1977, ultimo anno di liceo: ci viene proposto di svolgere il seguente tema: La parola partecipazione è oggi molto usata. Analizza le esigenze che portano gli uomini a pronunciarla molto spesso.
Ho deciso di pubblicare questo svolgimento perché, rileggendolo, al di là dei contenuti molto "scolastici", mi ha colpito il riferimento finale ai "ducetti" di Moravia. Una prova ulteriore che l'affidarsi "all'uomo solo al comando" è un vezzo antico del nostro comune sentire. E che i vari Matteo di oggi, chi in salsa edulcorata, chi in grottesca veste razzista non provengono da Marte, ma da un humus che non riusciremo forse mai a bonificare.
Partecipazione è una parola foneticamente piacevole, scorrevole, lapalissiana per ciò che riguarda il concetto; è una parola che fluttua, gravita s’insinua per un attimo al centro delle nostre congetture, poi riprende a vorticare sfuggente e beffarda. Chi, oggi, non si sente totalmente appagato, compiaciuto, realizzato dopo aver pronunciato questo termine e aver dato modo così al pubblico, esigente solo in senso morfologico e non concettuale, di vedersi specchiato nella propria cultura? Dall’alto dei palchi nelle piazze, dal vociare dei politici riversato nel microfono, la parola emerge e urla nell’etere tutta la sua prosopopea: è il momento dell’applauso. “Partecipazione” è entrata a far parte, come tante altre parole, di uno schema fisso e sacro che costituisce quel linguaggio fatto di aforismi, sillogismi e sofismi, che, per la sua collocazione nell’area della “nuova sinistra”, noi chiamiamo “sinistrese”. Fu nel ’68 che la rivoluzione studentesca, elaborando dei valori a lungo propagandati dal filosofo Marcuse in particolare, ma anche dalla scuola di Francoforte (Husserl, Popper), codificò il nuovo regolamento di vita e, conseguentemente, il nuovo vocabolario di protesta, nel quale le giovani generazioni dovevano riconoscersi nella lotta per una scuola nuova. Naturalmente l’egemonizzazione, operata in quegli anni, della contestazione da parte delle forze della sinistra storica, ha provocato un assorbimento di quei valori appena riscoperti, e quindi un totale assoggettamento della volontà rinnovatrice degli studenti alle velleità di integrazione graduale al potere della sinistra ex-rivoluzionaria. Perciò negli ultimi disordini scoppiati nelle università si sono rinnegati gli ideali sessantotteschi e ne è venuto fuori un disconoscimento della reale validità dei concetti che queste parole, troppo spesso ripetute, esprimevano. D’altra parte si sono peraltro coniati altri aforismi e modelli di linguaggio che hanno aperto il nuovo corso della protesta studentesca.
Offuscata, seppellita e soffocata da questa valanga di filosofame, la concretezza oggi ci appare più lontana di quanto non sembrasse ai neo-platonici. Non si può, quindi, fare un’analisi del fenomeno “partecipazione”, perché, in questo caso, ci sarebbe ben poco da dire: è interessante riscoprire le fonti dalle quali è scaturito questo concetto che in germe contiene uno degli elementi fondamentali della vita associata e democratica. Marx parlò di partecipazione attiva dell’operaio alla fase produttiva dell’azienda, operai che provenivano da decenni di sfruttamento e imbavagliamento; in Inghilterra Bernard Shaw, insieme con un gruppo di intellettuali, promosse la creazione delle Trade Unions che rappresentano il primo esempio di sindacato dei lavoratori; Lenin in “Stato e rivoluzione” teorizza la partecipazione dei contadini alla rivoluzione, gli stessi che Engels aveva definito “reazionari”; Gramsci parla di partecipazione degli intellettuali alla conduzione del Partito del proletariato, intellettuali che Marx bollò come “servi del potere”; in tempi più recenti Togliatti, Bordiga, Alicata ed altri hanno parlato della sensibilizzazione e partecipazione delle minoranze emarginate alla vita del paese. Appare evidente che il contrario di partecipazione è isolamento. Quando si esce dall’isolamento che può essere fisico o intellettuale o, più frequentemente, di entrambi i tipi, si contribuisce con le proprie idee al vaglio critico di ogni questione, ci si difende dalle egemonizzazioni, ci si batte per la libertà delle idee, si partecipa.
Da anni ormai si sente ripetere che “libertà è partecipazione”, ma mentre questo postulato non sempre è valido (si pensi ai cosiddetti “autonomi”, che, per quanto possano essere considerati liberi da ogni condizionamento borghese, non partecipano affatto, anzi vivono per la distruzione del confronto dialettico), il suo contrario, e cioè “partecipazione è libertà” può essere considerato veritiero: se ci si sente in grado di partecipare si è ad un passo dalla conquista della propria libertà. La partecipazione, quindi è sottomessa e condizionata da quelle forme di soggiogamento psicologico, una fra le più diffuse delle quali è il leaderismo. La continua identificazione delle masse in certi archetipi che rendono innocuo lo stimolo critico e affossano la personalità individuale causa il totale disinteresse per l’attività singola e delega l’istituto del rinnovamento a pochi, che non sono e non possono mai diventare gli interpreti universali delle esigenze della maggioranza. Scendendo nel pratico, gli archetipi diventano le avanguardie, i “ducetti” come li ha efficacemente contraddistinti Alberto Moravia; e questi idoli, ai quali bisogna alle volte riconoscere una certa non-coscienza del loro ruolo, si vedono accollate delle responsabilità che magari, in quel momento, sono lontanissime dalle vere istanze della base. Qui esplodono le molte contraddizioni che si riscontrano quotidianamente tra pensiero e azione, personale e politico, simbolo e concetto, realismo e realtà. La partecipazione è quindi un fantasma, e come tale si mostra solo a chi ci crede; non solo, ma i fantasmi sono spesso frutto di superstizione, di fantasia collettiva e di pregiudizi infantili; e si sa, sconfiggere la superstizione è difficile. Ma verrà il giorno in cui qualcuno solleverà il lenzuolo e scoprirà che i fantasmi non esistono, che ci sono solo i morti.(*)
Questo finale fu fortemente influenzato, all'epoca, dall'omicidio di Pier Francesco Lorusso avvenuto a Bologna l'11 marzo del 1977.
Interessante contributo, Ferruccio. Lucido argomentato e maturo per quei tempi.
RispondiEliminaCon la consapevolezza di oggi, aggiungerei che la partecipazione è frutto di due componenti indispensabili, una pubblica e una privata.
La prima è l'educazione.
Se famiglia, scuola e informazione non svolgono il loro compito, e i tempi spingono in ben altra direzione, è difficile si crei una coscienza della partecipazione.
La seconda è il senso di responsabilità personale.
La partecipazione vera necessità di tempo, energie e una parte degli altri nostri interessi da sacrificare per costruire una comunità più attenta alle esigenze di tutti e più libera da capi e capetti