove Dodò ci vuol condurre e, soprattutto, quale sia il filo che lega queste due epoche.
Ebbene il nesso è dentro i personaggi. Tutto il mondo fuori è cambiato. Ma non nel senso e nelle speranze che erano alla base di quel ‘68 che elaborò e cercò di realizzare una palingenesi della società. Il mondo è cambiato, ma non è riuscito ad anestetizzare le loro coscienze. Non è riuscito a penetrare come virus nelle loro anime, generando i disvalori propri del nostro tempo. Quelle fiammelle accese nel passato ardono sempre nel loro profondo e consentono di fare scelte meditate, ma pur sempre coerenti con il background costruito negli anni giovanili. E i ragazzi venuti dopo di loro sembrano leggere, comprendere ed ereditare il messaggio. Essi si muovono sul palcoscenico della vita con le loro contraddizioni, difficoltà, inesperienze. Non ci sono rivoluzioni globali da preparare, ma ci sono i drammi che caratterizzano la nostra attualità da affrontare con coraggio e determinazione. Si trovano a frequentare storie di emigrazione, la tratta delle donne, la schiavitù della prostituzione. Life stessa sperimenta sulla sua pelle quanto sia difficile far emergere il talento per una donna, senza subire ricatti sessuali. Essi sono soggetti alle stoccate ed ai rimbalzi inesplicabili ed imprevedibili dei sentimenti che non hanno percorsi vincolanti di sesso, differenze di età, pregiudizi. Ma sono illuminati da un sentiero di luce aperto da altri tanti anni prima, che non si è mai fatto oscurare dalle tenebre dell’egoismo e dell’indifferenza e sul quale vengono accompagnati e tenuti per mano.
E questo sentiero di luce ha un solo traguardo possibile: un epilogo che ci lascerà emozionati e saturi di gratitudine.
E ditemi, cosa dobbiamo chiedere di più ad un romanzo se – leggendolo - ci siamo arricchiti di bei ricordi, di forti idealità, di travolgenti passioni, di ottimismo? Alla fine, siamo sicuramente esseri migliori di prima, con il sorriso incastonato sui nostri volti.
Questo è Life: un urlo di speranza che salutiamo a braccia e cuore aperti.
E non a caso Dodò ha voluto che Life fosse il nome della protagonista. Perché i nomi di persona si scrivono con la lettera maiuscola. E noi dovremmo sempre tenere scritto nei nostri cuori Life - cioè Vita - con la lettera maiuscola. Perché la Vita non sia mai sprecata, disattesa, mortificata; perché essa sia cenacolo di giustizia, fonte di fratellanza, coraggio di ribellione, quando occorre; ma soprattutto perché venga condotta e percorsa in quel meraviglioso cerchio multicolore, in quel roteare sublime e irripetibile, miracolosamente e splendidamente governato dall’Amore.

Il faro - dedicata ai miei figli Remigio e Valerio

 

Un giorno ti sveglierai
e ti sentirai diverso
un piccolo fiore divenuto tronco
in una foresta di giganti.

Avrai una domanda
e cercherai la mano
che ti correva sulle spalle,
ma sarai solo sugli scogli della vita.

Allora sii faro
nelle notti senza luna
quando l’anima s’infrange
e gli squali accorrono feroci
annusando l’odore del sangue.

Sii faro
per tagliare le nebbie del futuro
quel futuro in mano agli arroganti
agli intolleranti e agli indifferenti,
ai signori della morte.

Sii faro
per guidare le barchette indifese
spalanca le tue braccia di luce
nel tuo mare di accoglienza
ascolta tutte le lingue del mondo,
ma parla sempre quella della bontà.

Sii faro
alza il cono oltre l’orizzonte
proietta i tuoi sogni all’infinito
perché essi sfidino le tempeste
perché non si viva nel torpore
ma si lotti contro l’ingiustizia.

Sii faro
più e meglio di quanto lo sia stato io
troppo corta la mia portata,
il mio raggio intermittente
è inciampato nelle secche
e ha provocato naufragi.

Sii faro
lascia in penombra
ricchezza, fama e potere
sono mezzi e non il fine
domina i marosi dell’invidia
illumina i corridoi di felicità.

