29.1.21

Poesia su Venere

Volevo regalarti
il più bello dei miei tramonti
quello dei colori inventati
dei sogni che camminano
dei baci che ubriacano.

Volevo accarezzarti
col più strano dei miei pensieri
quello delle follie improvvisate
delle corse in riva al mare
delle fantasie più sfrenate.

Volevo dedicarti
la più bella delle mie poesie
quella che ho scritto su Venere
quella che mi recita il silenzio
quella che non esiste senza te.

Volevo rabboccarti
le coperte della vita
quelle che ti tengono al caldo
quelle che ti arrivano agli occhi
perché la paura resti fuori
e il letto sia un girotondo.

Volevo trasformarti
da idea a fuoco di cellule
da sogno ad angelo di carne
farti bussare alla finestra
e volare nel mio tempo vuoto.

Vorrei prendermi cura di te


Vorrei prendermi cura di te
fra i mille aculei
che ti hanno ferito

vorrei prendermi cura di te
fra i mille sospiri
che ti hanno ucciso dentro

vorrei prendermi cura di te
e poi sparire nei tuoi abbracci.

Foto Fabio Lizzi

23.1.21

Cioccolatini di gioia

Le mie giornate
esorbitanti spazi
di mera sopravvivenza,
gesti di assuefazione,
dondolii di limbo,
perifrasi di nonsenso
truccati e organizzati.

Poi inaspettate crepe
sul muro grigio bulimico:
ed ecco che sei ombra viva
catturi quegli spazi
mi trasporti nel tempo
che non è mai trascorso.

Parliamo, voltiamo pagine di tutto,
la spesa, l’auto che non parte,
il vicino che urla, il mondo fuori
che puó rompersi in mille pezzi
ma che c’importa? siamo tu ed io
a tenerci la mano, condire l’insalata,
un bicchiere di vino e un verso di Neruda.

A raccontarci la vita che scorre
su tornanti impraticabili,
salite aguzze sanguinanti
e allora ci voliamo sopra
folli di risa, di lacrime da bere
insieme, sottobraccio al fuoco
del camino sfrigolante d’amore.

Spicchi delle mie giornate
che scappano via dalla fantasia
corrono in fondo a corridoi
dove li riprenderò umidi di sogno
per ricominciare all’infinito
rintocchi di beatitudine
cioccolatini di gioia.

Il mito degli androgini. Platone - Simposio




Gli esseri umani erano sfere perfette che roteavano nel Creato. Erano di tre generi, rotondi come i loro genitori: le donne figlie della Terra, gli uomini figli del Sole e gli androgini, che avevano caratteristiche di entrambi gli altri due generi, figli della Luna. Erano dotati di quattro braccia, quattro gambe, quattro orecchie e due volti. Essi sfidavano la potenza degli Dei e Zeus decise di punirli per tale arroganza. Ne volle limitare la forza perciò li divise, sezionandoli. Incaricò Apollo di curare loro le ferite provocate da tale operazione e il Dio le suturó con un nodo sull’ombelico. Inoltre Zeus, per ricordare loro per sempre la punizione, disse ad Apollo di girare i loro visi sul davanti, lasciando che si vedessero le rughe sul ventre. Ma le creature non si davano pace, cercando continuamente la loro metà e per questo non si nutrivano e finivano per morire di fame e di noia. Zeus si mosse a compassione e spostó loro gli organi sessuali sul davanti consentendo così la procreazione. Inizió così la ricerca della propria anima gemella. Più precisamente, gli uomini che si innamoravano delle donne e le donne che si innamoravano degli uomini provenivano dal sesso androgino; mentre gli uomini che derivavano completamente dal sesso maschile e le donne che provenivano interamente da quello femminile appartenevano alla categoria degli omosessuali. Questi ultimi, non potendo procreare, comunque erano felici al completamento della loro ricerca, contribuendo così alla serenità della comunità. 
La felicità, l’amore e quindi il desiderio di ognuno di noi di completarsi nell’altra metà non sono affatto motivati esclusivamente dall’attrazione sessuale, ma anche da qualcosa che cerchiamo nell’anima della persona amata e che è inesprimibile, nonostante lo percepiamo dentro di noi. 
Per riunirsi nel segno dell’Antica Perfezione sono quindi le anime a doversi reincontrare e riconoscersi.

