23 gennaio 2018

Alberto e Marco



Per Alberto e Marco
2 e 4 anni uccisi a Trento
marzo 2017


Marco voleva fare il pittore
aveva una penna rossa
aveva uno sguardo altrove
una penna rossa
voleva disegnare il sole
quella palla che lo scaldava
quella penna che lo tentava

Alberto era un piccolo vigile
fischiava tutto il tempo
correva e fischiava
col suo caschetto bianco
col suo caschetto largo
inseguiva auto invisibili
rincorreva sogni percorribili.

Marco disegnava Alberto
Alberto fischiava Marco
insieme correvano la vita
insieme corrono il cielo.

Tenetevi per mano
tenetevi abbracciati
qualcuno spiegherà il perché
tenetevi stretti tenetevi saldi
qualcuno ci dirà perché.

Vi pensiamo sempre così
Marco che disegna nuvole
Alberto che fischia agli angeli
Qualcuno ci mostrerà il perché.

19 gennaio 2018

Passeggiando per il paese che non c'è più (4)

Quanti posti strani ed assurdi avevamo noi ragazzini per giocare a pallone. Dopo il borgo c’erano le Fontanelle, prima che ci piantassero il monumento. Il famoso Triangolo. Dove una squadra aveva gli esterni con 30 metri a disposizione per crossare e l’altra un imbuto di un paio di metri. Dove i pali erano i libri di scuola con la cinta a molla o i giubbotti sui “chianconi”. Dove le traverse erano “a occhio”. Dove le “scarpe nere e lucide di vernice per uscire” si aprivano a bocca di coccodrillo. Dove i palloni finivano: a) Sotto i cantieri delle barche; b) Nella Villa Comunale; c) Dietro il filo spinato che delimitava la banchina che allora non avevano ancora sistemato. Altro luogo deputato era lo spazio in fondo a Via Europa Libera prima che ci costruissero la scuola e dove venivano anche posizionate le giostre. Grande vantaggio per la squadra che aveva il vento a favore e palloni in mare a sazietà. C’erano dei campi con delle porte alla Cava Medico, liberi solo all’alba, e, in quel frangente, si poteva scegliere se tornare a casa e sporcare il pavimento di bianco (cava di pietra) o di rosso (cava d’argilla terrosa): comunque le mamme non scoppiavano certo di felicità. Lasciando il Municipio si entrava in un Paese Vecchio allora terra di nessuno. In Piazza Garibaldi la Biblioteca governata dal sig. Sante Moretti ci ospitava per le ricerche, ed era l’unico luogo dove (forse) riuscivamo a far silenzio. In Piazza Palmieri ebbe sede il CTG altro luogo di eccezionale condivisione. Scuola e associazionismo si fondevano a volte e diventavano una cosa sola. Nel senso che gli amici del CTG, pur frequentando scuole diverse, spesso erano, tutti nella stessa classe del Liceo avendo scavalcato la finestra a piano terra della Galilei. UNO valeva UNO, già allora. La condivisione valeva anche per le auto: ognuno di noi non appena conquistato un foglio rosa, rubava sistematicamente la macchina dei genitori mettendola a disposizione della Comunità: i genitori nutrivano qualche perplessità sul fatto che la macchina potesse consumare benzina da ferma e saltasse da sola da un parcheggio all’altro, durante il giorno. Riemergendo dal paese vecchio dalla strada della Cattedrale c’era la gioielleria Todaro, in largo Vescovado. Nell’ex convento di S.Martino avevano sede diverse associazioni tra cui il Movimento Studentesco e l’Arci. L’attuale parroco della Cattedrale don Peppino Cito era uno dei méntori. Su piazza Monsignore il famoso Lampo che aveva il doppio significato di velocità e di sistemazione di cerniere e affini e che dava i “pesciolini” di liquirizia come resto.





