17.10.13

Romani come Diocleziano (*)




“Dìvide et ìmpera” è una locuzione latina che definisce una strategia ben definita che punta alla frammentazione delle forze che (anche solo potenzialmente) potrebbero opporsi al potere costituito, con il risultato che questo potere, numericamente debole, trova ossigeno e stabilità dalla mancata coalizzazione degli avversari, generalmente distratti o blanditi da studiate concessioni. La storia romana è attraversata da questa prassi, ma forse uno degli esempi più eclatanti è rappresentato da Diocleziano, il quale regnò per due anni da solo e poi nel 286 nominò suo “vice” Massimiano Augusto, per arrivare poi a quella genialità chiamata “tetrarchia” nel 293, investendo altri due “cesari” Galeno e Costanzo delle responsabilità di governo. “E se prima eravamo in due a ballare l’alligalli…”.Sarà stato questo il ritornello con il quale il nostro Imperatore Romani, sulle orme di Diocleziano, si è messo a tavolino e ha deciso di cooptare (e dividere) quelle opposizioni finte o querule, che in vari modi minacciavano di sollevare le Provincie dell’Impero. E’ impressionante lo scollamento tra il debordante consenso di cui gode l’Imperatore tra la gente e l’assedio affamato del branco di squali-tigre che lo circonda: se ci fosse anche qualche magistrato comunista che lo perseguita mi ricorderebbe qualcuno. Ed è proprio questa ansiosa necessità di puntellare il suo governo che induce a qualche riflessione. Questa distribuzione di prebende pone il dubbio che, nel corso del Primo Impero, si sia aperta qualche corsia preferenziale in settori ed ambiti delicati e/o strategici, quali PUG, concessioni, gestione dei contributi ecc. che non sia stata digerita e tale costipazione ora torni come arma di pressione impugnata dagli scontenti. Nella frenesia di volersi ancorare al trono nella maniera più salda possibile, all’alligalli sono stati invitati a ballare anche schegge dell’opposizione, alcune “gravide” (splendido, il nostro dialetto, quando classifica alcune “formae mentis”), altre forse solo ingenuamente desiderose di rendersi utile (nella migliore delle ipotesi). Per il resto, dalla minoranza, solo voci isolate (Papio, Comes) si levano indocili. Gli altri ex candidati Sindaco, impavidi e battaglieri in campagna elettorale, che fine hanno fatto? Uno esule in Montenegro, mentre all’altro hanno aperto un ufficio sotto casa. Sul territorio, comitati di cittadini si organizzano a tutela di interessi circoscritti e definiti (commercianti, residenti Ina-Casa). Un altro significativo pezzo di Istituzioni sta prendendo congedo dalla città senza che il Sindaco abbia deciso di dormire in Tribunale come fece al S. Giacomo: qui non c’è Vendola da attaccare e si può “surfare” morbidamente sull’onda lunga delle larghe intese. Insomma, ci sono le premesse perché l’Imperatore possa festeggiare i “vicennalia” come Diocleziano? Può darsi, ma la sensazione è che ci sia più di un terreno minato sul quale le legioni potrebbero marciare con esiti devastanti.
La questione dei rifiuti, in primis. Il fatto che sia stato collocato un principe del foro a monitorare la situazione lascia intendere che non ci si aspettano sviluppi tranquilli su quel fronte. E’ tollerabile inoltre che i cittadini continuino ad essere (tar)tassati per un servizio inefficiente e inquinante? Ci sono presupposti per una class-action?
La questione della Cementeria. Ci saranno ancora scritture e riscritture, cancellazioni e refusi sul progetto in itinere? E la demolizione, alla quale è stata data una promo-accellerata poco prima delle elezioni, si svolgerà senza intoppi o rischi ambientali? 
La vendita/svendita di immobili comunali. Mentre una parte di personale scolastico ancora vaga come rom nella città e altre parti sono trattate come cartone pressato, si continuerà a far cassa su tutto senza che nessuno sollevi dubbi su opportunità e liceità di queste operazioni?
Domande che gravitano nell’aria di questo incombente autunno in cui la nostra città, chiassosa e gaudente d’estate, si prepara al consueto, soporifero e apatico inverno.


(*) Pubblicato sul numero di ottobre 2013 di "Report.m"

4.10.13

Morte per acqua. (T.S. Eliot)






Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l'ossa in sussuri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

28.9.13

Remigio e Gemma: un amore sotto le bombe.


Sul numero di ottobre di Report.M viene ricordato l'incontro dei miei genitori. Come tante vicende accadute nel periodo bellico essa è avvolta da un alone misto di romanticismo e dramma. Io l'ho voluta ricostruire così, come me lo dettava il cuore e scarni frammenti di racconto, sfarinati nella memoria.

Quella mattina Antonietta, come al solito, era in piena attività. Erano solo le sei e fortunatamente la notte a Torino era trascorsa tranquilla. Dopo il coprifuoco nessuna sirena aveva lacerato il silenzio e così aveva potuto riposare. Aveva preparato il cestino per Paolo, suo marito ferroviere, che di lì a poco sarebbe venuto a bere il suo caffè nero e bollente. In quel plumbeo mattino di gennaio del 1945, Antonietta si fermò un attimo e pensò a quelle tre pesti che aveva messo al mondo e che anche oggi avrebbero preteso uscire per la loro missione. Pericolosa, aggiunse dentro di sé. Gemma, Rita e Giovanna, le loro figlie, erano fisicamente simili, ma con caratteri completamente diversi. Giovanna era bonacciona e ingenua, si faceva trascinare e non aveva ancora una personalità ben definita. Rita era saggia ed accondiscendente, paziente fino allo sfinimento, una vera donna di casa, sapeva già far tutto. Gemma, oh! Gemma! Era un castigo di Dio! Certe volte Antonietta si chiedeva se fosse davvero sua figlia o se non l’avessero scambiata nella culla. Poi interveniva Paolo e metteva le cose in chiaro: “E’ tua figlia. Non avere dubbi a riguardo, ci hai messo tutto del tuo….” Quelle tre le stavano dando delle apprensioni. Gemma aveva convinto le due sorelle che sarebbe stata un’opera meritevole sfamare ed assistere i soldati italiani di stanza nella caserma “Riva” che si trovava a circa due chilometri dalla loro casa. Durante l’inverno ne erano arrivati a frotte, superstiti dai vari fronti dove si combatteva e che avevano scelto, molti loro malgrado, di rimanere, dopo l’8 settembre del ‘43, nell’orbita dei Tedeschi sotto il regime di Salò. Pativano la fame e il freddo quei soldati, già reduci da stenti e privazioni. E così le tre sorelle trasformatesi in crocerossine, si caricavano di pane, frutta, biscotti, vestiario di lana e altri beni di prima necessità e si recavano alla caserma, sfidando ed eludendo i posti di blocco dei nazisti. E Antonietta era sempre in ansia. Non avrebbe voluto acconsentire, ma Paolo le disse: “Le tue figlie hanno un cuore grande e tu avresti fatto la stessa cosa al loro posto”. Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da Paolo che le venne incontro, la baciò sulla fronte e le disse: “Buongiorno, dormito bene? Stanotte tutto tranquillo grazie a Dio…E le bambine? Ancora a letto?” – “Tutto bene….ehm…(sempre bambine le chiamava!)…Non sarà il caso che si fermino un pò?” – “Sta tranquilla. Sento che questa sporca guerra è agli sgoccioli e….non so, mi aspetto belle novità, sono ottimista e fiducioso!”. Le sue parole la rincuoravano sempre, la sua voce profonda era un calmante naturale. Antonietta sospirò e gli porse la tazza del caffè. Dopo che Paolo l’ebbe lasciata, andò in punta di piedi nella stanza delle ragazze e trovò Gemma già sveglia che si stava vestendo. “A te non ti fermano neanche le bombe, eh?” Per tutta risposta lei le chiese: “Hai preparato i cartoni?” – “Si, sono sul tavolo.” – si rassegnò Antonietta. Gemma chiamò sottovoce le sorelle si avviò in cucina e cominciò a infilare nei cartoni il pane e altre vettovaglie. Venne raggiunta da Rita e Giovanna, dopo grandi sbadigli, e tutte e tre indossarono degli ampi cappotti, ciascuna prese un cartone legato con lo spago e uscirono nel freddo e grigio inverno torinese, inseguite dalle insistenti raccomandazioni di Antonietta, sempre più flebili man mano che si allontanavano dal giardinetto di casa.
La strada per arrivare alla caserma era battuta dalle ronde a tutte le ore e quindi loro cercavano di percorrere vicoli alternativi. Ogni tanto si bloccavano perché arrivava loro l’eco della marcia tedesca: “Eins, zwei, drei, mach' mich frei, vier, fünf, sechs, was kann die Hex!” e il selciato trasmetteva i colpi degli scarponi. Poco prima di arrivare sulla piazzetta prospiciente la caserma, incapparono in due soldati della Wehrmacht che gironzolavano non inquadrati. “Halt! – Wohin gehen sie?” – “Abbiamo del pane e biscotti. Ne volete un po’?” Avevano imparato a comprare il silenzio dei tedeschi. Allungarono loro un filone e due sacchetti di biscotti e loro si fecero da parte. Con le gambe un po’ tremanti arrivarono vicino al cancello della caserma. La sentinella le conosceva e aprì. Dettero un pacco di biscotti alla sentinella e percorsero una ventina di metri fino al portone. Le stavano aspettando. Decine e decine di mani si alzarono spuntando dalle maniche troppo larghe dei cappotti. Misero i cartoni per terra e distribuirono il contenuto. “Grazie, che Dio vi benedica!”. Stavano per fare dietro front e allontanarsi quando Gemma fu attirata da un giovane ufficiale che non badava a prendere la sua parte, ma si era fermato e le stava sorridendo. “Hai la grazia di un cerbiatto e il coraggio di un leone!”, le disse. Il suo era un accento strano, Gemma non lo aveva mai sentito, ma le parole furono come un cuneo nell’anima. Rimase attonita e un rossore diffuso colorò le sue guance. “Come ti chiami? – chiese il giovane. “Gemma” – “ E io Remigio. Sono arrivato la settimana scorsa. Tu vieni sempre qui?” – “Si, ogni settimana, il martedi”. “Bene, io ci sarò. E la prossima volta vorrei poter parlare con te”. Si rividero. Si parlarono. Gemma interrogò il suo cuore e la risposta fu che palpitava per quel giovane ufficiale dai modi gentili, dallo strano accento, ma dalla favella sciolta e forbita. Il quarto martedì lui le disse. “Fuggiamo insieme. Ti porterò con me a casa mia e ti sposerò.” – “Ma dov’è casa tua?”- “Lontano, in un paese caldo e accogliente, dove ci sono il mare e le colline e il sole li tiene uniti come due teneri amanti…Si chiama Monopoli”. Per Gemma poteva chiamarsi anche il Paese Di Gianburrasca. Era innamorata di quel giovane che parlava strano e le scriveva poesie. E lo avrebbe detto al papà. E poi il papà lo avrebbe detto alla mamma. E poi il papà avrebbe convinto la mamma. Successe proprio come aveva pensato e mamma Antonietta piangeva di notte per non farsi vedere. Remigio dichiarò domicilio in Via Ticino 13, casa di Gemma, sul Lungodora. Venne aprile e i primi di maggio: il giorno stabilito. Fuori, Torino appena liberata, ma ancora insicura. Gemma abbracciò tutti e promise che sarebbe tornata appena possibile. Mamma Antonietta si nascondeva dentro un fazzoletto. Papà Paolo la baciò sulle guance e le disse: “Se ti trattano male, torna da me. Sùbito.” – “Non temere papà. Mi fido di lui”.
Da quel momento in poi un turbine di emozioni.. Remigio indossa abiti civili, da operaio delle ferrovie, in tasca dei lasciapassare delle brigate partigiane. Anche una tessera dello PSIUP. Troppo rischioso prendere il treno da Portanuova. In cammino verso sud, con solo in una borsa pane, biscotti e tanto coraggio; in aperta campagna saltano muretti, guadano stagni, scavalcano collinette. Finalmente arrivano al paesino di Villanova e si fermano alla stazioncina. Dopo un paio d’ore arriva un merci. Salgono su un carro bestiame: stipati all’interno una dozzina di persone, babele di lingue e razze, fuggiaschi come loro. Gemma cerca di ignorare il tanfo che aleggia. Il treno si muove. Asti. Alessandria. Genova. La porta del vagone si spalanca: “Ci sono fascisti qui?” - Tutti con il pugno alzato. – “No compagni! Torniamo dalle montagne!” Il viaggio prosegue. La Spezia. Ancora ronde, controlli, Bella Ciao e Internazionale. Viareggio. Firenze. La tensione si scioglie. Giù verso Roma. Si socializza. Ci si scambiano nomi, indirizzi, promesse. A Roma ci si separa. Tranquilli, ormai è solo chewingum e coca cola. Altro merci ancora più scalcagnato. Napoli. Si sente il tepore del sole. Bari e tutti parlano come Remigio. Un camion militare per Monopoli. Sono passati 4 giorni e 4 notti, ma dove mi hai portato Remigio? In Africa? Ecco, ci siamo. Un mucchio di casette bianche. Un calore di terra e umanità. Un abbraccio d’azzurro. Il mare. Odori e sapori di pace. Benvenuta Gemma. Bentornato Remigio. Grazie infinite. La vostra storia, la mia storia.