19.1.21

Vidi una perla

Vidi una perla
nel fondo del fondo
dei miei pensieri aggrovigliati
e m’immersi
incantato da trasparenze
bozzolo d’armonia celeste.

Eri divina placenta
accomodai i miei sogni,
distesi le mie volontà
supine al tremolar dell’onda.

Oblio della terraferma
mi lasciai trasportare
concerto di sirene
baciai le tue valve
dove perla bluastra
lampeggiava suadente.

Cantai al popolo sommerso
la congiunzione dei pianeti
la sincronia delle maree
il perfezionarsi del mito.

Ma fu cinico inganno
lacerante metamorfosi,
effimero contrappasso,
mi ritrovai branchiale
su spiaggia di catrame
tra le mani piagate
carbonizzata perla.

Deserto

Brancolo
ramingo ed assetato,
fradicio di rena bruciante,
respinto ondivago
ai margini desertificati
di un tempo rubato al Nulla,
cercando una voce d’oasi
nella tenerezza di uno sguardo,
nel raggomitolarsi di un cenno,
nell’invocazione di un sogno.




12.1.21

Ti verrò ad amare


Ti verrò ad amare
in mille forme diseguali
mi farò plasma di collina
curvatura di onde
soffice ombra di sorriso
brezza d’aurora
unguento di tramonti.

Ti verrò ad amare
ogni giorno di mille anni
ogni vita di mille vite
sorgerò in eterno
ti sfiorerò le labbra
sole fisso del tuo cielo.

Lo scherno alla tempesta


A volte accade che di proposito 
volti la schiena alla tempesta:
ella vuol ghermir la preda
e non tollera il mio scherno,
urla, ruggisce, bestemmia
mi lambisce, mi rincorre.

A volte soave m’illude
con tropicali calme
solo cinici espedienti
per poi proiettare
neri arabeschi di morte.

Ma io sfuggo in alto
dove mi porta la poesia,
vette inarrivabili al tormento
che s’arrende rarefatto.

E lo sguardo va oltre il tempo
riporta essenza di sole
indimenticabili fremiti d’oriente
profumi e aromi di sirene.

Ma se il rotear di mondi
ha un senso definito
altre rive son da consegnare
alla giustizia del destino:
io volo, invento traiettorie,
cavalco stormi di comete
traccio iperbole d’argento,
altri strisciano falsi,
incapaci di lasciar la terra
nullità rotolanti nel fango.

7.1.21

Surplace


In equilibrio sto
fermo sulle tue labbra
curva del tempo
estasi verticale
infinito surplace.

Trasparenti


Trasparenti.
Sostiamo sulla soglia della notte.
Mentre il Nulla scorre
incollato a mosaici di buio.
Vocifera inconsistente un fiume di forse.
Sostiamo appoggiati ad inclementi deja-vu.
Roteano irridenti vortici di perché.
Musica e poesia aprono squarci di luna,
riportano consistenza ad abulici pensieri.
Cosa siamo se non particelle elementari
allume di sogni, orfani di comete?
Cosa siamo?
Trasparenti.
Sostiamo sulla soglia della notte.

L'aquilone

La terra umida stamani
brilla di luce struggente
ed io - sodale -
m’adagio nel silenzio.

Il vento calato
sul grembo fresco della collina
freme al ricordo:
faceva l’amore con l’aquilone
rutilante nel proibito volo.

Volteggiava multicolore
docile solo alla passione
il cavo tirato a sangue
assecondavo felice
il suo possesso del cielo.

Pareva non aver limiti
nè confini nè latitudini
gareggiava con i falchi
giocando a nascondino
fra nuvole impazzite.

Si spezzò quel cavo
e non vidi che riflessi di grigio
strappate ali di plastica
da sismiche vibrazioni
che mi scavarono i palmi.

Ora sciolgo annodati dubbi
quando soffia impetuoso
il vento del ricordo
che spazza la collina.