Su Via Milazzo un altro punto sensibile: il meccanico delle moto Tonino Amodio (grasso, olio motore). Per un quattordicenne conquistare il motorino dai genitori a quei tempi era molto complicato. Infatti io ci riuscii a 16 anni quando spezzai il cuore di zio Peppino con lamenti e lacrime da perseguitato politico. Allora c’erano due scuole di pensiero contrapposte: i 2 tempi contro i 4 tempi. Da intendersi come oscillazioni del cilindro. Nella fattispecie i Fantic Motor Caballero contro tutti gli altri, anche il Corsarino Zeta Zeta della Moto Morini che fu la mia scelta. Ok non c’era storia. I Caballero erano delle schegge, Ma c’era un difetto: ti bruciavi facilmente alla marmitta, specie come passeggero. E se dovevi portare la ragazza….era più comodo lo Zeta Zeta, capisci a me…Quante ne ha vissute quel primo motore! Volevo imitare le moto da cross e facevo lo sterrato: incredibile. Avrò rifatto le valvole una ventina di volte. La forcella voleva staccarsi da sola e andare allo scasso per disperazione. Una volta siamo andati in 4 ed io ero seduto sul tachimetro, come da Codice della Strada. L’Istituto delle suore di San Giuseppe non fu solo la mia scuola elementare, ma era anche la sede dell’Istituto Magistrale parificato. Non so se Battiato passasse di qua, ma le “serenate nell’ora di ginnastica o di religione” si svolgevano regolarmente, nonostante le suore vestite da cerberi, vigilassero sulle virtù insidiate delle studentesse. Ho già detto che la scuola media che ho frequentato fu la G.Galilei. Una menzione particolare per l’insegnante che molto più di tanti altri ha destato in me l’interesse per la scrittura e la composizione creativa: il prof. Rosario Biscardi. Ricordo quella sua voce che partiva da un sussurro e raggiungeva picchi baritonali quando si infervorava. L’originalità del suo metodo ne fecero un pioniere per quei tempi in cui la scuola ancora si stiracchiava dalle pieghe di un immobilismo post bellico. Il mio cammino si ferma a Lido Bianco (trionfo degli aromi dei frutti del nostro mare) dove per tanti anni hanno insegnato arte culinaria prima Gino e poi Nardino.
Ecco, riprendendo fiato, mi fermo con la mente appagata per aver rivissuto emozioni che hanno un volto, cavalcano un sorriso, stringono la gola col rimpianto. I luoghi, le persone e le vicende che ho ricordato non sono che una piccola parte di una memoria che dovrebbe divenire condivisa e arricchita da tutte quelle esperienze individuali che, sommate, fanno la piccola e la grande Storia di una città. Una città senza questo patrimonio rimane una città, ma non può aspirare a divenire civiltà

Passeggiando per il paese che non c'è più (3)