Protagonisti:
Paolo Binando (mio nonno)
Antonia Cavallo in Binando (mia nonna)
Margherita e Giovanna Binando (le mie zie)
Gemma Binando (mia madre)
Remigio Ferretti (mio padre)
Varia Umanità

17.9.13

PD: Politici in cerca D'autore (*)


Quando mi si è sollecitata una qualche riflessione sull’attualità politica locale ed in particolare, su ciò che sta accadendo nella galassia PD & affini, ho avuto serie difficoltà nel trovare materia dirimente sulla quale innestare spunti più o meno degni di approfondimento. Un non-Segretario che si dimette senza essere stato eletto, per protesta contro la condotta di un non-iscritto, pupillo di un capogruppo divenuto tale in quanto ex non-candidato, ma autocandidatosi Sindaco. Roba da manuale di psicanalisi. Le sportellate, tanto più assordanti quanto regredenti sul piano della materia grigia, alle quali stiamo assistendo, fanno parte ormai di una drammaturgia che si avvicina al pirandelliano “teatro nel teatro”. Nella famosa Trilogia “Sei personaggi in cerca ‘autore”,” Stasera si recita a soggetto” e “Ciascuno a suo modo”, viene esplorata la dimensione del meta-teatro, quella dimensione cioè nella quale attori, ruoli interpretati, vicende umane e sceneggiature si confondono e si sovrappongono, ponendo questioni filosofiche sulla natura e il limite (e se vi ha da essere addirittura un limite) della recitazione, in quanto ognuno di noi, anche nella vita reale, interpreta una “parte” drammatica. Il canovaccio al quale stiamo assistendo appare così similmente confinato sul terreno della meta-politica, un terreno sul quale ognuno sta recitando un ruolo che ritiene più o meno consimile ai propri interessi, bassi o alti che siano. Sullo sfondo tante rese dei conti da compiere. C’è il burocrate intransigente che passava per caso di lì, c’è l’uomo del fare e (dis)fare che alza il sopracciglio verso tutto ciò che giudica radical-chic, c’è il narciso opportunista, c’è il palafreniere pentito e tutti coloro che si sono pentiti di essersi pentiti. C’è tutto tranne che un partito. Ma ormai il PD ha iniziato a cessare di essere un partito da quando correnti di profughi democristiani ne hanno scalato le gerarchie, occupato le dirigenze, obnubilato la progettualità, svenduto le coerenze. Taluno si è inventato il renzismo, malattia infantile dell’ecumenismo, parafrasando Lenin. Tali correnti, quando esisteva lo scudo crociato, avevano una ragion d’essere in un partito votato all’occupazione del potere, che aveva scannerizzato la sua struttura interna sulla base di quella dello Stato o dell’Ente locale amministrato. Ma quando quella struttura ha da essere riformata, quando occorre mettere in campo energie positive, quando conta il cuore più che il cervello, le correnti manifestano malessere, scorréggiano, sgomitano e calpestano, generando un tumore linfatico che non lascia scampo. Quando si è all’opposizione occorre un progetto alternativo. Punto. Se si è fatta un’analisi corretta e puntuale della mala-gestione del Primo Impero Romani è dovere di un'opposizione degna di questo nome dotarsi di uno strumento programmatico che abbia una scala di priorità sulle quali confrontarsi con la Giunta insediata. Se per mera casualità accade di potersi allineare alla maggioranza su particolari problematiche che possano risolversi a beneficio della cittadinanza, nulla quaestio. Per far questo non c’è bisogno di azzannare al volo deleghe pelose come fossero mangime per porcilaie. Altrimenti rigore, controllo serrato e circolazione virtuosa di idee nuove. Solo questo chiede un elettore medio, non la rivoluzione d’Ottobre. Non credo che sia complicato, per un partito che voglia ricostruire una certa credibilità, trovare unità d’intenti su questo. Tutto il resto sono scorie radioattive democristiane di cui non abbiamo nostalgia.

(*): Pubblicato sul numero di settembre 2013 di Report.m

4.9.13

La tastiera spuntata




Nelle giornate scorse ho letto una stuzzicante querelle su una locale testata on line (Monopolipress) sollevata da un attento lettore il quale rilevava l’ingiustificata omissione, nell’ambito della notizia di cronaca, di un provvedimento emesso ai danni di un caseificio cittadino, della sua identità. La redazione della testata ha addotto ragioni inerenti il codice di deontologia professionale dei giornalisti. Tale posizione, già di primo acchito, mi è sembrata pretestuosa, ma ho voluto approfondire spinto dal fatto che sono già persuaso da tempo che il proliferare d’informazione locale, anche sul web, non corre di pari passo con la sua qualità e indipendenza. In più di un’occasione si nota palesemente come si preferisca dare spazio maggiore alle notizie basate sul gossip e la cronaca nero-rosa, alle diatribe tra i politici cui piace fare le prime-donne senza alcun costrutto, piuttosto che alle voci autenticamente critiche e agli interventi di peso culturale innegabile e si sta molto attenti a quali piedi si possono pestare. Ho consultato il citato Codice Deontologico dell’Ordine dei Giornalisti che all’articolo 12 recita:

Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali.


1. Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'art. 24 della legge n. 675/96.


2. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'art. 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'art. 5.

Quindi “ex scripto” si evince già di per sé che il codice tende a superare dei limiti più che ad imporli. Sono comunque andato a verificare i riferimenti legislativi. In realtà l’articolo 24 della legge 675/96 non fa che riportare quanto stabilito nel Codice Deontologico il che rende addirittura superfluo il punto 2 dell’articolo 12 su riportato:

Dati relativi ai provvedimenti di cui all'articolo 686 del codice di procedura penale.


1. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del codice di procedura penale, è ammesso soltanto se autorizzato da espressa disposizione di legge o provvedimento del Garante che specifichino le rilevanti finalità di interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati trattati e le precise operazioni autorizzate.

Restano da esaminare i commi dell’articolo 686 c.p.p. che descrivono le annotazioni nel Casellario Giudiziale che sono:

a) nella materia penale, regolata dal codice penale o da leggi speciali:


1) le sentenze di condanna e i decreti penali appena divenuti irrevocabili, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali è ammessa la definizione in via amministrativa o l'oblazione ai sensi dell'articolo 162 del codice penale, sempre che per le stesse non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena;


2) i provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali dell'esecuzione non più soggetti a impugnazione che riguardano la pena, le misure di sicurezza, gli effetti penali della condanna, l'applicazione dell'amnistia e la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere [666];


3) i provvedimenti che riguardano l'applicazione di pene accessorie;


4) le sentenze non più soggette a impugnazione che hanno prosciolto l'imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità o disposto una misura di sicurezza o dichiarato estinto il reato per applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato.

