23 novembre 2018

Femminicidio


Solo io
poeta di strada
spargerò versi
carezze di vento
sul selciato del mondo

Solo tu
donna di strada
indosserai quei versi
carezze di sole
intoccabile al mondo.



La mia alba


Strali
d'inconsueto senso
come filari d'alga
cingono l'alba
nubi di feltro
disegnano volti

afferro ombre
chinate sul mare
s'insinua feroce
il dubbio sulla vita.

16 novembre 2018

Pensiero indelebile

Un pensiero indelebile
è un varco temporale
sul cielo di Venere

una breccia che sgretola
muri di piombo

ardente lava
che fonde scudi arteriosi
penetra alvei
scava promontori

è l'arco della tua schiena
tesa verso il paradiso

è la tua impronta di sole
marchiata sulla mia anima.

13 novembre 2018

Resistenze


Non esiste verso
tenue grimaldello
che potrà forzare
serrate valve
ventricoli pulsanti
della tua anima
vorticosa
esplosa
di mille soli
proiettati sfiniti
su mille galassie
dove vorrei atterrare
baciando prati fioriti.

12 novembre 2018

L’attesa


M’ingegno
a scalfire
scaglie di momenti
rubati al vespro.

Spirali d’alabastro
ipnotiche naiadi
brumano l’aura
fluida e cruda.

L’ignoto incombe
erra sul confine
tracima di rabbia
bruca tempesta.

8 novembre 2018

Il pescatore stanco




Il pescatore stanco
guarda con occhi lievi
l’onda che ruzzola
innervate alghe,
l’onda che flette
strascica e viluppa
sabbia e sale.

Il pescatore irato
guarda con occhi bassi
la schiuma che ribolle
di plastica intrusa,
lercia racconta
tonfi di gabbiani
trémiti di vento,
scarti di beccheggio
bagolar di verricello.

Il pescatore tetro
avverte ad occhi chiusi
l’umido che sale
perlata nebbia
rancido fumo
che affonda i sensi
abbruma i polmoni
ghiaccia le vene.

Il pescatore cupo
guarda con occhi torvi
gozzi e lampare
vira indietro il timone:

ogni ruga è un’avventura
ogni storia rema contro
la storia che dipana,
giacula, sfarina
vicende d’oltremare.

Il pescatore è fermo
statuario nel cipiglio
domatore di nodi
fra marosi mai domati
scrocchi di baracchino
ovvietà blasfeme
e laringi infrante.

Il pescatore folle
sposa cielo e mare
con un bacio dello sguardo
vola in alto sulla luna
che indica il cammino
e disegna volti antichi:

bambini nati grandi
ombre danzanti
di padri poco noti
e madri resilienti
disperse all’orizzonte.

Il pescatore piange
lacrime di velluto
ago e filo, polso fermo
rammenda la paranza
assiso sulla poppa
guarda la sua stella
ma non le sue mani.


24 ottobre 2018

Dentro lo specchio

Dentro lo specchio
affiorano
incroci di orizzonti
vasti
pulpiti di anime
elette
barbagli di sogni
obliqui
e mi fermo negletto
succube inerme
chino al cospetto
del tuo fulgore nudo.

16 ottobre 2018

Vegeto, ergo sum



Cavalco l'onda
di un sorriso stranito
mentre attorno
grigio è l'assolo
di un senso fugace.
Pupille bramose di luna
avvitano colori
sinuose spirali.
Ebbro vago
rapito.

2 ottobre 2018

Un giorno come tanti (4 maggio)



Vociare confuso e diffuso
ascolto sommesso
i suoni del giorno
un giorno come tanti
come soli.

Paziente ravvivo
i fragili schemi
che ruotano ombrosi.

Fra tanti distinguo,
afferro, deciso
il sorriso che graffia
le corde profonde.

Un sorriso di sale
smeriglio, vitale
saluta il mio silenzio
declama una poesia
al vento interiore.

29 settembre 2018

Tramonto d'agosto



Spaccati d'ambra
sogni d'agosto
il sole che muore
frange l'azzurro
graffia di sangue
l'anima muta.

Sette pallidi amici *



* A febbraio 2017 la NASA ha rivelato di aver scoperto 7 pianeti in un sistema solare molto simili alla Terra

Oggi il cielo profondo
ha parlato di noi
una fioca libellula:
sette pallidi amici
in fila ordinata
un futuro che in fondo
ci sorride alle spalle.

La mano di una lente
tesa nel buio
ci guida benigna
noi migranti della vita
aggrappati ad una sponda.

Ci piace volare
alti, d’inebria follia,
cerchiamo incessanti
altri, migliori di noi
di noi più umili
di noi meno fragili.

La galassia ci chiama
ma l’universo non è fuori:
noi sordi, egoisti
banali, effimeri
vorremmo uno specchio
inguaribili narcisi,
incapaci sovente
a guardarci dentro.

Ci interroghiamo sull’oltre
ma adoriamo i confini
edifichiamo grandi muri
e distruggiamo i ponti.

Riusciremo a varcare la soglia
o sarà viaggio di elfi?

Quando statiche
le orbite si intrecciano
cogliamo il senso
della solitudine
perfida condanna
e vorremmo spiccare il volo…

26 settembre 2018

Venezia



Il mio cuore
pare una gondola
dondola dondola
l'onda cristallina
solletica i marmi
brulica salina
s'inchina s'inchina.

Venezia la Regina
emerge e sommerge
ci canta l'inno degli Dei
noi piccoli plebei
estasiati di luce
fermi di gioia.



24 settembre 2018

25 settembre: compleanno di mio padre Remigio Ferretti poeta e Sindaco





Ripropongo con uguale commozione lo scritto di più di vent'anni orsono in suo ricordo.
La foto lo ritrae mentre commenta un canto della Divina Commedia.