Ritorniamo in Piazza Plebiscito passando davanti a Filemo il tabaccaio. Di fronte c’era la Olivetti di Italo Genchi, dove lavorava mamma e la sede del PCI, mentre l’MSI era in via Barnaba e la DC in via Polignani. Quanti cortei avremmo fatto passando e cantando slogan davanti alle sedi dei partiti dove dentro giocavano tranquillamente a carte, mentre noi facevamo i rivoluzionari. Ma ci piaceva esserci, bei tempi. Su via Vasco un altro storico ritrovo: il Bar Di Bello di Peppino, ex Marina Militare, e altro amicone di babbo. Più in fondo la sede del circolo dell’AC Monopoli, dove ho trascorso centinaia di serate giocando a ping pong e a flipper, facendo incavolare il Sergente (il custode, sig. Dino Maccuro graduato dell’Areonautica). Sotto la Villa Comunale c’era il rimpiantissimo cinema Arena (patatine Pai, stecche di liquirizia e Coca Cola nelle bottiglie di vetro). La caratteristica principale di questo ritrovo era la quantità di posti riservati ai portoghesi che si assiepavano sulla muraglia, specie quando venivano proiettati i film vietati. La direzione del locale aveva predisposto dei lenzuoli che nascondevano parte dello schermo (e delle intimità delle attrici), ma con scarsi risultati: l’immaginazione, in quell’epoca, era al potere. Sotto quella muraglia il Bar Piccolo offriva il servizio SIP di telefono pubblico; il locale era sempre affollato, specie nelle ore di tariffa ridotta. Se volevi parlare con la fidanzata/o senza patemi, era ideale. A questo proposito ricordo ancora a memoria quando i numeri di telefono in città partirono da due cifre e poi diventarono di sei: 742468 era il numero di casa, 742569 l’ufficio di mamma, 742693 lo studio di babbo e 742540 casa di zio ecc. Ma la mia prima fidanzata, dopo qualche anno, era già 801030. Scendendo da Piazza Plebiscito arriviamo al Caffè Napoli gestito da un signore di altri tempi che chiamavano con il nobile prefisso Don (Pietro Genualdo). Anche questo era un locale frequentato da babbo per ovvie ragioni. Io ricordo ancora le colazioni di cappuccino con le trecce che erano strette e lunghe, ma si impregnavano in modo spettacolare.

Ora il Municipio, sul quale mi soffermerò qualche rigo. Mi avevano detto che babbo era Sindaco ed era come se mi avessero detto che era il Padrone del Castello, dove il Castello, appunto, era il Municipio. Era diventato un luogo dalle mille avventure per me. Girovagavo in tutte le stanze e gli uffici, salivo e scendevo le scale, mi nascondevo dietro i banchi e le tende, immaginando chissà quali tenzoni e suscitando l’ilarità dei dipendenti. Mi autonominai Primo Usciere dell’ufficio di babbo e stazionavo fuori annunciando le visite. Mi mancava la marsina, la parrucca e il battaglio e potevo stare alla Corte del Re Sole. Lula, la segretaria di babbo, mi allungava le caramelle. E quegli odori penetranti di carta da archivio non li dimenticherò mai. Terreno di conquista divenne anche la stanza del telefono che si trovava a piano terra, a destra dell’ingresso principale. Il caro Mimì Colavitti con tanta pazienza mi insegnò ad usare il centralino e io schiacciavo quelle lucette e rispondevo “Il Comune, momento!” (Momento, perché mettevo in attesa le chiamate per smistare quelle precedenti). Il grande cuore di Mimì, uno dei pochi veri grandi amici di babbo. Poi c’erano i Vigili Urbani e qui devo per forza ricordare gli inseguimenti che si svolgevano al borgo quando giocavamo a pallone. Celestino e Furlani (detto coccolungo, con rispetto parlando): delle vere e proprie istituzioni, con le loro biciclette nere. Quando qualche Super Tele o Super Santos o Yashin (ahia quello costava un botto…) riuscivano a sequestrarcelo, io rassicuravo i miei amici: “Nessun problema”. Avevo scoperto dove tenevano i palloni sequestrati, in un armadietto a muro appena si entrava nell’Ufficio all’interno del cortile del Municipio. Fischiettando con nonchalance, fingendo curiosità per le moto rosse parcheggiate, attendevo il momento propizio e…zac! mi riprendevo il pallone, magari scambiando un Super Tele con uno Yashin!!! Momenti epici. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (2)

