6 giugno 2019

Due o tre cose che volevo chiedere al Professore. (*)



(*) Romano Prodi iniziò il suo tour elettorale a marzo del 1995. Toccò anche Monopoli dove fu impossibile interloquire. Affidai le mie riflessioni a questo scritto che fu pubblicato sul n. 4 del periodico Confronto, edito da Rifondazione Comunista ad aprile 1995.

La sua comparsa sulla scena politica, professor Prodi, a molti deve essere sembrata come una scialuppa in un mare piatto e senza orizzonte dove naufraghi senza bussola attendono un segno dalla Provvidenza o dalla fortuna. Non posso che auspicare che in questa scialuppa salgano autenticamente i volenterosi e i disinteressati, sperando che gli opportunisti e gli adulatori dell’ultim’ora siano presto ricacciati a mollo. Abbiamo bisogno, infatti, di gente seria, di persone ispirate a valori-cardine, di uomini dallo spessore morale integro temporaneamente prestati alla politica, ma perennemente interessati all’Uomo. Soprattutto quando si deve trattare una materia come l’economia, che, in mani superficiali o egocentriche genera mostri, come possiamo vedere quotidianamente. Su questo vorrei sollecitarLe qualche considerazione. Conosco la Sua preferenza per i modelli di sviluppo noti come capitalismo sociale. Anche per coloro come il sottoscritto che non credono all’ineluttabilità della prospettiva capitalistica nel destino dell’umanità, questa scelta, dopo aver toccato con mano la devastante filosofia iperliberistica del governo Berlusconi, sembra una musica celestiale. Avanti, quindi nel delicato compito di ricucire quel reticolato di protezione del cittadino che va sotto il nome di Welfare State. A mio avviso, però, il compito storico, anzi la missione epocale ispiratrice di una compagine di governo su basi solidaristiche, dovrebbe essere quella di indicare alle generazioni future una strada di totale ripensamento della sua identità, del suo stare nel mondo, e nella Storia. Dovremmo richiamare alla luce quegli ideali conformi alle nostre coscienze che troppi anni di sospetto, di opportunismo, di pregiudizi, di intolleranze, hanno seppellito di polvere dogmatica e settarismo. Abbiamo un dovere nei confronti dei nostri figli: forse non riusciremo a consegnare loro un mondo migliore, ma dovremmo almeno cercare di dare loro dei nuovi strumenti di lettura e analisi della realtà, delle tessere di un mosaico tutto da costruire all’insegna del bene comune. In questo quadro, si innesta una valutazione diversa delle strategie necessarie per combattere la disoccupazione, nel medio-lungo periodo. Il carattere strutturale del fenomeno, connesso all’innesto su larga scala di tecnologia, è ormai, credo, un fatto acquisito. La scelta dei metodi per contrastarlo, invece, è a mio parere, lo spartiacque che tiene da un lato coloro che hanno a cuore esclusivamente il profitto e la produttività hunc et nunc, espressioni di una logica esasperatamente aziendalista dei rapporti di produzione, e dall’altro coloro che privilegiano la redistribuzione del reddito e la qualità del lavoro e della vita. Flessibilità, mobilità, precarizzazione, frammentazione della forza-lavoro contro riduzione dell’orario di lavoro, salario di cittadinanza, promozione ed incremento dei lavori socialmente utili. Sarebbe possibile un mix sapiente ed oculato di questi correttivi al fine di contrastare la tendenza in atto? Anche in Germania, un esempio che lei cita spesso, la disoccupazione è in lento ma costante aumento fin dagli anni ’70, per poi diventare un fenomeno importante nel 1989 quando, da assomigliare al nostro settentrione, è passata a dover sperimentare cosa significa correre in soccorso di fratelli più bisognosi, con l’annessione dell’Est. Certo, si parla di un paese dove la protezione sociale è ad un livello qualitativo incomparabilmente superiore al nostro, con un livello di salari mediamente più alti e soprattutto, lo ha ammesso anche Abete, con un livello di dibattito all’interno della cultura industriale più avanti di noi di almeno dieci anni. Non a caso il primo esperimento europeo di riduzione controllata di orario di lavoro è avvenuto alla Wolkswagen. Si dice che un progetto del genere è intrasferibile in Italia perché la struttura produttiva non al passo con la competitività internazionale scaricherebbe eccessivi costi sulle aziende. Ma ecco dove una nuova cultura di governo, europeista dal lato della solidarietà e non dal lato della sopraffazione da parte del più forte, deve avere la sua parte: farsi carico di avanzare alla intera Comunità Europea, partendo dal libro bianco di Jacques Delors, che pure contiene timide aperture in tal senso, una proposta di graduale riduzione degli orari e dei tempi di lavoro, da attuare compatibilmente con le singole realtà economiche nazionali, magari operando per aggregati produttivi (metallurgia, chimica, terziario, ecc.). Ciò consentirebbe una equa ripartizione dei costi iniziali e una sostanziale ripartenza ad armi pari sul piano della concorrenza. Non sono da sottovalutare i benefici sociali ed economici che questo processo comporterebbe, oltre a quelli ovvi e inestimabili, sul piano della qualità della vita. Il tempo liberato avrebbe canalizzazioni tra le più varie, una tra le quali potrebbe essere la formazione professionale. E qui mi viene spontaneo il collegamento con uno fra i temi che a Lei stanno più a cuore e cioè la scuola. Il potenziamento della struttura scolastica pubblica, l’efficienza e l’ottimizzazione delle conoscenze culturali e professionali sono un progetto nel quale non si può non credere; tuttavia il prodursi di effetti pratici sul mercato del lavoro saranno giocoforza una verifica a carico delle generazioni future. Una parte del tempo marginale a disposizione del lavoratore sarebbe potenzialmente ed immediatamente utilizzabile per specializzazioni e qualificazioni nel settore dove si opera, potrebbe essere rilanciata la spesa per investimenti nella ricerca tecnologica, e assicurato un ricambio di risorse umane ai livelli tecnici più elevati. Abbracciare questa alternativa insieme ad una flessibilità non di tipo selvaggio, corredata di un sistema di garanzie che, codificando tutta una nuova serie di diritti inalienabili, tuteli in egual misura i lavoratori con contratti diversi, insieme allo sviluppo di attività socialmente utili, servizi sociali, ricreativi, culturali potrebbe essere la mossa decisiva per invertire la marcia.

