27.9.21

Remigio Ferretti 25 settembre 1921

 

Caro babbo
oggi è per te un compleanno speciale. Ma non per un numero particolare di anni. Non è certo un contatore che può regolare il ricordo di un genitore. Questo parametro può valere per la tua storia pubblica, per quello che sei stato per la città, per la scuola, per la cultura. Ma per me sei il mio babbo con il quale avevo una storia da risarcire. Paradossalmente o - forse qualcuno mi dirà che accade spesso così - da quando te ne sei andato, sei uscito dalla porta della tua vita e sei entrato dalla soglia della mia. Eravamo troppo orgogliosi, troppo convinti delle nostre idee, troppo insofferenti a ricatti affettivi per cedere ad armistizi artefatti. Tu non volevi un figlio comunista ed io non accettavo un papà democristiano. Siamo rimasti nelle nostre Chiese. E ci siamo accorti entrambi in ritardo che la politica e la poesia sono percorsi antitetici. Si la poesia. È su quel terreno che ci siamo incontrati pian piano dopo la tua partenza. Io da subito ti avevo fatto due promesse. Che avrei pubblicato postumo il tuo ultimo libro di poesie - fatto - e che mi sarei impegnato a che la città avesse un ricordo perenne del tuo nome, con una via a te dedicata - fatto. Perché di amore si tratta. La poesia è dare un linguaggio - continuamente insufficiente - all’amore in tutte le sue forme possibili. E tu lo facevi in modo epico. Così mentre la mia vita mi ha privato di quasi tutto quello che un adolescente può avere da un rapporto con il padre - e che padre - la poesia me lo sta restituendo. Ogni giorno parlo con te babbo. Ti chiedo consigli, se una cosa è moralmente corretta, se sto compiendo un’ingiustizia o un errore madornale. Sento i tuoi rimproveri, tranquillo. Ma sono preda della mia sensibilità e del mio romanticismo. Ed in parte è anche colpa tua dai, ammettilo. Ecco perché mi perdoni. Mi hai spremuto un pò di succo di DNA nella miscela della mia chimica vitale. Quando mi colpisce qualcosa del mondo con cui interagisco, entra nel profondo e mi mette la penna virtuale tra le dita. Ma ho sempre la sensazione che sia tu a scrivere. Quando rileggo il risultato non lo riconosco, penso di esserne incapace.
Ecco perché questo è un tuo compleanno speciale per me. Non per aridi numeri ma perché il caso (?) ha voluto che fosse l’anno in cui ho pubblicato il mio libro di poesie. A te dedicato, e come non poteva essere così?
Ti vedo festeggiare in qualche parte dell’universo. Con mamma, a cui devo l’altra parte del mio DNA, quello “tosto”. E i tuoi amici, quelli affezionati del Caffè Rudy, a cui stai dicendo “Lui è mio figlio!”
Grazie babbo ancora per tutto. Tanti auguri!
Cin cin!
il tuo Ferruccio.

Pensieri randagi

 

Sono i pensieri randagi.
Essi vagano
scavalcando punti cardinali
sparigliando coordinate
su fragranze di sogni
increspando orizzonti
al limite della follia
al culmine del desiderio
all’implosione dei tempi.

Sono i pensieri randagi

Equinozio

 


Oggi tutto si pareggia
in un’afasico rituale
mentre la vita si storce
tra finte pacificazioni.

Il poeta si strugge
in una calma ironica
e il suo cuore ruggisce
di rabbiosa malinconia.

Una foglia giallo oro
scricchiola rassegnata
sfarfalleggia anemica
inciampando nel silenzio
di un’irridente tenzone
fra luce e tenebre,
albe e crepuscoli.

Il poeta è pervaso
da un’eterna sfasatura:
crepa mai ricolma
di quel grigio multiforme
che sommerge l’equinozio.

Sogno segreto

Avremmo dovuto incontrarci
all’alba di un sogno segreto
sulla cresta di onde celesti
ospiti di un concerto di rondini
corolle multicolori
diafane emissioni di stelle
io e te abbracciati
ad un cuscino di nuvole
amandoci fino alla trasparenza.