Quindi il punto 2 che racchiude nella sua tipologia i provvedimenti come i sequestri di stabilimenti o merce a titolo preventivo nello svolgimento di indagini, fanno parte di quelle vicende che possono essere liberamente oggetto di completa diffusione informativa proprio perché non si applicano i limiti previsti dalle norme appena citate. In sostanza la mancata o incompleta citazione dei fatti nel caso in questione non è giustificabile né da comportamenti esemplari dal punto di vista professionale, né dal timore di violazione di leggi. Appare invece la sua natura di volatile foglia di fico. Ben vengano le prese di posizione del lettore che argutamente ha sollevato la questione.

29.8.13

TARES & Co.



Tra tutte le imposte che oggi gravano sulla testa dei cittadini, forse quella percepita come più iniqua e vessatoria è non tanto la famigerata e sbandierata IMU, ma quella che dovrebbe coprire i costi dello smaltimento dei rifiuti, ex TARSU ora TARES. Tale repellenza si manifesta ancor più nella cittadinanza monopolitana, costretta ormai da anni ad assistere impotente a indecorosi e vergognosi spettacoli d’inaffidabilità, inefficienza, malcostume e incompetenza sia da parte della municipalità affidataria che delle ditte appaltate. La novella TARES, come la ex TARSU, fa parte delle c.d. “imposte di scopo” che si affianca alla ISCOP (destinata alla realizzazione di opere pubbliche), il cui gettito dovrebbe coprire il servizio di raccolta e differenziazione dei rifiuti, nonché la fornitura dei “servizi indivisibili” forniti dall’ente locale, come l’illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade, la polizia locale, le aree verdi. Non è difficile immaginare i pensieri dei nostri concittadini che stanno ricevendo in questi giorni gli avvisi di pagamento relativi all’imposta in questione, per ora allineata alla TARSU, ma con una promessa di un lauto conguaglio a marzo 2014: si va dal sorriso ironico, alla smorfia dolente, passando dall’invito a fare un viaggio in un paese lontano ai responsabili di questo scempio, al desiderio di strappare e gettare tutto….ma dove?? In che giorno? A che ora? E’ un cabaret e ci sarebbe da ridere se le nostre tasche non fossero ormai stremate dalla crisi. Mentre i rifiuti ci salutano allegramente nei nostri puzzolenti itinerari da città turistica, offrendo sollazzo e proliferazione a fauna variegata e persino esotica, altri comuni, anche a noi vicini, senza pavoneggiarsi con Bandiere Blu low cost o effimere vocazioni, si fregiano, a ragione, di essere fra i più virtuosi d’Italia nella raccolta differenziata. Parliamo di Rutigliano, ad esempio. 18.700 abitanti, percentuale della RD 78,72%, 364° nella classifica assoluta nazionale, ma secondo nell’Area Sud Italia per i comuni al di sopra dei 10.000 abitanti. (Fonte Legambiente www.ricicloni.it). Il servizio è affidato alla locale ditta Vito Gassi di Carmine Esposito & C. Sas che è partita da un 56% del novembre 2011. La raccolta è “porta a porta” e, prima di iniziare il servizio, la cittadinanza è stata compiutamente informata da dei “facilitatori ambientali”, giovani a cui è stato affidato il compito di istruire a domicilio le famiglie e gli operatori commerciali. Insomma siamo in presenza di qualcosa che funziona e che qui a Monopoli per ora è solo fantascienza. La funzione e la valenza stessa dell’imposta di scopo sono, di fatto, state disattese. Per questo motivo non sarebbe male che, qualora ciò si verifichi, ai Comuni inadempienti e recidivi venga previsto un sistema sanzionatorio che arrivi anche al commissariamento “ad acta” dell’Ente e che si accertino civilmente le responsabilità manifeste di amministratori e ditte appaltate.

15.7.13

Minime.





Dialoghi immaginari di Diogene di Sinope:

Enrico Bondi: A inquinare l’aria di Taranto, a provocare leucemie infantili, a flagellare di malattie tumorali i quartieri di Taranto non è l’Ilva, ma le sigarette e l’alcol.
Diogene: Se anche tu avessi lavato la verdura non avresti dovuto coltivare l'amicizia con Riva.

Angelino Alfano: Non sapevo nulla dell’espulsione della Shalabayeva.
Diogene: Lèvati dal sole.

Roberto Calderoli: Il ministro Kyenge sembra un gorilla.
Diogene: Ho rinunciato a cercare l’uomo.

5.7.13

L’odonomastica: uno strumento prezioso.







Ripropongo oggi un pezzo di Remigio Ferretti che ci accompagna per le vie della città. Ci sarebbe molto da aggiungere a integrazione e sviluppo delle argomentazioni, comunque molto attuali, riportate; mi limito a evidenziare l’inutilità di avere ancora vie denominate “vecchia” (S.Antonio, S.Francesco da Paola, Ospedale??) e poi desidero condividere un sogno di una notte di mezza estate: quello che possa essere realizzata una “cittadella della cultura” che veda come perno il plesso della Galilei, comprendendo il cinema Vittoria evoluto a contenitore multimediale (domanda: ma il Comune ha mai provato a fare un’offerta ai fratelli Caforio? Non è che forse si spenda di meno che con la - comunque auspicabile - ma finanziariamente impegnativa ristrutturazione del Radar? La butto lì…) e la Casina Del Serpente trasformata in museo. Il tutto  circondato ed abbracciato da un tracciato di vie (tratti di ex Lepanto, Cadorna, Cialdini, Europa Libera, Cappuccini e Vico) intitolate ai personaggi che hanno nobilitato l’istruzione e la cultura della città nel secolo passato: Gregorio Munno, Luigi Reho, Luigi Russo, Giacomo Campanelli, Angelo Menga e Remigio Ferretti, buon ultimo tra cotanto senno.


E LA MONTAGNA PARTORÌ… LA TOPONOMASTICA  ("L'Informatore del 28/6/1986)

Chiediamo venia ai nostri concittadini se, ai pochi di essi che per caso siano sprovveduti o disinformati, osiamo spiegare il significato della parola “toponomastica”: essa non ha nulla a che vedere con i noti animali roditori, i topi, di cui uno, piccolissimo, fu partorito, con sproporzionato fragore, da un'immensa montagna, né il verbo “masticare”, voce nobile se riferita, in senso proprio, al lavorio fisiologico delle mascelle che, triturando il cibo, compiono la prima fase della digestione.
Il significato della parola, di derivazione greca, sta a indicare quel ramo della linguistica che tratta lo studio dei nomi locali (toponimi) di una città, al fine di ricordarne e tramandarne i fatti salienti e i personaggi illustri. Infatti, in greco, “topos” sta per “luogo” e “onoma” per “nome”. In quanto alla desinenza “astica”, essa non è rara in italiano: basti pensare a “scolastica”, a “ginnastica”, ecc.
Si può aggiungere che altrettanto importante sia la “onomastica stradale” di qualsiasi centro urbano, cioè la “nomenclatura” delle sue strade, che serve non soltanto ad ovvi fini pratici, come peraltro prescrivono leggi “ad hoc”, ma anche a rappresentare la “memoria” della comunità civile, piccola o grande che sia, onorando i nomi di uomini o eventi di notevole rilevanza nazionale, ma anche di personaggi e di luoghi strettamente legati alla sua storia locale.
A tal riguardo ci sovviene di una osservazione del grande storico Gregorovius (1), riportata nel suo libro di viaggio “Nelle Puglie”. Egli, percorrendo le strade della nostra Regione e visitandone le città, notò che vie e piazze recavano i soliti nomi dei padri e protagonisti del Risorgimento, mentre quasi assenti erano quelli degli artefici della “storia patria”. Il famoso “promeneur” (2) di Germania riteneva giustamente che la storia di una nazione si edifica dalla periferia (3).
La “onomastica stradale” di Monopoli non offre un quadro molto consolante. Prescindendo dal pessimo stato di manutenzione delle targhe indicatrici, dalla loro scarsezza e difformità, emerge una ben piú importante considerazione: le scelte infelici, le omissioni, i guasti operati dai nostri progenitori tra l'Ottocento e il Novecento, peraltro in un'ottica un pò “oleografica” e non certo critica del processo unitario appena concluso, trovano la loro immagine speculare in quanto è stato fatto di recente per la spinta dell'ampliarsi della città e del moltiplicarsi delle anonime “traverse”. Si è operato all'insegna di un incolore meccanismo, il velleitarismo culturale, di frettolosa superficialità, nell'assenza di una visione organica del rifacimento e completamento della nomenclatura viaria, augurabilmente omogenea per quartieri. Ci si è limitati ad intitolare le nuove arterie, tirando fuori dal cilindro del “prestigiatore”, alla rinfusa, nomi noti o ignoti (una vera…perla è via Ligabue), troppo lunghi o di difficile pronunzia, in buona misura estranei alla realtà coscienziale e storica del nostro popolo. Il caso limite è rappresentato dalle strade dedicate agli architetti Luigi Piccinato (4) e Vera Consoli (5) che, lungi dal costituire riconoscimento per i…meriti acquisiti tra noi, sono piuttosto il frutto abortivo di una visione della vita impastata di servilismo, compromesso e provincialismo.
Tra questa…erbaccia, per dir così, "indigena", si levano le piante antiche e odiose delle carenze dello Stato e dei suoi organi periferici che, nell'occasione, hanno finto di ignorare, forse perché “fascista”, il D.M. 10.5.23, n. 1158, nonché la legge 23.6.27, n. 1188, che, tra l'altro, prescrivono il divieto assoluto di dedicare strade a qualsiasi cittadino, prima che siano passati dieci anni dalla sua scomparsa, a meno che non si tratti di “Caduti per la Causa nazionale”.
Non si è posto mente acché alcuni “antroponimi” (6) di sapore squisitamente locale e certamente cari al cuore dei nostri concittadini, diventassero “toponimi”. Perché, ad esempio, chiamare via Accademia dei Venturieri una strada a ridosso del Calvario e non il tratto di via S. Domenico dove effettivamente sorgeva il Palazzo Petraroli (ex Rossani) sede di quella Accademia? Perché “esiliare” il compianto Preside Gregorio Munno, valoroso umanista, in una traversa del viale della Rimembranza e non dedicargli una strada nei pressi del vecchio o del nuovo Liceo Classico, da lui fondato, o un tratto di via Palestro, ove è sita la casa che egli abitò, e tanto studiò e scrisse? E perchè non dedicare all'eroico carabiniere Farulla proprio la traversa dove egli, nell'adempimento del suo dovere, immolò la sua giovane vita? E perché a Palmiro Togliatti viene intitolata (con pieno merito) una strada ampia e lunga, una delle piú belle della città e a Giovanni XXIII, uno dei piú grandi Pontefici della Cristianità, un budello seminascosto, al di là di via Trieste? Misteri e scompensi di quella piaga che si chiama “lottizzazione”, non estranea neppure al settore della “onomastica stradale”.