Quando mi ritrovo nel Caffè Rudy, mi capita spesso, papà di incontrare abituali frequentatori che mi salutano e - glielo posso leggere negli occhi - rimangono assorti, delusi, ancora una volta, dalla tua assenza. Il più commovente è il buon Saverio Pisciarino, il quale si sofferma sulla soglia, frugando con lo sguardo nel cantuccio dove eri solito interloquire con gli astanti di facezie varie, di episodi singolari, di commenti letterari e politici. Poi, visibilmente contrariato, Saverio scivola verso il bancone, consuma velocemente e si congeda. Un giorno gli ho chiesto: "Perchè non ti fermi, come facevi di solito?" E lui: "Non ho più Remigio con cui parlare. Che senso ha trattenersi oltre?" Già. Che senso ha trattenersi oltre? Forse è stato questo il dubbio che ti è morto sulle labbra quella sera di maggio che ti ha rapito. Che senso ha trattenersi oltre in questo luogo sonnacchioso e lavico, in questo ruolo da Don Chisciotte senza pace, in questo tempo bruciato dalle bramosie senza fine. Avevi tanti progetti ancora, è vero. Soprattutto il tuo libro, come una creatura amorevolmente svezzata, era lì, pronto per le stampe. Quell'ultima sera ho capito papà e ho promesso che le tue poesie avrebbero camminato per le strade e le piazze della tua città.
Che strano destino, papà. Non riuscivamo a parlare facilmente, noi. Ma da quel giorno ho riannodato con te un filo virtuoso. Mi ritrovo spesso, nell'arco della giornata, a commentare con te la vita che scorre e ci sfiora con le sue movenze inusitate, a cercare suggerimenti, consigli per decisioni difficili, pulviscolo di saggezza che solo un padre può dare.
Che strano destino, papà. Ero solo un bimbo quando il Municipio mi affascinava come un castello incantato, e tu eri il Principe del Castello: scorrazzavo per quei corridoi che profumavano di carta e di inchiostro infilandomi in ogni pertugio; e poi, assumendo un'aria solenne, mi eleggevo tuo segretario, annunciandoti le visite, impettito, davanti al tuo ufficio. Ricordo un giorno, di aver sabotato il Centralino spingendo tutti quei bottoni colorati di quella affascinante tastiera nascosta nella stanza del custode, il tuo amico Mimì Colavitti. E poi quella volta che feci impazzire Celestino, l'indimenticabile Vigile Urbano, che si chiedeva disperato che fine facessero quei palloni che sequestrava ai ragazzacci per la strada e poi, improvvisamente, sparivano dal ripostiglio del Comando. Ero un bimbo per il quale immaginario e realtà spesso coincidevano e l'assoluta incoscienza dei privilegi da me goduti rispetto agli altri bimbi della mia età, avevano fatto tracimare la tua figura nel mito. Soffrivo la tua incostante presenza nella mia vita di giochi infantili. Gli impegni ti tenevano lontano da casa e il giorno più bello della settimana per me era la domenica mattina: potevo saltare sul tuo letto e godermi il mio papà finalmente a mia esclusiva disposizione. In tua assenza, cercavo testimonianze di te fra i tuoi cassetti: e fu così che scoprii le poesie. Detto fatto, e anch'io volli essere poeta: scrivevo versi che sembravano telegrammi, emulando vocaboli per me astrusi, rigidamente a macchina, non immaginando che esistesse qualcosa che si chiamasse bozza. A casa l'ilarità fu grande e, naturalmente, ci fu qualcuno che, banalmente, sentenziò: "buon sangue non mente". E invece mentiva.
Grazie papà per avermi indicato l'onestà come valore trasversale, come ultimo baluardo di fronte alla mercificazione, alla mortificazione degli ideali, perchè possa aggirarmi a testa alta tra la gente e dichiarare, al pari dei tuoi alunni ("E' stato il mio professore!"): "Io, sono suo figlio!". 
Grazie papà per avermi insegnato la forza irresistibile del perdono: perdono per chi ti ha tradito, perdono per chi ti ha deriso, perdono per chi ti ha sfruttato, per chi ti ha calunniato. Perdono per te che mi hai un pò tarpato le ali, perdono per me che ti ho negato tutte le occasioni di dialogo. 
Grazie papà per avere scelto la mamma come compagna di viaggio: un incredibile avventura sbocciata fra le bombe di una guerra fratricida, una presenza discreta fino alla trasparenza, una spalla possente nella giungla della vita, una dedizione costante, fino all'ultimo affanno. 
Grazie papà per l'insostituibile compagnia di un fratello; siamo come lucciole, a volte ottenebrate da una notte tempestosa: presto l'aria si quieterà e l'alba ci troverà solidali e preparati al nuovo giorno. 
Grazie, infine, papà per avermi insegnato ad amare il mio paese: ho compreso il messaggio ed avrò a cuore le nostre comuni sorti perchè - come tu concludi la poesia "Giorno no" - si compia il tuo auspicio e Monopoli possa vivere, umanamente, la sua "novella storia". 

Monopoli, 27 maggio 1995
tuo figlio Ferruccio

19 settembre 2018

Quanto ti ho amato mare


Quanto ti ho amato
mare.
La bianca spuma
spazzava ombre
frangenti l'anima
la finissima rena
spargeva dolcezza
su bocche di sole
gli abissi turchini
celavano angosce
su lame di coltello.

Quanto ti amo
mare.
Pieno nella tua assenza
grave nel mio dolore.

17 luglio 2018

Piazza Heleanna: il grande cuore della città




Avevo 12 anni quando nella notte del 28 agosto 1971 si consumò la tragedia della nave-traghetto Heleanna. Ricordo vagamente il trambusto, le sirene, le notizie che allora viaggiavano unicamente sulla TV nazionale e sulle bocche della gente. L’incendio a bordo provocò la fuga in mare dei viaggiatori in balia di mezzi di soccorso insufficienti e in numero quasi doppio rispetto alla capienza prevista. Ci furono 41 vittime e 271 feriti. La nave si trovava al largo di Torre Canne. La salvezza dei superstiti venne assicurata con il decisivo contributo delle marinerie, tra cui quella monopolitana, che venne successivamente premiata istituzionalmente con la Medaglia d’Argento al Valor Civile, e personalmente, con riconoscimenti ad alcuni marinai e comandanti di pescherecci. Commovente fu l’ospitalità che venne fornita con grande cuore dalle famiglie della città a viaggiatori che avevano perso tutti i loro beni. Questa pagina gloriosa di recente storia cittadina mi spinge a proporre una importante variazione nella toponomastica: a ricordare le gesta coraggiose e improntate all’umana sollecitudine dei nostri concittadini andrebbe dedicata la piazza Centrale. Verrebbe così cancellato un’anacronistico riferimento sostituito da un omaggio che sarà per sempre proprietà e simbolo della città, specie per non dimenticare mai che spirito di accoglienza e solidarietà tra i popoli devono essere prerogative irrinunciabili per un paese che vuol definirsi civile.

3 luglio 2018

La Strada delle Ginestre *


Lassù
friniscono le cicale
schiamazzano
annoiate tortore,
e prodigo
di scheggiati pastelli
ti affabula
lo splendido mix:
algida roccia,
atavica pietra
verde scolpita.

Lassù, tronfio
di impertinenti energie
affronto le rampe,
vorticoso ombelico
di sapienti spire.

La carezza delle ginestre
è soffice, fluente,
barbagli maculati
frantumano l’ombra
dei tratti di lentischio.

In fondo alla valle
Egnazia ammicca
sorniona e mai doma:
il Barbaro ha calpestato
infierito, divelto,
ma non schiacciato
l’orgoglio dei padri
e noi, eredi,
il mento al cielo,
sfidiamo.

Affronto deciso
le tornite curve:
il provvido Maestrale
solido, affusolato
porta sollievo
alla torrida stagione
e spinge ad osare
deviare, trasgredire.

In basso
le antiche Masserie,
iperboliche radici
vestali custodi
affondate nella Storia,
biancheggiano eterne.

La meglio gioventù
della strada e della vita
si concede
tempi e lampi
effimeri soli,
pindarici voli.

Mi curvo ancora
ondeggio, scarroccio
e cerco di glissare
il suolo che m’attende
lento e costante
mentre le ginestre ormai
occhieggiano lontane.

Il mare è un sentiero
graffiato d’azzurro
orlato di marmo
e pare sorvegliare
da lungi, placido,
l’epilogo.

La penultima curva
stringe il cuore
ponendo inevasi quesiti,
arroccati misteri.

La speranza della Croce
vivido conforto
domina l’orizzonte
mentre plano
come drone silente
e Monopoli,
splendida culla
adagiata sull’acqua
ridondante, m’esplode.

Sono quasi alla fine
intravedo la mèta
le solide certezze
il mio paese
l’amore vissuto
tra piazze e vicoli
profumi di alga,
spaccati di sogno.

La pianura
mi riaccoglie
paziente,
le bizze ricompone
perdona, risolve.