Proseguendo verso il centro, l’incrocio per la Cementeria era una zona trafficata da mezzi pesanti in piena attività. La strada non asfaltata per il molo Tramontana non aveva ostacoli di sorta tranne le famose “Caldaie”, luogo ameno che, dopo il crepuscolo, diveniva sede per dei test sugli ammortizzatori delle auto. Sul molo, allora accessibile, avevamo organizzato le nostre mini-Olimpiadi di atletica. La banchina si prestava in modo eccezionale perché c’erano le misure tracciate sui blocchi frangiflutti: 100m, 200m ecc. L’asfalto non era regolarissimo e, ogni tanto ci stava qualche caduta con annesse screpolature: l’importante era evitare di finire in mare. Gareggiare accompagnati dal penetrante odore di alghe e aria salmastra era impagabile. Percorrendo via Sforza verso il borgo ci si poteva imbattere nella musica proveniente dallo scantinato dove ebbe sede Radio Dyria. Che periodo stupendo quello delle proliferazioni delle radio c.d. libere. C’erano schieramenti ideologici (di destra Dyria, di sinistra Radio Antenna Monopoli, cattolica Radio S.Francesco); c’era tanta creatività e genuina volontà di “essere nella città”. Verso la fine degli anni 70 ricordo la trasmissione che realizzavamo su RAM con Antonio Pirrelli, Marco Napoletano e Fausto Avezzano Comes: si chiamava “Musica e Satira” con sigla iniziale “In Fila Per Tre di Edoardo Bennato. Ricalcava “Alto gradimento” di Arbore e Boncompagni, con riferimenti alle vicende locali. Un appetitoso aroma ci ricorda la presenza de “La Rete” la storica pizzeria a tre isolati dal borgo. Poi un altro luogo “cult” per chi amava la musica: il negozio di elettrodomestici e di dischi Bellantuono, dove ora si trova “Orchidee”. Era una frequentazione fissa dove si scoprivano ed ascoltavano tutte le ultime novità di ogni genere musicale, nel mitico vinile. Ricordo che a casa avevo un Lesaphone Perla (fonovaligia) giradischi con gli altoparlanti che si staccavano. Babbo lo aveva preso per ascoltare la Divina Commedia recitata da Gassman, ma che io ho immediatamente riconvertito alla Discomusic. Quante decine e decine di feste in casa ha allietato quel Lesa! Quanti lenti ballati stretti stretti con pausa per andare a cambiare il disco. C’erano poi le prime discoteche: il New Harlem di Francesco Colamarino (Foto Franco) in via Valente con i pionieri dei DJ Carlo Pelle e Maurizio Rossi. E poi il Seven Up dietro la chiesa del Sacro Cuore. E Le Fragole in via Mazzini.