(1) Ferdinand Gregorovius (Neidenburg Prussia Orientale (oggi Nidzica Polonia), 19 gennaio 1821 - Monaco, 1 maggio 1891) fu uno scrittore e storico tedesco, specializzato nella storia medievale di Roma. È anche molto noto per i suoi “Wanderjahre in Italien”, (Pellegrinaggi in Italia) i resoconti dei suoi viaggi in Italia tra il 1856 e il 1877, in cinque volumi in cui descrive località, personaggi e curiosità del nostro paese.
(2) Viandante.
(3) Scrive Gregorovius: “Dopo l’ultima rivoluzione è sciaguratamente diventato in Italia una vera mania il barattare ad ogni costo i vecchi nomi delle strade nelle città, con quelli de’ personaggi principali o de’ più notevoli avvenimenti della storia più a noi prossima. Il patriottismo, certo, è una bella e santa cosa; ma Anch’Esso ha i suoi limiti ragionevoli. I nomi antichi delle strade sono come tanti titoli de’ capitoli della storia delle città, e vanno perciò rispettati e mantenuti quali monumenti storici del passato. Ora intanto le città d’Italia dalle Alpi al Lilibeo si sono provviste tutte de’ medesimi nomi moderni di strade, i quali non stanno in alcuna relazione col luogo, non hanno con questo proprio nulla a che vedere. Fossi io il re d’Italia, ovvero Garibaldi o il Principe ereditario, vorrei pregare che si smetta dall’abusare siffattamente del nome mio. Questa uniformità di nomenclatura comincia a diventare ristucchevole e disgustosa. In quale che siasi la città italiana ove si vada, bisogna aspettarsi di trovarvi un Corso Vittorio Emanuele, o Garibaldi, o Umberto, e su’ canti delle strade le leggende eternamente e monotonamente ripetute delle battaglie di Magenta, Solforino, Castelfidardo, Montebello, Marsala, ovvero, ciò che ispira maggior nausea ancora, d’imbattersi in concetti astratti e totalmente vuoti, quali Piazza del Plebiscito, dell’Indipendenza, dell’Unità.”.
(4) Luigi Piccinato (Legnago 1899-Roma 1983) architetto ed urbanista, interprete del cd. “razionalismo architettonico”, corrente di pensiero sviluppatasi in Europa agli inizi del Novecento, sulla scorta dello sviluppo della rivoluzione industriale, propugnò il ritorno a forme e volumi semplici nelle costruzioni, a colori base e a materiali economici. Sulla falsariga delle teorie, molto in voga negli States, dell’architetto Frank Lloyd Wright (urbanistica “organica”) sulla crisi della metropoli, incaricato della realizzazione dell’abitato di Sabaudia, ne tratteggiò il disegno che divenne il manifesto del razionalismo in Italia. Nel 1975 venne incaricato della stesura della “Variante generale al PRG” di Monopoli”. Nel 1984 il Comune di Monopoli retto all’epoca ancora da Walter Laganà, a meno di un anno dalla scomparsa del Piccinato, contravvenendo alla normativa contenuta nella L. 23 giugno 1927, n. 1188, art.2 (limite dei dieci anni dalla morte per la denominazione di strade o piazze pubbliche), gli intitolò una via (divenuta poi simbolo di un quartiere-dormitorio ancora in lenta fase di “civilizzazione”), quasi che svolgere un incarico per il quale si è stati legittimamente e profumatamente retribuiti (25 milioni di vecchie lire dell’epoca), costituisca requisito di benemerenza assoluta al pari delle gesta dei grandi concittadini che hanno fatto la storia della città.
(5) Architetto, collaboratrice di Luigi Piccinato.
(6) Notazione specifica adottata da una comunità o da un organismo amministrativo allo scopo di identificare e distinguere una persona che si distingue dai toponimi che servono per identificare un luogo.

19.6.13

Cala Portavecchia, l'accoglienza della città





Io e Franco Muolo stavamo navigando nello stesso mare a nostra insaputa. Un mare periglioso ed infido, ma proprio per questo intrigante e sensuale, non per la presenza di omeriche sirene tentatrici, ma per il trasporto che nutriamo per questa nostra città e per il desiderio di rivedere la bella Monopoli che fu, rivisitata e agganciata ai tempi. Navigavamo bordeggiando sotto costa, sfiorando con lo sguardo Cala Portavecchia e rimembrando antichi attracchi, stabilimenti e cabine di legno, pini secolari, ponticelli rustici, giochi di bambini scalzi e arrossati, tuffi e immersioni fra le pentime. Lui, Franco, con il piglio del tecnico, già disegnando schizzi di bracci e dighe; io, più modestamente, incapace di disegnare geometrie, ma solo voli della fantasia, immaginando soluzioni più accessibili, considerate sia l'attuale miopia che ci amministra, che non ci ispira fiducia al di là dei facili laterizi, sia l'attuale fase di “spending review” (una frase molto elegante per definire il famoso “piombo a denaro” del mitico tressette). Cala Portavecchia è sempre stato il rifugio naturale per chi, veleggiando o remando contro il Maestro, non riuscendo a superare l’ultimo ostacolo delle mura da circumnavigare, si arrestava sotto di esse, riposando e attendendo la fine della burrasca. Un paesaggio fiabesco circondava l’avventore, con le mura illuminate da cento stoppini e la spiaggia accogliente a poche braccia. La mia idea: pensavo a come è stato protetto il lungomare di Bari. Semplici barriere frangiflutti. Bruttine a vedersi, questo lo ammetto. Ma con il grande pregio, credo, di essere la soluzione più economica per quello che vogliamo ottenere. Una barriera frangiflutti che sbarri il passo ai marosi prodotti dai venti spiranti dal quadrante meridionale e che copra la zona che va dalla punta di Porto Rosso all’ingresso in Portavecchia. Metodiche e posizionamenti saranno di competenza dei tecnici specializzati, il cui abile lavoro consentirebbe:

1) La realizzazione di un vero e proprio stabilimento balneare PUBBLICO, sulla spiaggia di Portavecchia, con spogliatoi e servizi igienici scavati nel cemento sotto il manto stradale, servizi di docce, di sorveglianza e di salvataggio.
2) Un pontile in legno che parta da sotto la muraglia, dietro la barriera frangiflutti, destinato esclusivamente all’ormeggio dei nostri splendidi e unici “gozzi”, che offrirebbero la possibilità di noleggio per visitare le mura e il Porto dal mare.
3) Il ripristino definitivo del ponte sull’isolotto che potrebbe nell’occasione essere dedicato al “Pescatore Monopolitano”, adornandolo con le reti e le attrezzature tanto care alla nostra gente di mare.
4) La rivalutazione delle tre ultime spiagge libere cittadine rimaste, cioè L’Acqua di Cristo, Porto Bianco e Porto Rosso, anch’esse più protette e ricche di arenili più stabili alle correnti.




Non sono in grado di dire se tutto ciò può funzionare solo nella fantasia o se ci siano presupposti tecnico/operativi perché possa dirsi realizzabile, ma mi piace pensare affermativamente. Se poi soluzioni di più alto profilo fossero avvicinabili, magari con fondi europei (qualcosa del genere ha fatto la Regione Toscana per la “riqualificazione del litorale”), ben vengano. Franco ricordava i fasti e gli onori della Monopoli che si riscattava dagli spagnoli. Più sommessamente è da sperare che piccole operazioni “culturali”, come quella fin qui descritta, possa, se non innescare una “età dell’oro”, almeno cambiare un poco le prospettive di sviluppo per questa città che non deve più soffocare nel cemento, ma trovare nella creatività, e nella valorizzazione delle risorse naturali ed artigianali, nuovi stimoli e propulsioni.

12.6.13

Riprendiamoci le spiagge


Amiche ed amici lettori di questo blog: 

La lenta ma inesorabile occupazione delle spiagge libere della nostra città è sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse ed i proclami effettuati da tutte le forze politiche e dalle diverse Amministrazioni che si sono succedute negli ultimi 20 anni, ad ogni stagione estiva ci ritroviamo a fare sempre le medesime considerazioni e a vedere sottratti o limitati al pubblico sempre più accessi al mare. Sotto forme svariate e mascherate, dove la fantasia arriva a livelli smisurati, si elargiscono permessi che nascondono speculazioni a danno della cittadinanza che vuole godere della spiaggia come bene comune, così come accade per l’acqua potabile. Al di là del colpevole ritardo da addebitare alla Regione Puglia che non ha ancora approntato il Piano Regionale delle Coste, esiste comunque una normativa-quadro (cfr. link in calce alla pagina) che disciplina in modo chiaro e inequivocabile le possibilità di richiedere permessi (temporanei) per attrezzare le spiagge con stabilimenti balneari e garantire libero accesso e fruizione del demanio pubblico. Alla luce di queste brevi considerazioni ritengo che sia arrivato il momento di testimoniare in modo significativo l’attenzione e la sensibilità che su questo tema ha tutta la cittadinanza di Monopoli, evidenziando e denunciando le situazioni illegali o di sopruso, ma anche presentando come virtuoso esempio quelle situazioni laddove, imprenditori onesti e scrupolosi hanno realizzato strutture regolari e pacificamente conviventi con aree riservate al libero accesso. Pertanto invito associazioni, organizzazioni, partiti e cittadini a riflettere sulla possibilità di organizzare una Marcia Per Le Spiagge che si svolga su un percorso da definire, visitando il litorale e che veda la partecipazione da richiedere anche a personalità politiche e culturali di rilievo.
Ovviamente per rendere fattibile questa manifestazione occorre l’adesione di organizzazioni che mettano a disposizione la loro fattiva esperienza insieme alla convinta partecipazione di tutti coloro che vorranno. 

