Negli anni 60 quando il calcio era Ameri, Ciotti, Enzo Tortora e nulla più, per noi ragazzini figli di Carosello, sentire parlare di Pelè era come sfogliare i nostri giornalini preferiti. Nembo Kid o Diabolik, Lanterna Verde o Flash, il funambolo carioca era assimilato ad un supereroe. Forse non esisteva davvero, oppure esisteva certamente come gli altri protagonisti dei fumetti che, prima o poi speravamo di veder compiere le loro imprese sotto casa. Dovemmo aspettare il 1970 per constatare che quel giocatore straordinario era di carne e ossa non una creatura di fantasia. In Messico c’erano i Mondiali e l’Italia partecipava, in veste un pò dimessa, come è accaduto spesso, salvo poi scompaginare i pronostici. Fu una cavalcata straordinaria, come sappiamo. Fino all’ultimo atto dove incontrammo il fumetto. Si perché in quella finale capimmo che, sarà stato pure umano, ma di sicuro aveva i superpoteri. E Pelè divenne il mito che conoscevamo anche con tutti i suoi nomi: Edson Arantes Do Nascimento. E in campo scendevano tutti e quattro: troppo forte. Fu naturale per noi, ragazzini con il pallone dappertutto, eleggerlo ad esempio da imitare. Noi con le ginocchia perennemente sbucciate, con le scarpe aperte a coccodrillo, noi laceri, coi maglioni sudati e i giubbotti a fare da palo. Noi in cerca di terreni e piazze da calpestare correndo dietro a quel SuperTele, SuperSantos (la sua squadra) o i più fortunati, lo Yashin. Noi che ci facevamo anche la radiocronaca e chi dribblava tutti era sempre lui: Pelè. Noi presenti in un tempo lindo e genuino dove non ci fregava nulla di quanto guadagnasse un calciatore. Noi che pensavamo in grande. Noi che da grandi volevamo essere fumetti.