La Strada delle Ginestre
è la strada della vita
tante svolte,
alla fine una retta
che prende per mano
e conduce a casa.

* La Panoramica Monopoli-Alberobello

14 giugno 2018

L'inusualità di Nuccio

Torno brevemente sulla questione dell'analisi elettorale, conscio del fatto che, come avviene sempre, le valutazioni in questo campo sono fortemente influenzate da sentimenti emotivi, come nel campionato di calcio; in soccorso dei giudizi sulle elezioni non abbiamo però lo strumento della VAR per rivedere eventuali errori che siano stati compiuti. L'aritmetica non dà scampo: chiunque può calcolare che, fermo il risultato di Nuccio, se al M5S fossero andati 2000 voti in più prelevati dal campo avverso, sarebbe stato ballottaggio. Io stesso ho segretamente sperato che andasse a finire così. Quello che ho voluto sommessamente evidenziare è che non è una mossa politicamente avveduta sottolineare tra le principali cause di un insuccesso, una esogena, quale può essere una scommessa sul risultato altrui, anzichè quella endogena che credo di aver ben trattato nell'intervento precedente. Ancor di più se questa scommessa/previsione riguarda il "torrente" (corrente d'acqua caratterizzato da estrema variabilità di deflusso con alternanza di piene violente e di portate limitate o nulle cit. Treccani), chiamato M5S. E' cosa nota come "il voto di pancia" espresso a livello nazionale si sgonfi nelle urne delle città. Ancor di più è necessario sottolineare alcuni aspetti precipui della nostra realtà. Ho scritto che i 1820 suffragi del M5S possono essere considerati i voti realmente "incazzati", insieme ai 10744 del centro sinistra. Per quale motivo? Perchè sono quelli che hanno resistito alle valutazioni del tipo: "tengo famiglia", "mio cognato, cugino, zio è con loro mi può essere utile", "il mio datore di lavoro ci ha detto che votando per loro stiamo sicuri" solo per fare qualche esempio dei più nobili. Gli altri 7000 elettori migrati dalle elezioni politiche al centro destra hanno invece ceduto alle pressioni/blandizie ed altre procedure, determinandone la vittoria al primo turno. Ecco perchè il risultato storicamente migliore del centro sinistra non è bastato. Ecco perchè riconquistare gli "incazzati" e incanalarli in acque meno torrentizie è missione assolutamente ineludibile. E sapete cosa mi auguro? Che questo compito sia, sì, affidato al permanere della coalizione sul campo, come è stato confermato, ma soprattutto che il PD rinasca dalle ceneri con il volto sorridente e le braccia aperte verso coloro che non ci stanno credendo più, verso coloro che hanno perso le speranze, verso coloro che si sono sentiti traditi, verso coloro che vorrebbero ancora una bandiera gloriosa da sventolare. Infine ultime due parole ancora su Nuccio. Non è usuale che lo sconfitto faccia un comizio di ringraziamento. Non è usuale che lo sconfitto onori il vincitore in modo così spontaneo e sincero. Non è usuale che lo sconfitto si commuova ricordando le fiammelle di speranza negli occhi di chi lo ha convinto a candidarsi. Non è usuale che si commuova per i ragazzi e le ragazze che si sono sfiancati nutrendosi del suo entusiasmo e della sua passione. Niente è usuale di Nuccio. Ecco perchè gli va solo dedicato un enorme grazie per aver soffiato via la cenere che ricopriva carboni che sembravano spenti, per aver defibrillato cuori annoiati e stanchi, per aver rilanciato un'idea, un sogno, una missione.

12 giugno 2018

La sconfitta colpa del M5S: Ma siamo matti??

Premetto che voglio bene a Nuccio Contento, riconoscendo in lui le caratteristiche di chi, come il sottoscritto, è cresciuto in un’epoca in cui la politica era una cosa molto diversa da quella attuale. Lo sforzo di attualizzare sogni, valori, ideali, coniugandoli con i propositi concreti da realizzare in una società cosiddetta “matura”, da un Sindaco di sinistra in una città di destra, è titanico, e può riservare delusioni di non semplice metabolizzazione. Che Monopoli sia di destra lo sanno ormai anche le mattonelle del borgo: quelle vecchie e quelle rifatte tre volte dalla nostra perfetta amministrazione. E su questa ormai vexata quaestio non è più utile spendere altre riflessioni, se non affidarsi a riti voodoo, esorcismi e stregonerie varie. Ma, signori miei, come direbbe lo sterminatore del PD, sentire che la colpa del tracollo è del Movimento 5 Stelle, mi sembra una tale bestialità, solo forse giustificata dall’eccesso di adrenalina accumulata da un pugile suonato. E’ come se, avendo scoperto un furto con effrazione in casa, si attribuisca la colpa non ai ladri, ma all’antifurto che non ha funzionato. Cioè 1820 voti incazzati di questa città sarebbero stati sottratti tutti al centro sinistra e non all’Invincibile Armata, e questa sarebbe una colpa? Se la conclusione è questa, oltre che essere un pessimo esercizio di autocritica, essa rivela ancora una incapacità di cogliere l’essenza e la natura del M5S, che è un movimento liquido, che si adatta al recipiente che lo circonda il quale, come abbiamo detto, è un recipiente di destra, e pertanto l’istanza di ribellione, per cercare di rompere il recipiente, (evidentemente finora inevasa), raccoglie consensi a sinistra. Cosa c’è da stupirsi? Allora cominciamo a chiederci perché gli incazzati (quelli che votano e quelli che non votano più) non vengono più nel nostro accampamento. Quel 35/40% che Nuccio diceva di aver previsto di raccogliere comprendeva un PD al suo peggior risultato di sempre della storia? Allora c’è qualcosa che non va. Non può Monopoli avere un partito erede della sinistra storica al livello di comparsa testimoniale. Qualcuno ha sbagliato e deve fare non uno, ma una decina di passi indietro. Questa miserabile deriva renziana, elitaria, condita da beghe personali e vendette trasversali! Che pena per il partito che fu di Barbarito e Matera, pochi professori e avvocati, ma tanti e grandi macinatori di consenso, coerenti e leali. Frantumate i vostri specchi di Narciso e convincetevi che la gente non vi vuole belli e forbiti, ma sudati e urlanti il vostro e il nostro sdegno, il vostro e il nostro orrore per una città mortificata da un’aggressione senza precedenti, dove si lanciano segnali preoccupanti alle giovani generazioni che tutto sia possibile con la tracotanza e la supponenza. Bene, a mio modesto avviso occorre ripartire da qui e cercare di ricostruire dalle fondamenta una sinistra nelle piazze, lasciando perdere i Social e tornando alla luce del sole; una sinistra che non faccia pubblicità delle proprie battaglie solo in prossimità delle scadenze elettorali. A cosa è servito salire sul palco 2 giorni prima delle elezioni, come ha fatto il dott. Sorino e inveire contro il deus ex machina della parte avversa, quando buona parte della popolazione forse neanche sa chi è e cosa fa Pasqualone. Ha suscitato il disturbo pari a quello di un moscone impazzito sul vetro del soggiorno. Chi ci ha pubblicamente informato durante questi 5 anni della vicenda Solemare, della Casina del Serpente, dell’Area Pagano, dei rifiuti, dell’inquinamento, del cemento che avanza sulle spiagge? Quante manifestazioni di protesta sono state organizzate? Quante marce, quante conferenze stampa? La città deve essere costantemente tenuta sul pezzo, aggiornata sulle porcherie in itinere. Non basta la pur ferma e necessaria opposizione fra le mura di Sala Perricci. Gli incazzati si raccolgono e si moltiplicano così. Riflettiamoci.