Vi prego di postare sul blog stesso le vostre considerazioni e/o proposte. Grazie. Un abbraccio a tutti.



10.6.13

Elettorato colto? No ma consapevole.

La tesi circolata sui social e su alcuni media cittadini, secondo la quale ci sia un elettorato di sinistra prevalentemente “colto”, mentre invece tutti gli altri stanno a destra, a prescindere dalla veridicità o meno della fonte da cui è scaturita ed al di là della pochezza scientifica in sé, pone peraltro qualche riflessione a riguardo. La struttura della società in cui viviamo è da sempre di tipo piramidale. Ciò che è mutata e si è affinata nel tempo è l’organizzazione delle classi dominanti: il metodo del dominio. Con la fine dei totalitarismi e l’avvento e la stabilizzazione delle forme di democrazia istituzionale, le classi dominanti hanno avuto bisogno di organizzarsi prima in modo sfacciatamente oligarchico e poi in forma di elites. Le elites sono associazioni, consapevoli e non, di soggetti legati da interessi economici comuni e da mutue reciprocità. In una struttura di tipo piramidale le elites si addensano ai vertici di essa, con una corsa ad ottenere i posti migliori, ma, una volta individuato il proprio ideale livello di influenza, esse restano come dormienti, incastonate in un sistema protetto e autoreferenziale. Quello che scorgo di diverso e più raffinato rispetto alle già visionarie teorie di Mosca e Pareto, è la rete di complicità e solidità che accomuna e avviluppa le attuali elites, esclusivamente incentrate su interessi di tipo economico/finanziario. In sostanza il dominio è motivato da ragioni esclusivamente di profitto. Basti pensare al plurinominato, in questo periodo, “conflitto di interessi”. Il conflitto di interessi non è altro che un corridoio preferenziale che raccorda due o più elites e che viene percorso nei due sensi di marcia per sovraintendere alle necessità del gruppo. A nulla valgono forme di governo, istituzioni di rappresentanza, leggi elettorali, se non quali semplici strumenti da piegare e mortificare a seconda delle contingenze in atto. Se guardiamo questa situazione da un osservatorio europeo e mondiale ci rendiamo conto del fine ultimo di tutto questo dibattito. Con la crescente domanda di riappropriarsi di una vera democrazia dal basso, come sta accadendo non solo in Italia, ecco spuntare a contrasto le varie proposte di forme di esautorazione, come il semipresidenzialismo. Su questo ragionamento va ad innestarsi la vexata quaestio sull’efficacia della forma partito nella geografia politica. Seguendo il filo del nostro discorso, è da tempo ormai che anche i partiti sono diventati organizzazioni elitarie. Il che non vuol dire necessariamente negative. Essi accumulano negatività quanto più si allontanano dal rapporto con i propri elettori. La comparsa sul palcoscenico mondiale dei movimenti è il solo vero segnale di contrasto all’oligarchia delle elites. E’ necessario che queste due forme principali di partecipazione prendano reciprocamente l’una il meglio delle prerogative dell’altra, perché diventino entrambe efficaci e virtuose nel contrastare l’involuzione in atto. La “liquidità” dei movimenti deve contagiare l’aristocrazia chiusa ed obsoleta dei partiti e la territorialità dei partiti deve supportare la forte tensione morale e rivoluzionaria dei movimenti. Anche a Monopoli esiste una struttura della società organizzata in modo elitario: si pensi ai costruttori, agli avvocati, ai tecnici, ai commercianti. Anche a Monopoli si affacciano i movimenti, affiancando i partiti. In questo senso va letta l’argomentazione di un elettorato che si divide, ma la contrapposizione è tra coloro che proteggono e rafforzano questa vecchia organizzazione elitaria e coloro che vorrebbero compiere un’azione pedagogica, non demolendo le elites, ma proponendo loro un progetto di società aperta, giovane (non in senso anagrafico), basata sulla cultura, sull’ambiente, sulla solidarietà. L’ideale sarebbe gonfiare di democrazia la piramide facendola tendere alla perfezione sferica: un centro di governo dove le elites non abbiano struttura gerarchica, ma ruotino in sincronia, creando quella forza centripeta che permetta di raccogliere e trascinare gli ultimi, i deboli, non permettendo di espellerli dalla circonferenza della vita.

31.5.13

Imbarbarimento sociale




La crisi che stiamo attraversando infierisce con virulenza sulla parte più debole della popolazione. Mentre al centro dell’attenzione rimangono prevalentemente le conseguenze economiche di tale situazione, poco si riflette sull’imbarbarimento sociale dal quale siamo ora pervasi. I colpi di coda di questo capitalismo marcio e tossico, che vuole a tutti i costi sopravvivere a se stesso, schiacciando la base della piramide, stanno spazzando via reticenze ed equilibri, fin qui precariamente rimasti in piedi solo perché sorretti da un’ipocrita aura di gaudente tranquillità economica. In sostanza, il precipitare delle condizioni di vita consone ad una popolazione residente nella 7/8 potenza economica mondiale, ha strappato il velo ad intolleranze, pregiudizi, violenze domestiche che, fino all’altro ieri, erano purgate da quel placebo di benessere che impediva alla rabbia cieca di esplodere senza freni ed inibizioni. 


Razzismo, femminicidio e omofobia sono gli scheletri che stiamo resuscitando dai sepolcri dove erano stati rinchiusi, ma non sconfitti. Stanno venendo a galla con drammatica evidenza le contraddizioni di un'incultura basata sul possesso e sull’accumulo, sull’apparire e sul moltiplicare, sulla disabitudine a condividere e ad accogliere: cullati dalle nostre false sicurezze ci siamo scoperti improvvisamente abbandonati e tristi. Siamo tanto concentrati sulla difficoltà di mantenere un tenore di vita fatto di sprechi e consumi inutili che diventa insopportabile lo sforzo di comprendere chi ha un colore inconsueto, chi prega verso un’altra parte del cielo, chi si sbatte dentro e fuori le mura di casa, chi ama in una direzione che ci sembra assurda, chi ci rimane sempre, maledettamente, indietro. Purtroppo non è casuale che le vittime principali di questa barbarie siano i bambini, gli adolescenti, le donne, gli omosessuali, i disabili; cioè quei complessi, meravigliosi, ingranaggi di DNA geneticamente intrecciati ed allacciati all’amore, alla famiglia, alla curiosità, al gioco, al sogno, all’abbraccio, alla gentilezza, alla vita. Don Andrea Gallo ci spingeva a “viaggiare in direzione contraria col marchio speciale di disperazione e tra il vomito dei respinti” per riconoscere il volto di Gesù tra gli ultimi: quando anche noi non avremo più spiccioli nelle nostre tasche da allungare al mendicante, ma gli carezzeremo la fronte, quando anche noi non avremo più commenti beceri da fare ma solo braccia da stringere e volti da baciare, saremo veramente, profondamente, più ricchi e meno soli.

29.5.13

Romani ha vinto: Que viva Romani!




Nel fine settimana un monopolitano su due, avente diritto al voto, ha dichiarato di essere soddisfatto dell’amministrazione cittadina uscente e di non desiderare alcun cambiamento di rotta. Il risultato è questo, monolitico e indiscutibile. Alla fine di ogni consultazione, da quando mi è spuntata la barba, ricordo sempre il rovello sulla solita domanda: ma perché Monopoli è di destra? Si potrebbe scrivere un trattato, partendo da Veneziani e Bergamaschi sbarcati in città nel XV secolo, che, affacciati sulla strada dei mercanti, instillarono quell’istinto furbesco necessario a rendere redditizio il commercio. Questa componente, importata su un corpo sociale costituito da “gens” ospitali e solidali come i pescatori e i contadini, si è via via sedimentata e raffinata nel tempo, divenendo sempre più spregiudicata e basata su una competizione quasi di tipo tribale, che fa poco comunità e molto ego: una “regressione levantina”. Potremmo parlare degli anni del “boom” economico” che hanno creato una generazione “scafata”, gelosa dei propri privilegi e attenta al risparmio, ma proprio per questo proiettata all’accumulo, in ossequio al valore della “roba”, da inculcare alla generazione che segue, dispensando principi educativi di “sano” opportunismo. Potremmo scomodare il “familismo amorale” di Banfield per tentare di spiegare come questa difesa estremistica degli interessi della propria cerchia, si sia poi avvitata su una politica che spalanca le porte alla rapina dei diritti, in favore di una società fondata sul baratto potere-denaro. Le ultime parole di Beppe Grillo, tanto bistrattate, contengono granuli di verità, quando denunciano la presenza costante nel lessico elettorale della frase “tengo famiglia”. La crisi devastante in corso ha, se vogliamo, acuito e “specializzato” questa filosofia dei “gomiti tesi”. Su questo paesaggio lunare si è mollemente accomodata una classe politica mascherata di novità, ma che utilizza, sempre con successo, schemi e strategie antiche. Romani in particolare ha instaurato un regime di tipo salazariano, dove convivono metodiche da caserma, distribuzione di prebende, patti scellerati e il confino della cultura a fatto episodico, da intraprendere ed organizzare proprio perché non se ne può fare a meno. Tutto ciò viene, di tanto in tanto, spruzzato da ecumeniche finzioni e ordinarie rappresentazioni, fatte passare per straordinarie. Il vero volto del “conducator” lo si è visto nella campagna elettorale, intrisa di insulti e basse (ma proprio basse) insinuazioni, rivolte non solo ad avversari politici, ma anche a giornalisti e gente comune, con l’unica colpa di aver osato obiettare e contraddire. E come S. Agostino, l’Emilio ha “condotto le sue pecore su pascoli ubertosi” (…) e il gregge l’ha docilmente seguito. In questo frangente, il centro-sinistra (per una volta tanto, unito) ha invece docilmente perso: anche questa non è una novità. La gradevolezza e il talento del professor Suma sono stati vanificati da una candidatura pescata all’ultimo momento, che non è riuscita a superare d’un balzo le macerie del PD, più di quello locale, che di quello nazionale. Ancora una volta si continuano a scontare vizi antichi: un lavoro sempre importante e puntuale svolto nei corridoi del Palazzo ed in sala Perricci, rimane lontano dalla comprensione della gente, che va avvicinata a modelli culturali alternativi gradualmente, e non nei pochi mesi della campagna elettorale; una genetica propensione a diffidare di chi offre la sua collaborazione da “esterno” ai partiti, con idee e proposte originali. Non ci rimane che sperare che l’ennesima notte porti consiglio. Fra cinque anni ci piacerebbe vedere quelle bandiere sventolate dai ragazzi con le lacrime agli occhi e il nodo alla gola sotto il palco del professore, salire e garrire in verticale, e quelle braccia divenute adulte, abbracciare ed interpretare da protagoniste quel sogno di una città "tremendamente bella" che Michele ci ha solo fatto intravedere.