Ed ecco la nostra amata piazza, il borgo, sempre al centro di eventi straordinari, all’epoca il punto di ritrovo per antonomasia: “Ci vediamo al borgo”. E non ci si perdeva mai. Un’agorà da percorrere rigorosamente dall’alto verso il basso, con divisioni per fasce d’età nelle varie carreggiate, virtualmente tracciate dalla consuetudine. Il borgo con la sua aiuola centrale, con la ringhiera a semicirconferenza che consentiva di sedercisi sopra, salvo poi rimanere anchilosati al momento di rialzarsi. Il borgo con i suoi bar intorno a cicaleggiare, con i suoi negozi, il salotto buono e la “posteggia” alle ragazze che puntualmente svanivano, tante Cenerentola, dopo le ore 20. La Casa Del Caffè di Salvatore poi il fioraio Di Palma, i primi odori che ci accoglievano. Poi, il Cinema Vadalà che la Storia ricorda per aver generato la più pregnante manifestazione di critica artistica che si possa immaginare: “Avuchè i sold n’dret!!!!”, dove il primo vocabolo era il titolo professionale del proprietario l’avvocato Vadalà e il resto una regolare richiesta di recesso per insoddisfatta esegesi dello spettacolo al quale si era assistito. L’ultimo locale dell’isolato era un'attrattiva speciale per tutti i bambini: il negozio di spezie, ma soprattutto di caramelle di Guida. Appena entravi eri investito da un dolce bombardamento di zucchero che tracimava da grandi vasi di vetro, dove allegramente roteavano pallottoline dei colori più svariati: irresistibili. Dietro l’angolo il tabaccaio Priatorie (bubble-gum) famoso per le macchine della Politoys con le quali integravo i paesaggi costruiti con i Lego ed anche il plastico dei trenini della Lima. Sul successivo isolato ricordo la lavanderia Genualdo (profumo di amido), la gioielleria Salerno, e il Circolo dei Cacciatori (odore di cartucce) dove si fermava mio zio Peppino, campione extraterrestre di tressette. Continuando il giro si incontrava il fotografo Selicato e man mano che si scendeva cominciava ad aleggiare il fragrante richiamo del pane fresco dei F.lli Meo (Miod). Il negozio storico di materiale elettrico dei Pisani chiudeva il lato sud della piazza. Circa alla metà del successivo isolato un altro odore particolare: la carta stampata della libreria Alò. Un altro luogo di culto per me insieme alle altre librerie: quella di Maria Girolami di fronte a San Vincenzo, la Bregante in via Polignani e la Tre G dietro il Bar Smeraldo. Entravo e mi perdevo, a seconda dell’età, visionando opere di generi diversi: prima i libri di Salgari, poi l’astronomia e la fantascienza, gli UFO e gli altri misteri, infine la politica, i saggi e i pamphlet. Rimanevo ore a esaminare i vari titoli dimenticando anche di mangiare, a volte. Alla fine dell’isolato, ad angolo con Piazza Plebiscito, (effluvi di lozioni e dopobarba) c’era Luca Di Bello il mio primo barbiere. (Forse se la giocava con Gino Medico del Diurno in via Garibaldi, che frequentava babbo). L’isolato successivo era quello del Settimo Cielo, con il ristorante all’attico, e lì forse gli aromi li percepivano anche gli aerei. Prima che fosse costruito il grattacielo c’era la casa dove sono nato, al secondo piano. Dopo il tabacchino Giovè, si trovava il primo negozio Eleganza del sig. Quindici, profumeria che stuzzicava le narici coi profumi più sciccosi. Proseguendo il giro, il glorioso Caffè Rudy (Rodolfo Todisco amico di babbo) accoglieva la borghesia cittadina, la quale, dopo aver consumato il caffè, passava davanti alle biciclette di Intano (mastice e gomma) e comprava la Gazzetta dall’edicola di Laura Sardella (odore di fresca stampa tipografica). Grande Laura! Quanti Topolini mi hai regalato, strappandomi la copertina: i giornalini di Walt Disney, un’altra mia passione. Dove ora c’è il negozio Vittorio Emanuele c’erano le Autolinee Alò Alfredo e i pullman parcheggiavano dietro l’angolo con il loro caratteristico odore di pneumatico consumato. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (1)