24 aprile 2018

Alfie



Vivi.
Astrusa miscela
di atomi curiosi
indecifrabili ballerini.

Vivi.
Alito di cellule
giocose vibranti.

Vivi.
Smentiscili tutti
scienziati e corifei.

Vivi.
E trascina con te
mille cuori di bimbi
smarriti
tra le onde

svenduti
dagli orridi
signori delle guerre.

Monopoli: Contrade 2.0



In questi giorni di campagna elettorale ogni candidato cerca di spendere il suo carisma per attirare i consensi nelle contrade, bacino storicamente decisivo per far pendere le sorti dell’una o dell’altra parte in lizza. Finora gli esiti elettorali dai tempi dell’occupazione del potere democristiana, sono stati decisi da uno scambio più o meno tacito di favori: il voto per una concessione, un’accelerazione di disbrigo pratica, una sistemazione di strada ecc... Il mondo ha girato sempre in quel verso e ciò viene accettato da entrambe le parti con reciproca soddisfazione, poiché, prima o poi, qualcosa da chiedere capita sempre. E’ quello che si chiama comunemente sistema clientelare. Ovviamente nessuno ha interesse ad una crescita culturale, ad un cambio di passo che chiarisca i concetti di diritti da una parte e di equità della Pubblica Amministrazione dall’altra. Ma i tempi stanno cambiando e la prepotente ascesa sul palcoscenico di ultime generazioni con le loro (anche) contraddittorie dimostrazioni di presenza deve stimolare a scompaginare questi vetusti schemi antidemocratici. Monopoli reclama il suo diritto ad essere considerata (permettetemi l’abuso linguistico), non centrostoricocentrica, ma orientata verso uno sviluppo armonioso che faccia delle Contrade (congiuntamente al rilancio del borgo murattiano) il fulcro sul quale puntare il compasso del futuro della città. Mi permetto perciò di avanzare qualche proposta destinata principalmente alla coalizione di centrosinistra.

- I cittadini residenti devono sentirsi sempre più “parte” del paese; quindi vanno bene i presidi fissi propaggini degli uffici comunali, ma occorre pensare anche a insediamenti congiunti del Corpo Forestale e Vigili Urbani;

- Potenziamento dei servizi: illuminazione delle strade, erogazione di acqua e gas. Occorre facilitare ai richiedenti gli allacci necessari alle reti di distribuzione disponibili riducendo al minimo i costi e i permessi necessari; potenziamento ed estensione dei percorsi dei trasporti pubblici;

- Realizzazione, dove sia possibile, di piste ciclabili con indicazioni turistiche per informare della presenza delle nostre storiche masserie da visitare;

- Sviluppo delle infrastrutture digitali. E’ scandaloso che ancora ci siano zone non coperte dalla rete internet. Se i gestori non ci arrivano, il Comune stipuli convenzioni con le reti-ponte gestite da privati a tariffe concorrenziali con i principali operatori;

- Strettamente connesse all’accesso alla Rete andrebbe considerata la realizzazione di luoghi pubblici di connessione: penso a Internet Point e biblioteche multimediali in modo da dare ai residenti, in special modo ai ragazzi, opportunità di studio e/o ludiche senza necessità di spostarsi in Centro;

- Le contrade devono “vivere” tutto l’anno non solo nei periodi delle sagre e delle feste parrocchiali; leggo di un progetto di tendostruttura in via San Marco da utilizzarsi per attività sportive e di spettacolo. Sarebbe scandaloso se si decidesse di realizzarla invece (o insieme) in agro?

Insomma Monopoli che è il settimo comune per estensione e il quarto per popolazione della provincia di Bari, con questi interventi, diventerebbe una comunità più “vicina”, meno dispersa: compito dell’amministrazione “abbracciare” simbolicamente i suoi cittadini ridestando valori d'identità e solidarietà fondamentali della nostra tradizione.

20 aprile 2018

Siria


Vorrei la vita
come edera
salda sulla pietra
forte alle scosse
gravida di sole
tenace alle ferite
degli uomini
che strappano
vite su vite.

24 marzo 2018

Idee per la città: protezione ed evoluzione

Pubblico il mio contributo al programma della coalizione che sostiene il dr. Martino Contento come candidato Sindaco.

Se dovessi condensare in due parole la mia risposta alla domanda: di cosa ha bisogno Monopoli, le due parole sarebbero protezione ed evoluzione.
La nostra città ha bisogno di essere protetta dopo un decennio nel quale è stata sottoposta ad aggressioni di tutti i tipi.

Aggressione alla salute dei cittadini. Allo stato attuale non conosciamo portata e conseguenze di quello che accade nell’aria che respiriamo. Non conosciamo le ricadute che essa ha sui prodotti della terra e sulle falde acquifere. Non abbiamo riscontri e verifiche sufficienti sulla qualità del nostro mare, sulla sua balneabilità, al di là di bandierine di puro effetto cromatico. Non conosciamo dettagliatamente chi, cosa e come viene fatto defluire a poche centinaia di metri dalle nostre spiagge. 

Aggressione del territorio. Sta imperversando una rampante classe imprenditoriale che non si fa scrupoli di occupare e cementificare qualsiasi spazio libero, insinuandosi abilmente fra concessioni elastiche, sanatorie improvvide e autoreferenzialità presso le istituzioni. Costruire sul mare è vietato solo sulla carta e così vantiamo anche noi la nostra Punta Perotti. E’ incomprensibile che se 50 anni fa è stato edificato un obbrobrio, la legge permetta di riprodurlo pari pari, visto che c’era già. 

Aggressione alle tasche dei cittadini. E’ da inquadrare in questo modo la sproporzione tra imposte percepite e inefficienza del servizio di raccolta dei rifiuti. Eppure stiamo imparando a riciclare. La maggior parte della cittadinanza vuole conferire in modo virtuoso. Ma si scontra quotidianamente con difficoltà e carenze incredibili per un paese civile. Cambiano ditte, società, appalti ma scopriamo che dietro le quinte c’è sempre qualche nome ricorrente nei posti chiave del servizio. 

Aggressione scomposta del cuore del paese. Monopoli nella storia era la città dei 4 quartieri: Egnathia, Japigia, Apulia e Peucezia. Monopoli è la citta delle cento Contrade. Per quale motivo ora sembra che esista solo il Centro Storico a rappresentarla? La nostra splendida piazza (alla quale sarebbe ora, per inciso, di cambiare nome, archiviando le invereconde denominazioni monarchiche) soffre di ingiusta solitudine: piange il cuore vederla deserta già alle 10 di sera mentre non si riesce a passeggiare per la calca in via Garibaldi. 

Aggressione alla cultura e alle tradizioni. Monopoli nasce come simbolo dell’accoglienza. L’antica Portus Pedie, villaggio di poveri pescatori, abbracciò le genti profughe della ricca Egnazia distrutta da barbari invasori. L’ospitalità è nel nostro DNA. Ora ne abbiamo fatto un business, mordi e fuggi, per tre mesi all’anno, tassando pure il soggiorno. 