14.5.13

Emilio Romani: il profeta dello status quo





Il 27 gennaio del 1995 a Fiuggi si consuma lo scioglimento del MSI-DN. Vengono rinchiusi negli armadi olio di ricino e manganelli (salvo nostalgiche tentazioni, a volte, di rispolverarli) e Fini, Gasparri e La Russa rimpiazzano le icone di Almirante, Romualdi e Rauti. Emilio Romani ha quasi 23 anni ed è segretario locale del Fronte della Gioventù. Aderisce con entusiasmo alla causa di AN, ma i miti degli anni dell’adolescenza non si abbattono mai e, pur mutando le strategie politiche, nel suo DNA il piglio autoritario e decisionista sarà sempre in auge. Mentre i santoni del partito guardano con sospetto l’abbandono della tradizione della destra sociale, le giovani generazioni post-fasciste sposano con fervore le tendenze iperliberiste del berlusconismo e aprono il loro cuore a chi, finalmente, li ha tirati fuori dal ghetto. Dopo una gavetta propedeutica, necessaria per introiettare saldamente i precetti ipermediatici del Capo, la nostra città (dove l’humus del cinquantennio conservatore-democristiano ristagna e fermenta), nel 2008 è pronta ad accogliere il fenomeno Romani. La catarsi dell’uomo forte, il simbolo giovanile del rinnovamento della politica, la necessità imprescindibile di essere alleati delle “lobbies” degli affari e del cemento, sono il fondamento del suo successo. Emilio è lucido, furbo, gran comunicatore. Empatico e belloccio, intriga, trascina, seduce. Scompagina il fronte degli avversari, un pò cupi ed ingessati, come sempre divisi. Mi azzardo qui a immaginarlo politicamente epigono di padri putativi diversi: il Machiavelli che raccomanda al Principe di essere contemporaneamente ”leone, volpe e centauro”; il cardinale Richelieu del “saper ingannare come prerogativa dei re” e il suo successore Mazarino che indica come prerogativa necessaria del governante dover essere insieme “simulatore e gran dissimulatore”. Il sindaco per lui è rimasto il podestà: coniuga volontà di potenza e mistiche visioni di sapore nietzschiano. Come Zarathustra, il profeta narrato dal filosofo tedesco, ottiene la rivelazione dell’Avesta, così Romani scopre la formula vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Legge Carlyle nel passo in cui descrive la storia come terreno riservato agli eroi, per poi approdare, un pò alla maniera di D’Annunzio, all’interpretazione dell’uomo politico come “vate”. E, come vate, utilizzando effetti speciali da fare invidia a Carlo Rambaldi, ha saputo trasformare un quinquennio amministrativo di calma piatta, nel fantasmagorico ribaltamento dell’ovvio, dello scontato, del già visto, appropriandosi e stravolgendo, come nel caso del PUG, anche progetti faticosamente realizzati da altri. Dietro questa cortina fumogena ha occultato abilmente le condotte scriteriate sulla gestione dei rifiuti, che espone il comune e le nostre tasche a rischi non quantificabili e le speculazioni sulle svendite assurde di beni comunali (aree ex Cementeria, Casina del Serpente, ex carcere, Pagano), i cui ricavi sono finiti in mille rivoli, ma non certo a beneficio della città. Di contro, le vessazioni impositive alla cittadinanza non hanno avuto riflessi sui servizi e l’obbedienza istituzionale ai potentati economico-finanziari (i quali non votano, danno solo incarichi, non hanno idee politiche, ma solo tornaconti) è stata il “leitmotiv” di questi cinque anni. Non è riuscito però nel gran vezzo democristiano di accontentare tutti, e per questo, ha registrato defezioni e diserzioni e, come Richelieu, sta fronteggiando i tre moschettieri Alba, Marasciulo e Zaccaria. La realtà dovrebbe essere tangibile: il progressivo impoverimento della “middle class”, spina dorsale di questa città; la crisi delle grandi aziende con tante famiglie scagliate nella disperazione; la strage delle partite IVA di commercianti e artigiani; la vergognosa condizione dei nostri ragazzi privati del futuro e costretti ad elemosinare scampoli di precarietà; le giovani coppie impossibilitate a pagare affitti salati e ad acquistare casa; l’edilizia scolastica fatiscente che costringe a bibliche transumanze (non dimentichiamo il doppio incarico alla Provincia); l’agricoltura e la pesca trattate sempre e solo a colpi di clientela; una gestione del turismo dissennata con spiagge pubbliche fatte occupare militarmente; l’assenza di una politica organica della cultura e la penuria dei relativi necessari contenitori (l’altro giorno riferendosi al Radar dal palco affermava come il Re Sole: “Il teatro sono io!”, - ma dov’è? - si parla dell’Araba Fenice) con la Biblioteca Comunale in perenne ristrutturazione, che grida vendetta. E la colpa della lentezza nella concessione di nuove licenze commerciali viene attribuita ai funzionari comunali, eccessivamente “burocratici”. Non è un bel sentire: un sindaco che attacca e scarica i suoi principali collaboratori, le sue braccia tese verso la città. Probabilmente troppi controlli danno fastidio. Tutto viene abilmente dissimulato, come predicava Mazarino. Il fuoco pirotecnico ha avuto una prevedibile impennata negli ultimi mesi del suo mandato, dando ragione a chi, come Guy Debord, scriveva che “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Ora, come D’Annunzio a Fiume, esclama: “Hic manebimus optime!”- Vogliamo fare il bis!, sicuro che i suoi giochi di prestigio abbiano colto nel segno. L’ultima rotonda, Romani stava per regalarcela sul mare, su spartito e testo non di Fred Bongusto, ma del gruppo Marseglia, che ha progettato un oleodotto con terminale marittimo su di un pontile lungo 700 metri ed un sistema di condotte che, da cala Pantano, dovrebbe raggiungere gli stabilimenti del gruppo ubicati nella zona industriale. Riflettevo sulla rotonda come metafora del suo operato. La rotonda è un percorso obbligato che non conduce a nessun traguardo. La rotonda vieta di fermarsi, condanna a girare senza méta, smorzando così la capacità di riflettere. Confido che i miei concittadini sappiano, al contrario, riapprezzare i semafori che, scandendo le pause, spingono a riconsiderare il percorso, a fissare il punto d’arrivo, a chiedersi, in coscienza, se, dopo cinque anni, stanno meglio o stanno peggio.

4.5.13

Le inedite avventure del Barone di Munchausen



Karl Friederich Hieronimus von Munchausen (1720-1797) lavorava come servitore di Antonio Ulrico II duca di Brunswick-Luneburg. Con questi si trasferì in Russia dove fece carriera nella cavalleria divenendo prima Luogotenente e poi Capitano nel 1750. Partecipò a due guerre contro i Turchi e acquisì il titolo nobiliare di Barone in seguito al suo matrimonio con Jacobine Von Dunten, proprietaria di feudi a Bodenwerder. Al suo ritiro narrò le sue avventure allo scrittore Rudolf Erich Raspe che le pubblicò nel 1785 in inglese. Seguirono poi numerose traduzioni e rielaborazioni in varie lingue e trasposizioni cinematografiche. 
Recentemente sono stati ritrovati frammenti di manoscritto anonimi in una masseria delle nostre campagne che farebbero pensare che nel suo vasto peregrinare, il Barone abbia anche brevemente soggiornato sul territorio monopolitano. L’eccezionalità del ritrovamento ha suscitato l’interesse di storici e filologi che si stanno cimentando nell’impresa di stabilire l’autenticità o meno dei reperti rinvenuti onde attribuirne la paternità con assoluta precisione. Ho avuto occasione, grazie alla conoscenza dei proprietari della dimora sede del ritrovamento, di prendere visione di queste poche frasi vergate a mano su brandelli di carta e ho deciso di riproporle pubblicamente, perché ci si possa formare un giudizio se possano o meno essere ricondotti alle avventure del famoso Barone. Alternerò degli stralci del volume di Raspe alle frasi ritrovate a Monopoli. 