 

Leggi una poesia

 

Leggi ogni giorno una poesia
ad alta voce per strada
sorridendo al postino
e alla ragazza del bar
perché la poesia
è come invitare a cena
un amico che si era perduto
offrendogli un dolce di crema
da spalmare sull’anima.

L'ultimo rigo delle favole

 

Sai cosa mi piacerebbe?
Sfogliare un libro di pagine mai scritte
in quelle sere d’estate
quando le stelle capricciose
ci tengono coi nasi all’insù
e tutto sembra possibile
dal gelato con panna ai miracoli.

Allora vorrei salire con te
su quella collina
dove si baciano i pianeti,
dove flirtano le cicale
e gli uccellini si addormentano
col pigiama di foglie.
Giungere lassù in alto
dove le fate e le sirene
affacciate al firmamento
ci osservino invidiose.
Scopriremmo quella casetta
pan di zucchero e fragole
col tetto di cioccolata.
E lì ci potremmo sedere
a gambe ripiegate
incantati da un’orchestra di grilli
battendo le mani al ritmo di gospel.
Allora ti racconterei
di come ho convinto
gli elefanti a volare
e le balene a fare surf.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto
di andare a comprare il pane
e di lasciare stare gli elefanti,
le fate hanno altro da fare.

Invece io, testardo,
ti avrei portata in braccio
in riva al mare
dove i delfini ballano il cha cha cha
e ti avrei raccontato storie di pirati
di tesori e isole misteriose
nel punto dove si tuffa
la coda degli arcobaleni.
Ti avrei chiamato “mia Perla”
posando sul tuo capo una corona
di rucola e papaveri.
E sotto il cuscino
ti avrei donato
un intero continente
di frutta tropicale
e ti avrei chiesto di sposarmi
fra le canne di bambù
con le tasche piene di lucciole.

Eppure lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto di
ammainare la bandiera,
di abbordare il benzinaio
che le lucciole le ho in testa.

Ma io, incosciente,
ti avrei portato
nella grande prateria
dei nativi americani
ti avrei donato le mie frecce
per infilzarmi ancora il cuore
e avremmo intonato
il dolce canto del bisonte.
Tu, mia Pocahontas,
avresti fatto ghirlande di comete
e io ti avrei raccolto pepite
dal fiume del mio amore,
miliardi di carati
ad abbellirti il seno.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato
saresti galoppata via
a fumare una sigaretta,
le pepite nella differenziata.

Io ancora perduto
nella mia celeste illusione
e tu che non sei mai uscita
sul terrazzo dei sogni,
ma sei ferma al piano terra
circondata da te stessa e
piena di normalità.

Forse non ricordi più chi sono
nè perché scrivo parole a vanvera
con i piedi sulla luna
e il tuo nome
sull‘ultimo rigo delle favole.

17.9.21

Gradini di cielo

 

Salgo in cima
a questo cielo plumbeo
le unghie affilate
arrugginite dai ricordi

scalini di nuvole
increspano raggi spuntati
scie di false speranze
disegnano verità

tra fasci di sole malato
cerco un bagliore
sdraiato sulla tua bocca.


Autunno

 

Qualcuno ha bussato alla mia porta
era l’autunno
educato e solenne
ha chiesto se ero pronto
ed io ho risposto
che poteva entrare.

Quando si è accomodato
l’ultima rondine ha fatto la valigia
e se n’è volata nella nebbia.

Questo spazio di cielo
è diventato vuoto
ma il cuore si è riempito
di dolce malinconia.