Passiamo alla parola evoluzione.
Questa città ha bisogno di crescere culturalmente e di recuperare il meglio di sé. E’ necessario conoscere bene cosa c’è sotto di noi, cosa si muove nelle profondità prima di capire cosa e dove edificare. Non mi risulta (non vorrei sbagliare) sia mai stato fatto uno studio geofisico serio sul sottosuolo della città. Non mi risulta sia mai stato fatto un’analisi del fondo marino e delle correnti delle acque circostanti la città per capire come e dove eventualmente attrezzare delle infrastrutture portuali alternative, turistiche e commerciali. A questo, ma non solo, tende la proposta che ho avanzato qualche tempo fa, di fare di Monopoli una città universitaria. Avevo pensato alla zona dell’ex Cementeria, ma va bene dappertutto, purchè si faccia. Accoglienza stanziale di studenti e docenti. Facoltà che si occupino dello studio del territorio e delle attività portuali, del turismo e delle tradizioni storiche della città. Ai visitatori della città occorre offrire qualità. Ogni due o tre pizzerie, una bottega artigiana. Ogni due o tre B & B, una galleria d’Arte. Ogni due o tre bar, una mini biblioteca multimediale. Si potrebbero concedere agevolazioni burocratiche e fiscali per incentivare le aperture di queste attività. E basta discoteche a cielo aperto in luoghi inadatti come i vicoli del centro storico: la musica deve accompagnare il viandante, non bombardarlo. Che brutta parola abbiamo inventato: zonizzazione. Basterebbe il buon senso. I luoghi di intrattenimento vanno creati, ma nelle periferie, cosa che contribuirebbe anche a rivitalizzarle. 

Insomma ad ogni occasione di ricambio della classe dirigente della città apriamo e, subito dopo, chiudiamo il nostro libro dei sogni. Ciò accade perché la politica ha sempre avuto lo sguardo miope e la volontà di non spezzare equilibri che consentano di galleggiare, magari anche facendo bella figura. Ci rendiamo conto che non è facile voltare davvero pagina e imboccare una strada certamente più impervia. Pur tuttavia non demordiamo e cerchiamo di offrire un contributo molto semplice da osservatori indipendenti e neanche competenti, ma, anche per tradizioni familiari, caldamente affezionati alle nostre radici e desiderosi di offrire alle future generazioni un posto migliore in cui vivere.

22 febbraio 2018

Antonio Brescia: l'uomo che ha scalato l'infinito a mani nude

Non conoscevo Antonio Brescia. E come me certamente molti altri. Ho perduto un’occasione eccezionale per un rendez-vous con una personalità complessa, poliedrica, un talento adamantino che aveva preso domicilio nell’esosfera e ci contemplava, talvolta con disprezzo per le nostre querule meschinità, talvolta con l’amore che si deve comunque ai propri simili, ancorché imperfetti. Me ne ha parlato il fratello Piero, pervaso da un sentimento commovente che si stenta a ritrovare in quel coacervo di egoismi che è divenuta la nostra contraddittoria esistenza. Il loro rapporto mi ha ricordato lo splendido film di Barry Levinson “Rain Man” nel quale il fratello minore interpretato da Tom Cruise dedica la sua vita al maggiore (Dustin Hofmann), scoprendo ad un certo punto che il suo stato autistico nascondeva una genialità insospettata. Piero, di professione fisioterapista, ma di DNA musicista, mi ha parlato con passione di un fratello da sempre “sui generis”, ma che la sofferenza ha spostato ai confini dell’irrazionale, oltre i limiti dell’umana percezione, verso la ricerca delle Questioni Universali. Mi ha offerto per la lettura due volumetti di poesie: “Stelle d’acqua” del 2005 e “Parabole giocanti” del 2008. A primo acchito pare di essere entrati per errore in un luogo dedicato a pochi eletti, dove vigono leggi della comunicazione estremamente ristrette, i cui tentativi di interpretazione restituiscono il dubbio di essere in veste di intrusi. Ma pian piano restiamo irretiti da un piano semantico che non è semplice ricerca sfiziosa di metalinguaggi, non è vago sfoggiare di contorsionismi estetici: si tratta di una serie di diapositive che il poeta scatta al suo pensiero dinamico, ultraveloce, che cerca spasmodicamente di rimediare su carta, lasciando sempre qualcosa oltre, ancorché la carta si rivela insufficiente a raccogliere. Piero mi racconta che anche la sua pittura ha questa caratteristica, infatti Antonio nasce come pittore e poi trascura questa inclinazione per dedicarsi alla poesia. Evidentemente lo strumento non regge il compito destinatogli, essendo la Realtà incapace di essere al servizio pedissequo ed integrale dell’Assoluto. Eppure Antonio, a ben vedere, in ogni componimento offre una chiave di lettura, anche in un solo verso.
Leit-motiv della sua prima raccolta è il sentimento fortemente critico verso i nostri pensieri miseri, le banali questioni di interesse, gli stupidi rovelli in cui si dibatte l’umanità. Pare di riecheggiare le “maledizioni” di Baudelaire e le stoccate esotico-mistiche e compulsive del sardonico Battiato. Egli è “Un anarchico garbato”:

Lontano da chi ruba ai corvi le carogne
e dai guardoni paghi della ragione che indietreggia…
un anarchico garbato arrischiò la propria pelle
_ come un panno esposto alla freddaNotte _
per raccogliere “la rugiada delle Stelle”

Mentre i prodromi di una inclinazione al tormento è sicuramente “Io faccio il pagliaccio” che richiama la classica figura del clown triste, incatenato ad una maschera che non sopporta:

Io faccio il pagliaccio, ma quando la farsa sarà finita
riprenderò il mio volto di Poeta.

Meravigliosa e indicativa dello sforzo inaudito di “recintare” in mera espressione verbale la vulcanica fantasmagoria delle sue sensazioni è la poesia “Parole”:

Eppure le parole si rivestono di splendore
_ prendono un “valoreinestimabile” _
ma solamente sotto l’inchiostro
che sa avvolgere l’UNIVERSO…
per inglobarLo nella propria legge di carta.

Nella seconda raccolta Antonio è entrato appieno nel vortice della solitudine e della ricerca infruttuosa delle risposte a domande che pochi si pongono, sprofondando nel rumoroso silenzio dell’ignoto. Piero mi racconta che egli si definiva “monaco free-lance”, cioè seguace di una religione che non esiste, come un nomade del pensiero, “emigrante di tutti i giorni”, intrattabile agli schemi, ribelle ad libitum. Le “parabole giocanti” sono traiettorie sfasate nel tempo e nello spazio, proiezioni cosmiche tendenti alla gioia, ma imprigionate da dolorose catene di solitudine e incomprensione
Il verso si fa iconoclasta, a tratti virulento, il passo pachidermico, iperbolico, incurante delle lacerazioni provocate dallo strusciare sulle pareti asfittiche delle convenzioni. Antonio veste il talare laico-blasfemo, irridendo e sprezzando chi lo percuote col cilicio dell’emarginazione. La splendida e tremenda “Resurrezioni” è un poema tragico e inverecondo, un urlo dalle tenebre che sale al cielo e lo infiamma di lava furente di orgoglio:

Io sono lo scemo del villaggio
Ma sono anche il suo custode

L’Inferno ha anche sembianze umane ben definite e viene dantescamente trafitto con la legge del contrappasso:

Tutto il male che mi hai fatto
Sarà il bene che io ti farò

Il sale dell’invettiva viene sparso in modo sistemico:

Nel VillaggioGlobale della Prevaricazione
-Il codardo è salito sul trono,
il figlio dell’arroganza posto in alto;
il povero, l’ingenuo…
come bestie da soma Inculate_sodomizzeranno?!