“Eravamo impegnati nell’assedio di una città….ma non conoscevamo l’entità delle forze nemiche….Mi posi davanti ad un grosso cannone…quando la palla uscì ci saltai sopra a cavalcioni….Ma come avrei fatto a tornare?...Una palla nemica mi incrociò, ci saltai sopra e tornai indietro.” 
“Lo dicevo che bisognava abbassare le tasse! Il Governo mi ha sentito e ha tolto l’IMU” 
“Mi trovai sprofondato nel fango. Sarei affogato se l’enorme forza delle mie braccia non mi avesse consentito di afferrarmi per il codino e di tirarmi su insieme al mio cavallo” 
“Mi hanno telefonato dal Governo per assicurarmi il loro massimo impegno per risollevare l’economia” 
“Ero affrontato da due orsi inferociti. Avevo solo un’accetta per difendermi e la lanciai così forte contro di essi che andò a finire sulla Luna” 
“Per risolvere il problema della disoccupazione giovanile occorre lavorare molto” 

Credo che quest’ultima frase possa essere considerata l’indizio più pregnante che ci troviamo veramente di fronte a Munchausen!

27.4.13

25 aprile: la storia non si cambia




Il tentativo di trascinare la giornata del 25 aprile nel novero delle commemorazioni di una non precisata “pacificazione” nazionale è impresa sia improponibile da un punto di vista storico, sia impresentabile da un punto di vista etico-politico. Chi è schierato in questo filone nostalgico-revisionista vuole semplicemente sfruttare il trascorrere inesorabile del tempo come paravento per coprire colpe e vergogne che sono e rimarranno, purtroppo per loro, indelebili. Il 25 aprile del 1945 i partigiani non sono scesi dalle montagne per stringersi la mano con gli ex gerarchi o per dar loro una pacca sulle spalle incoraggiandoli: “Coraggio la prossima volta vi andrà meglio!”. Il 25 aprile del 1945 si è posta la parola fine ad una guerra di popolo in cui erano ben individuate le figure dei liberatori e degli oppressori, in cui erano ben chiare finalità e intenti di entrambe le parti, in cui se fosse prevalsa la difesa della dittatura, nessuno dell’altro schieramento avrebbe avuto scampo. Il 25 aprile del 1945 ha segnato il tracollo di un regime becero, violento, subdolo ed infame. E di quel regime facevano parte personalità variegate, intellettuali e analfabeti, codardi e violenti, razzisti e trasformisti. Di quel regime faceva parte Araldo di Crollalanza. La nostra neo presidente della Camera Laura Boldrini ci ha ricordato che non esiste un fascismo “buono” ed uno “cattivo”. Esiste solo l’espressione più volgare e ignobile di occupazione del potere che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia. E Araldo di Crollalanza ne era protagonista autorevole e quindi ancora più colpevole di altri. A Tonio Rossani ed a quanti come lui sono alla spasmodica ricerca di una giornata dedicata alla pacificazione, ricordo che il 2 giugno è la festa della Repubblica, nata dalla Resistenza, dopo che venne fatta chiarezza in modo inequivocabile sui ruoli ricoperti tra coloro che avevano scelto le armi della dittatura o la forza della democrazia.

23.4.13

1414: Monopoli si ribella

In Italia quando si parla di volani per la crescita, il pensiero vola immancabilmente al cemento. Sembra l’unico moltiplicatore che dia garanzie e che abbia due grossi vantaggi per la classe politica: mantenere quote di potere autoreferenziale, e non impegnare molto i neuroni in faticose elucubrazioni, giacché, organizzare e gestire appalti è semplice. Altro è pianificare controlli e verifiche. I dati dell'Autorità della vigilanza sui contratti pubblici relativi al 2011 ci dicono che gli appalti in Italia valgono l’8,1% del PIL. Di questi quelli che superano i 150.000 euro sono l’86%. Le cosiddette “grandi opere”. A fronte di ciò Eurostat ci dice che l'Italia è all'ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell'Ue a 27) e al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione: l'8,5% a fronte del 10,9%. Leggevo questi dati “in nuce” a delle riflessioni sulla scoperta del torrione cinquecentesco, avvenuta nei giorni scorsi in seguito ai lavori di rifacimento della piazza XX Settembre. Mi chiedevo, ingenuamente forse, come mai non si possa capovolgere il corso degli eventi. La rilevante scoperta archeologica è avvenuta “per caso” in seguito ad un progetto di sistemazione di un sito pubblico. Ma non si potrebbe partire dall’assunto che cercare di riportare alla luce preziosi reperti del nostro passato possa essere una priorità? E indirizzare conseguentemente risorse che vadano ad investire in quella “posta” di PIL tanto trascurata? L’effetto economico moltiplicativo derivante da un’azione del genere sulla nostra città, dalla vocazione turistica (come amiamo definirla) sarebbe rilevante e non confinerebbe il risultato nei ristretti ambiti estivi, come finora ciecamente si è operato. La moderna archeologia utilizza sistemi di sondaggio preventivo (“carotaggio”) che permette di stratigrafare il terreno consigliandone o meno lo scavo. Immaginiamo come sarebbe suggestivo riportare alla luce i resti della principale Porta Nuova della città, probabilmente giacenti sotto largo Plebiscito. Oppure ritrovare nei pressi di Largo Fontanelle segni della presenza dell’antico monastero domenicano. O rivivere le epiche vicende svoltesi al cospetto delle guglie dell’antico Castello/Acropoli, dove qualche rudere certamente riposa sotto largo Vescovado.




La storia dell’antico castello della città affonda le sue radici nella notte dei tempi. Le vicende che ne hanno caratterizzato l’esistenza hanno un sapore vagamente leggendario. A quel tempo due giganti si fronteggiavano e si alternavano al potere nel teatro tattico-strategico del Mediterraneo: Bisanzio e il Normanno. Per tutti gli storici la matrice normanna di questo fortilizio è fuori discussione. Esattamente si trovava “all’incontro del giardino del palazzo vescovile e le case del Monte Splues, e girava per la strada, per cui si va a S.Domenico” (Cronaca Indelliana). Tuttavia, se indubbiamente, la dominazione normanna iniziata nel 1043, costrinse a trasformare l’architettura difensiva della città, insabbiando l’antico porto-golfo, e rinforzando gli avamposti rivolti verso l’interno, la presenza di un sito “attrezzato” nella zona è già segnalata dall’Indelli, nella sua cronaca, nel 968, quando, descrivendo brevemente le fortificazioni della città (le antiche mura terminavano prima dell’antica chiesetta di S. Caterina “extra moenia”) elenca, tra le altre, “un’Acropoli ove adesso è l’Episcopio”. Qualche indizio dell’esistenza di una qualche opera difensiva pre-normanna si riscontrerebbe anche nel contesto delle vicende che portarono Costante II a scacciare i Longobardi nel 663, dove alcune cronache riferiscono che “...prese i castelli e di paesi della marina Oria, Celia, Conversano, Monopoli, Bari”. Nel campo solo delle ipotesi sconfina quindi un’origine addirittura Longobarda del “castrum”, dato che nel 659 il re Grimoaldo, dovendo effettuare un breve soggiorno a Monopoli, “vi fece costruire varie chiese” (Indelli). Domenico Capitanio (“Il sistema difensivo e la città”, Monopoli nel suo passato, V) riportando le parole dell’Abate Corona lo descrive come “di dimensioni spropositate rispetto alla città, come un capo in un corpo nano, fatto di grossissime pietre, sorgeva su una bella piazza…nel luogo più alto…pareva fusse posto sulle spalle della città…da sopra poi si scopriva tutta la campagna, in modo che la si poteva tenere sempre netta”). Solo queste “grossissime pietre”, non supportate però da alcun ritrovamento, potrebbero far supporre la sovrapposizione di strutture medievali ad un origine primieramente classica. 




L’antico castello fu distrutto nel 1414 (a colpi di artiglieria, ci informa ancora Capitanio). Il Saponaro (V. Saponaro, “Monopoli tra storia e immagini, dalle origini ai giorni nostri”, Fasano 1993) scrive: “I cittadini di Monopoli si ribellarono al castellano, per soprusi e angherie sofferte e assaltarono il castello, radendolo quasi al suolo e uccidendo il castellano”. Più specificamente, le “angherie” a cui si allude erano favoritismi sulle gabelle e concussioni praticate dagli Ufficiali Regi verso coloro che potevano “ungerli” (Nihil sub sole novi…). Il Nardelli invece attribuisce le cause alla prepotenza del Castellano quale custode delle chiavi delle Porte, nell’aprirle molto tardi, anche nella stagione invernale. Fu poi inviata una delegazione alla sovrana Giovanna II per spiegare i motivi del gesto, che non erano attribuibili a ribellione, ma a resistenza contro i soprusi, e la regina perdonò e confermò i privilegi già concessi dal predecessore Ladislao. Insomma, i cittadini di Monopoli sacrificarono la loro “perla” difensiva pur di sottrarsi con orgoglio alle prevaricazioni del “potente” dominatore di turno. Altri tempi, altre coscienze.

20.4.13

Monopoli: storia di un autentico Barone

Scrutando nel passato della nostra città scoviamo figure emerite che si sono distinte per dirittura morale e coscienza civile. Nel Risorgimento queste qualità spesso avevano modo di coniugarsi con il patriottismo, che, in quel tempo, era forza propulsiva della tensione verso la libertà e la giustizia sociale. In questo post propongo la storia del Barone Tommaso Ghezzi Petraroli, rivisitata da Remigio Ferretti in un articolo pubblicato su "Puglia" del marzo 1984, corredato da mie note.