Altro argomento su cui vorrei chiedere un chiarimento del suo pensiero è quello delle privatizzazioni. C’è un rischio oggi nel nostro paese: quello che si proceda nel merito con una precipitazione ed una determinazione che sconfini nel pregiudizio ideologico. Sembra risentire levarsi le grida di “al rogo! al rogo!” per tutto quello che è stato in mano pubblica. Come per la democrazia politica ben poco ha significato (anzi!) l’avvento di una nuova legge elettorale, così, a mio parere, nella democrazia economica, “estinguere” lo Stato sarebbe profondamente deleterio. Certo lo Stato si deve alleggerire, ma soprattutto di elefantiaca burocrazia, di paludosi clientelismi, di raffinati parassitismi, e, senz’altro, bisogna dismettere qualche attività che per lo Stato comporti oneri di controllo ingiustificati e elementi turbativi della concorrenza. Ma, nei settori delicati come l’energia e le telecomunicazioni, ho serie perplessità che esistano motivazioni diverse da quelle ideologiche per giustificare un affrancamento totale e frettoloso. Per il cittadino-utente l’Enel rappresenta a ben vedere una identità nazionale: dalle Alpi a Pantelleria una rete, una bolletta, un riferimento contrattuale, delle tariffe uguali per tutti. Non è affatto certo che nascerebbe un mercato dell’energia con benefici per i cittadini: piuttosto credo il contrario. Il progetto di smembramento delle attività tra produzione, trasmissione e distribuzione con il passaggio ai privati della prima, significa consegnare loro una sicura fonte di alti profitti che si andrebbe a collocare in un mercato già saturo di incentivi e garanzie a favore dei produttori privati, annullando di fatto le possibilità di una “par condicio” a beneficio dell’utenza. Non è aleatorio prevedere, inoltre, un aumento dei costi derivante dalla divisione di un’azienda – che ora è fortemente sinergica – con conseguente sugli investimenti e sull’occupazione. I servizi pubblici non sono “merce” assimilabile ai prodotti di un supermercato. La loro destinazione sono gli uomini e il loro mercato non può essere che un mercato regolato con accuratezza e garanzie. Nel campo delle telecomunicazioni poi, la frenesia dismissiva ha preso di mira la Stet. La situazione ha forti analogie con quella dell’inizio degli anni ’80, quando un signore milanese cominciò a comprare televisioni su televisioni senza colpo ferire, insinuandosi in un vuoto legislativo da far paura. Allora era etere, oggi è cavo, domani fibra ottica. La filosofia da seguire, a mio avviso, in questo settore non è quella della cessione, ma quella della costruzione: costruzione di un autentico mercato con la liberalizzazione degli accessi; costruzione di un polo pubblico della produzione (RAI, Cinecittà). Un solo dato mi pare illuminante: in Francia e Germania per le privatizzazioni delle locali France Telecom e Deutsche Telecom è prevista un’attività legislativa ed amministrativa lunga otto, nove anni: noi vogliamo risolvere tutto nello spazio di un mattino. Perseverare nell’errore di lasciare a disposizione degli avvoltoi questo immenso potere di decidere come e quali porte si devono aprire e per quali porte si deve passare e come si deve bussare per ottenere risposta, è veramente diabolico. Che il signore di turno oggi si chiami Mediobanca ha un sapore ancora più sinistro: anche qui una concentrazione di potere in un solo soggetto giuridico che fa rabbrividire. Banche, assicurazioni, telecomunicazioni, grandi famiglie del Nord, tutti insieme a braccetto. Professore ci dia su questa questione qualche spunto di serenità.

Per finire, insieme ai miei più sinceri auguri, vorrei formulare la speranza che la coalizione che la sosterrà abbia l’apporto di tutte le forze politiche, sociali e culturali antitetiche alla Destra, perché possano essere rispecchiate, anche se in piccola percentuale, tutte le istanze provenienti da tutti i soggetti più deboli di questo paese, soggetti che potrebbero essere finalmente recuperati alla visibilità, dopo questi ultimi tempi permeati di oscurantismo e cupa rassegnazione.

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