Ma un barlume di volontà riesce ancora ad insinuarsi:

…io mi congedo Stanco
annunciando il prossimo ritorno.

Le liriche alternano pessimismo (preponderante) a speranza (fioca) con un ondeggiare che lascia turbamenti profondi e probabilmente generano rimpianto in chi ha, incolpevolmente, secolarizzato embrioni autodistruttivi. In “miSfoglio” il poeta pare arrendersi a una insoddisfazione cosmica:

Anticipo l’ombra in cui dovrò errare…
con un mazzo di fiori per l’abisso
di rotaie che brillano ancora parallele
e mi ricordano che devo andare

Eppure la sua volontà ha una forza primordiale “Fear no more”:

…più non temere gli ostacoli
che hanno bloccato il tuo fluire
ostruendo le possibilità e i limiti!?
afferrati alle ali della PoesiaASSOLUTA!?

Lo stesso rapporto con la sua arte è messo in discussione poiché essa è matrigna di dubbi insolubili “fra la nostraDemenza e il mioEsilio”:

Barcolliamo su gambe di cera
E sotto i nostri piedi
C’è la strada che conduce alla poesia!?

Sul versante opposto si rivela, non del tutto obnubilata, la dimensione fortemente terrena in“Desideri”:

Chi può fermare i desideri nel loro cammino?!
può il travaglio diventare magico!?
Forzare non vorrei
ma tentare bisogna…Sogna…SOGNA.

Insomma, gli spunti che traboccano dalla lettura tracimano per ogni dove e, ad ogni ripasso, alla stessa stregua della levatrice del tormento dell’Autore, essi si moltiplicano ponendo inevasi quesiti, prima invisibili, in un rincorrersi senza tregua, ma che noi, semplici fruitori, accogliamo con sommo gaudio.

E’ molto difficile metabolizzare la scomparsa di un familiare con il quale, pur essendo in costante connubio, alla fine del viaggio terreno lascia comunque sempre il rimpianto di non aver detto o fatto qualcosa. Ancor più quando la sua assenza ci pare un furto senza spiegazioni. E allora occorre spargere i ricordi, spalmarli nel tempo a venire, cercando di risarcire la memoria offrendo questi doni prodigiosi, questi coriandoli di luce sopraffina al pubblico che, come me, si è perso un Grande. Nutro la speranza che queste mie brevi e, sicuramente insufficienti righe siano il primo, modesto, contributo perché si dia inizio a questo percorso.
Coraggio Piero, è tua la missione.

7 febbraio 2018

Passeggiando per il paese che non c'è più (5)

Dedico questa appendice a tutte le inevitabili omissioni intervenute nei precedenti post, anche affidandomi ai gentili suggerimenti di quanti mi hanno riportato alla memoria altri luoghi riaffiorati dalla nebbia del tempo. In Piazza Monsignore sotto il palazzo D'Auria c'era il negozio di calzature di Mirizio dove mia madre mi comprava le prime scarpe, anche quelle di vernice che si aprivano giocando a pallone. Nei pressi dell'Istituto S. Giuseppe c'era il Bar Odeon e la prima succursale della Posta dove andavo ad acquistare i francobolli di prima emissione per la mia collezione. Sull'altro lato della strada, ricordo vagamente il mulino Meo-Evoli, dove ora ci sono i palazzi Alba, l'ultimo mulino "cittadino" rimasto. Sotto l'Istituto "Montessori", occupato dalle prime due classi del Liceo Scientifico c'era il bar Kennedy (poi Florida, ora Blanco) che frequentavamo durante le ricreazioni.
Tanti i bar che mi sono tornati in mente: il Bar Sisina, una vera e propria istituzione alla fine di via S.Anna, dove di fronte ricordo la pizzeria Corallo. Il bar di Giuseppina in via Ten.Vitti, angolo via Marsala e il bar Levante in via Sforza dove ora c'è l'emporio cinese, tutti frequentati per via dei gloriosi flippers (emblematica la "mossa" per evitare di perdere la pallina senza far uscire il "tilt").
In piazza D'Annunzio si fronteggiavano in quotidiana concorrenza il bar Trieste e il Tipsy Bar.
Un discorso a parte merita la sede dell'Arca Gam nel vicolo di fronte al Cinema Vittoria, ora via Ligabue. Anche a Monopoli fiorì una scuola politico/cuturale alternativa il cui mentore fu Angelo Montanaro. Grazie a questa presenza, nel paese vennero introdotti temi che la plumbea egemonia democristiana aveva reso tabù.
Attendo altri preziosi contributi.


13.09.2019: Mi è tornata in mente la mia prima autoradio installata sulla 500 di mia madre che aveva un prezioso opzional: un sedile ribaltabile (uno!). Era la Tanga della Voxson, la più piccola in commercio.

23 gennaio 2018

Alberto e Marco



Per Alberto e Marco
2 e 4 anni uccisi a Trento
marzo 2017


Marco voleva fare il pittore
aveva una penna rossa
aveva uno sguardo altrove
una penna rossa
voleva disegnare il sole
quella palla che lo scaldava
quella penna che lo tentava

Alberto era un piccolo vigile
fischiava tutto il tempo
correva e fischiava
col suo caschetto bianco
col suo caschetto largo
inseguiva auto invisibili
rincorreva sogni percorribili.

Marco disegnava Alberto
Alberto fischiava Marco
insieme correvano la vita
insieme corrono il cielo.

Tenetevi per mano
tenetevi abbracciati
qualcuno spiegherà il perché
tenetevi stretti tenetevi saldi
qualcuno ci dirà perché.

Vi pensiamo sempre così
Marco che disegna nuvole
Alberto che fischia agli angeli
Qualcuno ci mostrerà il perché.

19 gennaio 2018

Passeggiando per il paese che non c'è più (4)