Il barone patriota monopolitano

Il Barone[1] Tommaso Ghezzi-Petraroli è certo una delle figure più fulgide del Risorgimento meridionale. Nato a Monopoli il 21/1/1803 da antica e nobile famiglia di origine spagnola, si mise subito in luce per le sue doti di ricca umanità e viva intelligenza, diventando, appena ventitreenne, Sindaco[2] della città natia, poi, Consigliere provinciale e Deputato provinciale alle Opere Pubbliche. Affascinato dagli alti ideali di libertà, di indipendenza, di Patria[3], congiurò, con altri generosi spiriti di Puglia e Basilicata contro il regime borbonico e fu tra i capi dei moti del 1848. Ma quando trionfò la reazione, egli pagò duramente lo scotto dei suoi trascorsi patriottici[4], specie in relazione agli storici eventi della Dieta di Monopoli[5] e del Memorandum di Potenza[6]. Processato e condannato a 19 anni di carcere, ne scontò cinque, terribili, nei bagni penali di Procida e di Nisida. Durante la spietata prigionia rifulse il mirabile comportamento della sua consorte, donna Maria Concetta Manfredi[7], che per poter visitare frequentemente l'adorato marito, si privò di oro, gioielli e denari, che elargiva agli esosi suoi carcerieri. Graziato nel settembre del 1855, tornò a casa, distrutto da un male inesorabile. Vi morì solo tre anni dopo il 24 maggio 1858. 
Mentre le gesta e le sventure del patriota monopolitano sono note ai più, per merito di quanti si dedicarono allo studio del Risorgimento meridionale, primo fra tutti il Lucarelli[8], meno note sono le circostanze della sua formazione, della sua attività amministrativa, della sua cultura.
Non sappiamo, ad esempio, dove avesse studiato. Certamente dapprima a Monopoli, poi forse a Napoli; sappiamo però che era fecondo e focoso oratore e, per quanto ci è dato di leggere, scritto di suo pugno, penna erudita e brillante. Ne fanno fede le pagine del diario relativo agli anni di carcere, ed alcune lettere destinate ad amici da Panfilo Indelli nel prezioso libro: “Pagine dimenticate” e la commovente iscrizione, da lui dettata nel 1841 che campeggia sul portale del Cimitero di Monopoli.[9]
Ma la misura della sua vasta e profonda cultura umanistica è offerta da una sua epistola, dal Ghezzi scritta nel 1843[10] e dedicata ad un suo giovane concittadino e parente, Sante Martinelli, ma pubblicata solo nel 1966 su “La Stella di Monopoli” dal rev. Don Cosimo Tartarelli[11], benemerito cultore di storia patria.
Lo scritto prende lo spunto dalla scoperta di alcuni mosaici in una villa a circa un miglio di distanza dal centro cittadino, verso ponente, di proprietà di tal Matteo Siena[12]; ma, in realtà, anche al di là del fine didattico a pro del Martinelli, allora poco più che ventenne, è un piccolo e prezioso saggio sulle origini di Monopoli e gli avvenimenti più importanti della sua storia.
Lo stile, di evidente sapore ottocentesco, anzi con cadenze e costrutti addirittura tardo-settecenteschi, è parecchio decoroso, anche in virtù di ampie volute di gusto classico, raramente vivacizzato da qualche “fiorentinismo” e solecismo[13].
Ma quel che più induce a sorpresa e ammirazione è la sicura padronanza che il Ghezzi mostra in genere, del mondo antico e in particolare della latinità. Il Barone, infatti, rivela una cultura vasta e ricca, certo “umanistica” non però in senso stretto, ché essa spazia dalla archeologia al diritto, dalla filosofia alla storia, dalla Bibbia a Dante. Gli è familiare Cicerone (in particolare quello del “De legibus”) come attestano lo stesso “cursus” della sua prosa, ma anche testuali citazioni di passi del grande Arpinate. Egli non solo conosce i maggiori poeti latini, quali Orazio e Ovidio (quello delle Metamorfosi), ma anche i minori, quali Valerio Massimo[14] e persino l'oscuro Flegonte di Tralles[15], autore di una Storia delle Olimpiadi.
A parte qualche svista e qualche idiotismo, l'epistola del Ghezzi è una interessante spia per chi voglia meglio approfondire la sua inquieta e forte personalità[16].

Remigio Ferretti.

[1] Il titolo nobiliare gli pervenne dal padre Gaspare che lo aveva ricevuto dal fratello Pietro. Il nonno Tommaso Nicola (1703-1751) era erede diretto di Pietro Francesco Ghezzi (o La Ghezza), capitano d’artiglieria, che, contraendo matrimonio con Laura Petrarolo (o Petraroli) di Ostuni, ultima del ramo baronale della casata, trasmise ai suoi discendenti il titolo e il feudo. (Notizie da “Monopoli Illustre” di Michele Pirrelli).
[2] Dal 1826 al 1831.
[3] Tommaso Ghezzi assistè da bambino alla visita che Gioacchino Murat compì a Monopoli il 24 aprile del 1813 e ne fu sicuramente affascinato. Nel 1822 fece parte della delegazione che incontrò i patrioti greci venuti a chiedere aiuti ai liberali in Terra d’Otranto. Fece parte della Giovane Italia, viaggiando spesso nella provincia per tenere i contatti con gli altri patrioti ed “attrezzò” il suo villino sito vicino al Convento dei Frati Minori per le riunioni “politiche”.
[4] Egli disperse per la sua attività molta della sua fortuna; dopo la condanna subì poi l’espropriazione di tutti i suoi beni.
[5] Non appena giunta la notizia certa dei tumulti e delle stragi del 14 e 15 a Napoli, inizia a Monopoli la giornata memorabile del 22 maggio 1848 con lo sferragliare di carrozze che portano forestieri al Borgo dove si sono formati crocicchi di curiosi: qualcuno improvvisa brevi comizi (Tommaso Ghezzi parlò sotto lo sventolante vessillo tricolore), alcuni si scambiano cenni d’intesa, i più sono indifferenti, qualcuno disapprova apertamente. Il gruppo dei forestieri e dei cittadini con alla testa il Barone e Don Giuseppe Del Drago si reca al Comune dove il Sindaco Francesco Paolo Martinelli assume un atteggiamento “pilatesco” e la voce grossa la fa il Capitano Don Angelo D’Erchia dall’alto della sua autorità militare, affatto intimorito da alcuni atteggiamenti “spavaldi” nei suoi confronti, soprattutto da parte di “personaggi” ambigui di Ceglie. I patrioti, meravigliati e seccati dalla indifferenza, se non dalla ostilità, manifestata dai rappresentanti delle Istituzioni e che pare contagiare il popolo tutto che li circonda, decidono di ritirarsi a discutere nella locanda dell’Albergo Mylord all’angolo tra Via Polignani e Piazza V.Emanuele, gestito dal Sig. Salvatore Alba. La funzione “strategica” di Monopoli, posta a metà strada tra Lecce e Bari, nonché la “vitalità” patriottica dimostrata negli anni precedenti dai nostri concittadini a partire da Rocco Lentini, aveva ispirato la proposta dell’istituzione nella nostra città di un “governo provvisorio”. Tra i molti partecipanti (“La porta della locanda pareva un formicaio”) alcune “spie” che poi tradirono i patrioti davanti ai giudici borbonici. (Notizie tratte dalla tesi di laurea “La cospirazione monopolitana del ‘48” di Maria Mastronardi).
[6] Il 25 giugno, in Potenza convennero i cospiratori dalla provincia di Bari (monopolitani, il Barone e il sac. Don Carlo De Donato), dal Salento, dalla Capitanata, dal Molise e dalla Basilicata e formularono il solenne “Memorandum delle provincie confederate di Basilicata, Terra d’Otranto, Capitanata e Molise”, nel quale si pronunziarono contro la repressione borbonica e a favore dello Statuto con “facoltà di modificarlo, correggerlo in ciò che vi ha d’imperfetto, e meglio adattarlo al progresso reclamato dall’andamento della Civiltà dei tempi”.
[7] Sposata il 19 dicembre 1821.
[8] Antonio Lucarelli (1874-1952) studioso di Acquaviva delle Fonti, allievo di A. Labriola, uno dei massimi esperti di brigantaggio.
[9] “Tu che questi avelli pietosi a meditare ti conduci, vedi delle umane sollecitudini come poca polvere rimane!”
[10] Venne scritta a metà agosto del 1838 e data alle stampe il 10 luglio del 1843 dopo un “visto” di censura.
[11] Don Cosimo Tartarelli (1906-1987) fu un sacerdote estremamente colto (conosceva diverse lingue classiche, moderne e due lingue orientali), custodiva una ricchissima biblioteca ed era un accanito cultore di storia patria. Uomo tenace e schivo verso qualsiasi tipo di onorificenza, costruì dal nulla, viaggiando spesso all’estero per raccogliere fondi tra gli emigrati, le chiese di Cristo Re, Antonelli e Madonna del Rosario, per anni Arcidiacono della Cattedrale, terminò la sua esistenza come “parroco di campagna”. (Nicola Giordano). 
[12] Furono scoperte, anche monete greche, etrusche e romane. (D. Capitanio, “Monopoli nel suo passato”, vol.5.
[13] Dal lat. Solcecismus, dal gr. Soloikismòs e questo da Sòlojkos, che parla scorrettamente come un abitante di Soloi\lat. Soli, città di Cilicia. Errore contro la purità della lingua o contro la buona sintassi, cosi detto perché gli abitanti di Soli, colonia di Rodi la patria della greca favella, mescolandola in Cilicia, l’avevano corrotta.
[14] Valerio Massimo è uno storico Romano del I secolo. Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia il suo protettore Sesto Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali “Factorum et dictorum memorabilium libri IX”. Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti ripresi da fonti diverse (tra le quali Marco Tullio Cicerone, Tito Livio, Varrone ed altri), suddivisi in 95 categorie.
[15] Paradossografo, vissuto nel I secolo d.c., a Tralles (odierna Aydin in Turchia), “liberto di Adriano Imperatore”, di lui ci è giunta una raccolta di prodigi ed eventi soprannaturali (ha descritto l’eclissi di sole del 24 novembre 29 d.C. a mezzogiorno, accompagnata da un terremoto, particolarmente forte, nella regione contigua della Bitinia) tramandata in un solo codice Palatino. La storia delle Olimpiadi è narrata fino al 140 d.c. Della sua opera si interessò per motivi filologici anche Giacomo Leopardi.
[16] Per tutti si cita il giudizio dato dal can. Manfredi (uno dei “delatori” al processo), alla notizia del suo arresto: “E’ già in gabbia, il leone!”.