Sii faro
a testa alta, a cuore aperto
sii esempio e riferimento
alzati sempre in volo
ma tieni d’occhio la terraferma,
non farti mai spegnere la fiamma,
traccia sempre la rotta dell’Amore.

Passeggiando per il paese che non c'è più: il Capitolo

 

Di buon grado, anche sollecitato da amici, metto in ordine qualche ricordo di adolescenza sul Capitolo. Negli anni 70 l’estate monopolitana era frequentata da monopolitani. Punto. Qualche barese e qualcuno dei paesi viciniori. E i proprietari delle ville sul mare che erano un mix di tutti questi. Per noi ragazzotti il Capitolo era un gioioso prolungamento della città, una ludica periferia
da visitare con desiderio di divertimento, ma con tranquillità nostra e dei nostri genitori.
Io a 14 anni avevo un problema. Tutti i miei amici avevano il motorino (oltretutto andavo un anno avanti a scuola quindi loro ne avevano 15). Io ero a piedi o quasi. Ciao, Si, Dollaro Vespa e poi Caballero, Corsarino scodinzolavano per le strade del paese e facilmente percorrevano i 6 km o poco più che distanziavano il Capitolo. E io? Bici solo bici sempre bici! Oppure motostop. Le prime due estati furono faticose e mi fecero odiare la bici che ripresi solo moltissimi anni dopo. Finalmente nel 1975 compii 16 anni e, minacciando il suicidio, convinsi mio zio Peppino a comprarmi il tanto desiderato mezzo di locomozione. Lunga trattativa con Amodio che aveva l’officina dove ora c’è la pizzeria dei Portici. Alla fine si accordarono per 320 mila lire. E io ebbi (dopo inaudito sperpero di lacrime) il mio sospirato Moto Morini Zeta Zeta di colore blu. E indovinate dove feci il mio viaggio inaugurale? Si proprio al Capitolo. Mi sentivo Giacomo Agostini. E pensavo dentro di me: “ora sì che si rimorchierà un po’..”
Illusioni da prime tempeste ormonali.
Comunque le mie estati cambiarono di segno. Il programma prevedeva la sveglia alle ore 9.00 e l’arrivo in loco con parcheggio in villa di amiche. Pallone e costume da bagno, non serviva altro. Spiaggia semideserta si poteva giocare anche sette contro sette: gli unici a protestare erano i granchi. Le ragazze venivano coinvolte loro malgrado in una confusione di braccia, gambe, scivolate e regole che cambiavano a seconda del soggetto preso di mira. Altro sport erano i gavettoni. Mai restare fermi al sole per più di un quarto d’ora. C’era una catena umana che partiva dal rubinetto più vicino della villa fino ad arrivare al malcapitato prescelto.
Altra occupazione in voga era andare a prendersi di nascosto i vestiti delle ragazze, indossarli e tuffarsi in mare. Uno spettacolo.
Pausa pranzo e poi si ritornava la sera. Per fare cosa? Discoteche quasi zero. C’era il mitico Duna, ma le ragazze avevano il coprifuoco. Allora il punto di ritrovo era il Bar Capitolo del buon Ubaldo. Flipper, bigliardini e tanto, tanto ma tanto jukebox. Che splendido apparecchio! Tutta la hit parade del momento era presente in quei 45 giri! Se si conosceva la canzone preferita della ragazza “posteggiata” era un continuo refrain. Mi ricordo in particolare “Ti amo” di Tozzi e “Luna” di Gianni Togni, i cui dischi forse non avevano più i cerchi, tanto erano consumati. In alternativa qualche volta si andava in un gruppo di ville dove si proiettavano film all’aperto. Brandonisio si chiamava, non ho mai capito se fosse il nome di uno dei proprietari. E poi passeggiate su e giù con le inevitabili “imboscate”. Allora tra Lido Azzurro e la caletta sotto l’Ancora era un viavai.
Una volta organizzammo una caccia al tesoro. Furono coinvolte anche le masserie della zona dove andammo a depositare i biglietti con gli indovinelli. I residenti giocavano con noi suggerendo e offrendoci da bere. Entusiasmante.
Questo era il nostro semplice modo di divertirci.

Anni ‘70 Capitolo. Bei tempi.