Quanti posti strani ed assurdi avevamo noi ragazzini per giocare a pallone. Dopo il borgo c’erano le Fontanelle, prima che ci piantassero il monumento. Il famoso Triangolo. Dove una squadra aveva gli esterni con 30 metri a disposizione per crossare e l’altra un imbuto di un paio di metri. Dove i pali erano i libri di scuola con la cinta a molla o i giubbotti sui “chianconi”. Dove le traverse erano “a occhio”. Dove le “scarpe nere e lucide di vernice per uscire” si aprivano a bocca di coccodrillo. Dove i palloni finivano: a) Sotto i cantieri delle barche; b) Nella Villa Comunale; c) Dietro il filo spinato che delimitava la banchina che allora non avevano ancora sistemato. Altro luogo deputato era lo spazio in fondo a Via Europa Libera prima che ci costruissero la scuola e dove venivano anche posizionate le giostre. Grande vantaggio per la squadra che aveva il vento a favore e palloni in mare a sazietà. C’erano dei campi con delle porte alla Cava Medico, liberi solo all’alba, e, in quel frangente, si poteva scegliere se tornare a casa e sporcare il pavimento di bianco (cava di pietra) o di rosso (cava d’argilla terrosa): comunque le mamme non scoppiavano certo di felicità. Lasciando il Municipio si entrava in un Paese Vecchio allora terra di nessuno. In Piazza Garibaldi la Biblioteca governata dal sig. Sante Moretti ci ospitava per le ricerche, ed era l’unico luogo dove (forse) riuscivamo a far silenzio. In Piazza Palmieri ebbe sede il CTG altro luogo di eccezionale condivisione. Scuola e associazionismo si fondevano a volte e diventavano una cosa sola. Nel senso che gli amici del CTG, pur frequentando scuole diverse, spesso erano, tutti nella stessa classe del Liceo avendo scavalcato la finestra a piano terra della Galilei. UNO valeva UNO, già allora. La condivisione valeva anche per le auto: ognuno di noi non appena conquistato un foglio rosa, rubava sistematicamente la macchina dei genitori mettendola a disposizione della Comunità: i genitori nutrivano qualche perplessità sul fatto che la macchina potesse consumare benzina da ferma e saltasse da sola da un parcheggio all’altro, durante il giorno. Riemergendo dal paese vecchio dalla strada della Cattedrale c’era la gioielleria Todaro, in largo Vescovado. Nell’ex convento di S.Martino avevano sede diverse associazioni tra cui il Movimento Studentesco e l’Arci. L’attuale parroco della Cattedrale don Peppino Cito era uno dei méntori. Su piazza Monsignore il famoso Lampo che aveva il doppio significato di velocità e di sistemazione di cerniere e affini e che dava i “pesciolini” di liquirizia come resto.





Su Via Milazzo un altro punto sensibile: il meccanico delle moto Tonino Amodio (grasso, olio motore). Per un quattordicenne conquistare il motorino dai genitori a quei tempi era molto complicato. Infatti io ci riuscii a 16 anni quando spezzai il cuore di zio Peppino con lamenti e lacrime da perseguitato politico. Allora c’erano due scuole di pensiero contrapposte: i 2 tempi contro i 4 tempi. Da intendersi come oscillazioni del cilindro. Nella fattispecie i Fantic Motor Caballero contro tutti gli altri, anche il Corsarino Zeta Zeta della Moto Morini che fu la mia scelta. Ok non c’era storia. I Caballero erano delle schegge, Ma c’era un difetto: ti bruciavi facilmente alla marmitta, specie come passeggero. E se dovevi portare la ragazza….era più comodo lo Zeta Zeta, capisci a me…Quante ne ha vissute quel primo motore! Volevo imitare le moto da cross e facevo lo sterrato: incredibile. Avrò rifatto le valvole una ventina di volte. La forcella voleva staccarsi da sola e andare allo scasso per disperazione. Una volta siamo andati in 4 ed io ero seduto sul tachimetro, come da Codice della Strada. L’Istituto delle suore di San Giuseppe non fu solo la mia scuola elementare, ma era anche la sede dell’Istituto Magistrale parificato. Non so se Battiato passasse di qua, ma le “serenate nell’ora di ginnastica o di religione” si svolgevano regolarmente, nonostante le suore vestite da cerberi, vigilassero sulle virtù insidiate delle studentesse. Ho già detto che la scuola media che ho frequentato fu la G.Galilei. Una menzione particolare per l’insegnante che molto più di tanti altri ha destato in me l’interesse per la scrittura e la composizione creativa: il prof. Rosario Biscardi. Ricordo quella sua voce che partiva da un sussurro e raggiungeva picchi baritonali quando si infervorava. L’originalità del suo metodo ne fecero un pioniere per quei tempi in cui la scuola ancora si stiracchiava dalle pieghe di un immobilismo post bellico. Il mio cammino si ferma a Lido Bianco (trionfo degli aromi dei frutti del nostro mare) dove per tanti anni hanno insegnato arte culinaria prima Gino e poi Nardino.
Ecco, riprendendo fiato, mi fermo con la mente appagata per aver rivissuto emozioni che hanno un volto, cavalcano un sorriso, stringono la gola col rimpianto. I luoghi, le persone e le vicende che ho ricordato non sono che una piccola parte di una memoria che dovrebbe divenire condivisa e arricchita da tutte quelle esperienze individuali che, sommate, fanno la piccola e la grande Storia di una città. Una città senza questo patrimonio rimane una città, ma non può aspirare a divenire civiltà

Passeggiando per il paese che non c'è più (3)

Ritorniamo in Piazza Plebiscito passando davanti a Filemo il tabaccaio. Di fronte c’era la Olivetti di Italo Genchi, dove lavorava mamma e la sede del PCI, mentre l’MSI era in via Barnaba e la DC in via Polignani. Quanti cortei avremmo fatto passando e cantando slogan davanti alle sedi dei partiti dove dentro giocavano tranquillamente a carte, mentre noi facevamo i rivoluzionari. Ma ci piaceva esserci, bei tempi. Su via Vasco un altro storico ritrovo: il Bar Di Bello di Peppino, ex Marina Militare, e altro amicone di babbo. Più in fondo la sede del circolo dell’AC Monopoli, dove ho trascorso centinaia di serate giocando a ping pong e a flipper, facendo incavolare il Sergente (il custode, sig. Dino Maccuro graduato dell’Areonautica). Sotto la Villa Comunale c’era il rimpiantissimo cinema Arena (patatine Pai, stecche di liquirizia e Coca Cola nelle bottiglie di vetro). La caratteristica principale di questo ritrovo era la quantità di posti riservati ai portoghesi che si assiepavano sulla muraglia, specie quando venivano proiettati i film vietati. La direzione del locale aveva predisposto dei lenzuoli che nascondevano parte dello schermo (e delle intimità delle attrici), ma con scarsi risultati: l’immaginazione, in quell’epoca, era al potere. Sotto quella muraglia il Bar Piccolo offriva il servizio SIP di telefono pubblico; il locale era sempre affollato, specie nelle ore di tariffa ridotta. Se volevi parlare con la fidanzata/o senza patemi, era ideale. A questo proposito ricordo ancora a memoria quando i numeri di telefono in città partirono da due cifre e poi diventarono di sei: 742468 era il numero di casa, 742569 l’ufficio di mamma, 742693 lo studio di babbo e 742540 casa di zio ecc. Ma la mia prima fidanzata, dopo qualche anno, era già 801030. Scendendo da Piazza Plebiscito arriviamo al Caffè Napoli gestito da un signore di altri tempi che chiamavano con il nobile prefisso Don (Pietro Genualdo). Anche questo era un locale frequentato da babbo per ovvie ragioni. Io ricordo ancora le colazioni di cappuccino con le trecce che erano strette e lunghe, ma si impregnavano in modo spettacolare.