Quando non siamo sovraccarichi di pensieri e incombenze quotidiane, rilassati, percorriamo a piedi le strade cittadine, può succedere che qualcosa ci richiami alla memoria immagini e vicende del passato. E’ singolare che, dei cinque sensi in nostra dotazione, l’olfatto sia quello capace di penetrare più nel profondo del nostro archivio in disuso, di sollevare polvere, altrimenti permanente, a celare volti, emozioni, turbamenti. Quella che mi accingo a raccontare è una “road story” percorsa in un paese che non c’è più, ma i cui ruderi emergono con forza trascinati alla superficie da odori e aromi che scuotono gli altri sensi, rincorrendoli e coinvolgendoli. I sensi di un bambino hanno grandi ali che trasportano in luoghi immaginari, ma tutto quello che immagazziniamo da piccoli non lo perdiamo se ci abbiamo sognato sopra. I luoghi citati non sono sincronizzati nel tempo, ma si dispiegano con armonia nel decennio di cui si tratta.
La Monopoli a cavallo degli anni 60/70 era una placida cittadina con velleità da “grandeur”, ma che in fondo si beava della sua immobilità socio-culturale. Io, poco più che bambino, terminavo la scuola elementare all’Istituto San Giuseppe e iniziavo la Scuola Media Galilei. Mi recavo spesso a casa dei miei zii in via Bixio 248, visto che mamma lavorava e mia zia, maestra, mi faceva doposcuola. Da qui con lei uscivamo nelle belle giornate e facevamo tappa al Bar Veneto dell’ineffabile Romano. Venivamo avvolti subito da effluvi di pasticceria e chicchi tostati. La mia scelta preferita era però rivolta verso la granita di caffè e panna: una delizia che non mi stancava mai. La consumavo seduto su una panchina nella Villa S.Antonio. Lascio nei ricordi la mano di zia Wanda e esco dalla villa verso via Rimembranze. Dove ora c’è il Conservatorio, c’era l’elettrauto Carparelli. Continuando ad esplorare i dintorni mi sovviene il Bar Commercio, dove ora c’è Pantera Rosa, che emanava cornetteria fino al balcone del quinto piano dove ho abitato fino al ’68, in Corso Umberto 41. In via Magenta c’era il Ristorante Pasqualino. In via Bixio ad angolo con corso Umberto sorgeva il primo supermercato Gamma, che divenne poi Standa. Poi il cinema Radar e l’Hotel Savoia. Del cinema impossibile dimenticare la maschera Spinelli a cui facevamo tanti scherzi da prete (tipo dividerci in più posti sparsi nella sala e provocare rumori vari, così lui correva da una parte all’altra con un frenetico agitare di torcia) e il soffitto che si scoperchiava (manco l’Allianz Arena) e che faceva penetrare aria fresca che scacciava fumo pervicacemente intrappolato. Verso la stazione scavallava quell’odore inconfondibile del catrame dei binari. C’era una biglietteria con esseri umani, allora. E un capostazione con la paletta. E degli operai in salopette e guanti. Ero affascinato dai treni e dal funzionamento degli scambi. Alla domanda cosa farai da grande rispondevo sicuro: “Il Manovale!!”. Reputavo di grande responsabilità saper attaccare e staccare i vagoni e governare la direzione da far prendere ai convogli. Una metafora della vita nella quale ci tocca dover decidere quale direzione prendere, cosa portarci dietro e cosa lasciare su binari morti. Oltrepassando Parco Bovio e imboccando via Del Drago (allora immaginavo che si chiamasse così per qualche mostro preistorico che avesse imperversato lì vicino) mi incuriosiva vedere dei vecchi binari che scendevano verso mare lungo una via che si chiamava allora, coerentemente, Strada Ferrata. Scoprii successivamente la storia del trenino ciuf ciuf che arrivava fino in Cementeria a cavallo fra le guerre, mirabilmente descritto da Giacomo Campanelli. Proseguendo lungo via del Drago si confluiva nuovamente in via Rimembranze che terminava in un terreno che ospitava un carrozziere, dove ora c’è la palazzina dell’Ufficio Postale. Scendendo da via Trieste ricordo solo campi e terreni incolti. L'attuale via Marina del Mondo era una strada non asfaltata ampia quanto la strettoia esistente dopo la Stazione di Servizio. Da qui, come oggi, si raggiungeva Lido Pantano, allora l’unico stabilimento balneare a pagamento in paese. Qui mentre il juke-box caricava i 45 giri “Una rotonda sul mare” e L’isola di Wight”, io imparavo a nuotare. Svoltando a destra si percorreva via Fiume e accanto al campo Veneziani non c’era ancora il Palazzetto dello Sport. Il mio sport da bambino era il minibasket. Il prof. Del Giglio ci allenava dove capitava che ci ospitassero. Ricordo allenamenti all’addiaccio alla palestra della scuola S.Antonio, oppure alla Galilei, se ci andava bene. Presi a cuore la questione del Palazzetto. Carta e penna, scrissi all’on. Moro che babbo mi aveva fatto conoscere. La somma che mancava alla sua realizzazione arrivò e Il Palazzetto venne eretto. Un mattoncino piccolo piccolo posso dire di averlo messo anch’io. (continua)