Recensione alla silloge "Vivere di mare" di Teresa Tropiano

 


La prima cosa che mi è venuta in mente pensando al mare (e ne scrivo anche nella recensione a Teresa) è la libertà. La libertà è connaturata al mare, la cui forma liquida è immune da costrizioni. Come diceva Lucio Dalla: “il mare non lo puoi recintare”. E attraverso di esso c’è chi cerca e, spesso, trova la libertà. Di pensiero, di azione, di vita. Penso a tanti scrittori che hanno trovato nel mare libertà di espressione. Hemingway, Salgàri, Melville, Stevenson, Conrad. Noi monopolitani, riandando alla nostra storia siamo figli di Egnazia, ricca metropoli sul mare, quasi una capitale della Magna Grecia di quei tempi. Quella città fu distrutta e i loro benestanti abitanti migrarono poco più a nord. E incontrarono i pescatori di un misero villaggio incastonato tra le grotte che si chiamava Portus Pedie. Immaginate questa povera gente coperta di umili vesti, che accoglieva con un abbraccio solidale ricchi e nobili egnatini che fuggivano dalla morte, ancora con le loro magnifiche toghe lacere e insanguinate. Fuggivano sul mare. Accanto al mare. E nacque Monopoli. Perché le origini ce le portiamo salde addosso con tutte le nostre cicatrici. Come non pensare all’offrirsi alle nostre sponde del quadro della Madonna che venne dal mare e unisce tutti i monopolitani con la sua venerazione? E facendo un salto nel tempo. 1971. Cinquant’anni fa accogliemmo i naufraghi dell’Heleanna. Dal mare. Le nostre barche, i nostri pescherecci accorsero e salvarono vite. Vent’anni dopo l’arrivo degli amici albanesi sulla Vlora nel porto di Bari. Gente di mare come noi, talmente vicini che ci potremmo salutare come si potrebbe fare da un condominio di fronte. Il mare è la culla della vita, noi stessi siamo fatti soprattutto di acqua. Tornando agli albori del nostro pianeta, ricordiamo che le terre emerse erano tutte unite e circondate da una immensa distesa d’acqua dove brulicavano le forme di vita elementari. Si chiamava Pangea. Immaginate questo enorme blocco, questo Continente Unico dove sarebbe stato possibile incontrarsi a piedi, stringersi la mano e visitare il mare a destra o a sinistra. Niente barconi, niente stragi, un unico girotondo intorno al mare. Perché lo sappiamo il mare è giudice imparziale e inesorabile. Spazza via gusci di legno e affonda il Titanic. E noi lo riempiamo di plastica e petrolio. E a volte riusciamo ad accecare questo universo azzurro, quest’alchimia di vento e sole, questo miracolo della natura. Non possiamo non amare questo dono che ci è stato fatto: noi, gente di mare, se potessimo scegliere il nostro ultimo sguardo, lo dedicheremmo a quelle onde meravigliose, a quelle carezze di spuma, a quegli orizzonti in punta di baci, dove abbiamo accompagnato i nostri affetti, dove abbiamo rincorso i nostri amori, dove abbiamo scritto le nostre invincibili parole di libertà.

Teresa Tropiano è una figlia della sua terra bagnata dal mare. E di questa sincrasia coglie le sfumature profonde. Il rincorrersi delle stagioni in cui il mare racconta storie avvincenti, plasma incontri, accarezza o rimprovera, proprio come una madre premurosa. Teresa veleggia con la sua barchetta intagliata nel nodoso legno del cuore, cogliendo fra schizzi di spuma e essenze salmastre i messaggi che la natura ci invia, con delicatezza e con acute introspezioni. Nel suo profondo l’animo umano assomiglia al mare con le sue bizze e le sue incantevoli e mutevoli espressioni. È un volume che canta alla libertà: come scrisse Baudelaire “Uomo libero, sempre amerai il mare! È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima nell’infinito muoversi della sua lama.”

10.9.21

Cuore migrante

 

Ogni notte
migro verso la tua anima
sul barcone del mio cuore
fuggo dalla guerra del silenzio
affronto i marosi dell’assenza
per giungere tra le tue braccia
mio unico porto sicuro.

Arminieggiando

 


C’è una panchina nella villa
dove mi siedo e guardo i ciottoli rotolare
solleticando scarpe che non conosco.

Un bambino gioca col vento,
un altro con le mani nell’acqua
saluta i pesciolini,
una donna guarda oltre la siepe,
dove si ferma l’azzurro.

C’è più vita nelle aiuole
che nelle strade affollate
dove s’imbottiglia il senso
di un’umanità desolata.