Ora il Municipio, sul quale mi soffermerò qualche rigo. Mi avevano detto che babbo era Sindaco ed era come se mi avessero detto che era il Padrone del Castello, dove il Castello, appunto, era il Municipio. Era diventato un luogo dalle mille avventure per me. Girovagavo in tutte le stanze e gli uffici, salivo e scendevo le scale, mi nascondevo dietro i banchi e le tende, immaginando chissà quali tenzoni e suscitando l’ilarità dei dipendenti. Mi autonominai Primo Usciere dell’ufficio di babbo e stazionavo fuori annunciando le visite. Mi mancava la marsina, la parrucca e il battaglio e potevo stare alla Corte del Re Sole. Lula, la segretaria di babbo, mi allungava le caramelle. E quegli odori penetranti di carta da archivio non li dimenticherò mai. Terreno di conquista divenne anche la stanza del telefono che si trovava a piano terra, a destra dell’ingresso principale. Il caro Mimì Colavitti con tanta pazienza mi insegnò ad usare il centralino e io schiacciavo quelle lucette e rispondevo “Il Comune, momento!” (Momento, perché mettevo in attesa le chiamate per smistare quelle precedenti). Il grande cuore di Mimì, uno dei pochi veri grandi amici di babbo. Poi c’erano i Vigili Urbani e qui devo per forza ricordare gli inseguimenti che si svolgevano al borgo quando giocavamo a pallone. Celestino e Furlani (detto coccolungo, con rispetto parlando): delle vere e proprie istituzioni, con le loro biciclette nere. Quando qualche Super Tele o Super Santos o Yashin (ahia quello costava un botto…) riuscivano a sequestrarcelo, io rassicuravo i miei amici: “Nessun problema”. Avevo scoperto dove tenevano i palloni sequestrati, in un armadietto a muro appena si entrava nell’Ufficio all’interno del cortile del Municipio. Fischiettando con nonchalance, fingendo curiosità per le moto rosse parcheggiate, attendevo il momento propizio e…zac! mi riprendevo il pallone, magari scambiando un Super Tele con uno Yashin!!! Momenti epici. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (2)

Proseguendo verso il centro, l’incrocio per la Cementeria era una zona trafficata da mezzi pesanti in piena attività. La strada non asfaltata per il molo Tramontana non aveva ostacoli di sorta tranne le famose “Caldaie”, luogo ameno che, dopo il crepuscolo, diveniva sede per dei test sugli ammortizzatori delle auto. Sul molo, allora accessibile, avevamo organizzato le nostre mini-Olimpiadi di atletica. La banchina si prestava in modo eccezionale perché c’erano le misure tracciate sui blocchi frangiflutti: 100m, 200m ecc. L’asfalto non era regolarissimo e, ogni tanto ci stava qualche caduta con annesse screpolature: l’importante era evitare di finire in mare. Gareggiare accompagnati dal penetrante odore di alghe e aria salmastra era impagabile. Percorrendo via Sforza verso il borgo ci si poteva imbattere nella musica proveniente dallo scantinato dove ebbe sede Radio Dyria. Che periodo stupendo quello delle proliferazioni delle radio c.d. libere. C’erano schieramenti ideologici (di destra Dyria, di sinistra Radio Antenna Monopoli, cattolica Radio S.Francesco); c’era tanta creatività e genuina volontà di “essere nella città”. Verso la fine degli anni 70 ricordo la trasmissione che realizzavamo su RAM con Antonio Pirrelli, Marco Napoletano e Fausto Avezzano Comes: si chiamava “Musica e Satira” con sigla iniziale “In Fila Per Tre di Edoardo Bennato. Ricalcava “Alto gradimento” di Arbore e Boncompagni, con riferimenti alle vicende locali. Un appetitoso aroma ci ricorda la presenza de “La Rete” la storica pizzeria a tre isolati dal borgo. Poi un altro luogo “cult” per chi amava la musica: il negozio di elettrodomestici e di dischi Bellantuono, dove ora si trova “Orchidee”. Era una frequentazione fissa dove si scoprivano ed ascoltavano tutte le ultime novità di ogni genere musicale, nel mitico vinile. Ricordo che a casa avevo un Lesaphone Perla (fonovaligia) giradischi con gli altoparlanti che si staccavano. Babbo lo aveva preso per ascoltare la Divina Commedia recitata da Gassman, ma che io ho immediatamente riconvertito alla Discomusic. Quante decine e decine di feste in casa ha allietato quel Lesa! Quanti lenti ballati stretti stretti con pausa per andare a cambiare il disco. C’erano poi le prime discoteche: il New Harlem di Francesco Colamarino (Foto Franco) in via Valente con i pionieri dei DJ Carlo Pelle e Maurizio Rossi. E poi il Seven Up dietro la chiesa del Sacro Cuore. E Le Fragole in via Mazzini.

Ed ecco la nostra amata piazza, il borgo, sempre al centro di eventi straordinari, all’epoca il punto di ritrovo per antonomasia: “Ci vediamo al borgo”. E non ci si perdeva mai. Un’agorà da percorrere rigorosamente dall’alto verso il basso, con divisioni per fasce d’età nelle varie carreggiate, virtualmente tracciate dalla consuetudine. Il borgo con la sua aiuola centrale, con la ringhiera a semicirconferenza che consentiva di sedercisi sopra, salvo poi rimanere anchilosati al momento di rialzarsi. Il borgo con i suoi bar intorno a cicaleggiare, con i suoi negozi, il salotto buono e la “posteggia” alle ragazze che puntualmente svanivano, tante Cenerentola, dopo le ore 20. La Casa Del Caffè di Salvatore poi il fioraio Di Palma, i primi odori che ci accoglievano. Poi, il Cinema Vadalà che la Storia ricorda per aver generato la più pregnante manifestazione di critica artistica che si possa immaginare: “Avuchè i sold n’dret!!!!”, dove il primo vocabolo era il titolo professionale del proprietario l’avvocato Vadalà e il resto una regolare richiesta di recesso per insoddisfatta esegesi dello spettacolo al quale si era assistito. L’ultimo locale dell’isolato era un'attrattiva speciale per tutti i bambini: il negozio di spezie, ma soprattutto di caramelle di Guida. Appena entravi eri investito da un dolce bombardamento di zucchero che tracimava da grandi vasi di vetro, dove allegramente roteavano pallottoline dei colori più svariati: irresistibili. Dietro l’angolo il tabaccaio Priatorie (bubble-gum) famoso per le macchine della Politoys con le quali integravo i paesaggi costruiti con i Lego ed anche il plastico dei trenini della Lima. Sul successivo isolato ricordo la lavanderia Genualdo (profumo di amido), la gioielleria Salerno, e il Circolo dei Cacciatori (odore di cartucce) dove si fermava mio zio Peppino, campione extraterrestre di tressette. Continuando il giro si incontrava il fotografo Selicato e man mano che si scendeva cominciava ad aleggiare il fragrante richiamo del pane fresco dei F.lli Meo (Miod). Il negozio storico di materiale elettrico dei Pisani chiudeva il lato sud della piazza. Circa alla metà del successivo isolato un altro odore particolare: la carta stampata della libreria Alò. Un altro luogo di culto per me insieme alle altre librerie: quella di Maria Girolami di fronte a San Vincenzo, la Bregante in via Polignani e la Tre G dietro il Bar Smeraldo. Entravo e mi perdevo, a seconda dell’età, visionando opere di generi diversi: prima i libri di Salgari, poi l’astronomia e la fantascienza, gli UFO e gli altri misteri, infine la politica, i saggi e i pamphlet. Rimanevo ore a esaminare i vari titoli dimenticando anche di mangiare, a volte. Alla fine dell’isolato, ad angolo con Piazza Plebiscito, (effluvi di lozioni e dopobarba) c’era Luca Di Bello il mio primo barbiere. (Forse se la giocava con Gino Medico del Diurno in via Garibaldi, che frequentava babbo). L’isolato successivo era quello del Settimo Cielo, con il ristorante all’attico, e lì forse gli aromi li percepivano anche gli aerei. Prima che fosse costruito il grattacielo c’era la casa dove sono nato, al secondo piano. Dopo il tabacchino Giovè, si trovava il primo negozio Eleganza del sig. