La prima cosa che mi è venuta in mente pensando al mare (e ne scrivo anche nella recensione a Teresa) è la libertà. La libertà è connaturata al mare, la cui forma liquida è immune da costrizioni. Come diceva Lucio Dalla: “il mare non lo puoi recintare”. E attraverso di esso c’è chi cerca e, spesso, trova la libertà. Di pensiero, di azione, di vita. Penso a tanti scrittori che hanno trovato nel mare libertà di espressione. Hemingway, Salgàri, Melville, Stevenson, Conrad. Noi monopolitani, riandando alla nostra storia siamo figli di Egnazia, ricca metropoli sul mare, quasi una capitale della Magna Grecia di quei tempi. Quella città fu distrutta e i loro benestanti abitanti migrarono poco più a nord. E incontrarono i pescatori di un misero villaggio incastonato tra le grotte che si chiamava Portus Pedie. Immaginate questa povera gente coperta di umili vesti, che accoglieva con un abbraccio solidale ricchi e nobili egnatini che fuggivano dalla morte, ancora con le loro magnifiche toghe lacere e insanguinate. Fuggivano sul mare. Accanto al mare. E nacque Monopoli. Perché le origini ce le portiamo salde addosso con tutte le nostre cicatrici. Come non pensare all’offrirsi alle nostre sponde del quadro della Madonna che venne dal mare e unisce tutti i monopolitani con la sua venerazione? E facendo un salto nel tempo. 1971. Cinquant’anni fa accogliemmo i naufraghi dell’Heleanna. Dal mare. Le nostre barche, i nostri pescherecci accorsero e salvarono vite. Vent’anni dopo l’arrivo degli amici albanesi sulla Vlora nel porto di Bari. Gente di mare come noi, talmente vicini che ci potremmo salutare come si potrebbe fare da un condominio di fronte. Il mare è la culla della vita, noi stessi siamo fatti soprattutto di acqua. Tornando agli albori del nostro pianeta, ricordiamo che le terre emerse erano tutte unite e circondate da una immensa distesa d’acqua dove brulicavano le forme di vita elementari. Si chiamava Pangea. Immaginate questo enorme blocco, questo Continente Unico dove sarebbe stato possibile incontrarsi a piedi, stringersi la mano e visitare il mare a destra o a sinistra. Niente barconi, niente stragi, un unico girotondo intorno al mare. Perché lo sappiamo il mare è giudice imparziale e inesorabile. Spazza via gusci di legno e affonda il Titanic. E noi lo riempiamo di plastica e petrolio. E a volte riusciamo ad accecare questo universo azzurro, quest’alchimia di vento e sole, questo miracolo della natura. Non possiamo non amare questo dono che ci è stato fatto: noi, gente di mare, se potessimo scegliere il nostro ultimo sguardo, lo dedicheremmo a quelle onde meravigliose, a quelle carezze di spuma, a quegli orizzonti in punta di baci, dove abbiamo accompagnato i nostri affetti, dove abbiamo rincorso i nostri amori, dove abbiamo scritto le nostre invincibili parole di libertà.
Teresa Tropiano è una figlia della sua terra bagnata dal mare. E di questa sincrasia coglie le sfumature profonde. Il rincorrersi delle stagioni in cui il mare racconta storie avvincenti, plasma incontri, accarezza o rimprovera, proprio come una madre premurosa. Teresa veleggia con la sua barchetta intagliata nel nodoso legno del cuore, cogliendo fra schizzi di spuma e essenze salmastre i messaggi che la natura ci invia, con delicatezza e con acute introspezioni. Nel suo profondo l’animo umano assomiglia al mare con le sue bizze e le sue incantevoli e mutevoli espressioni. È un volume che canta alla libertà: come scrisse Baudelaire “Uomo libero, sempre amerai il mare! È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima nell’infinito muoversi della sua lama.”
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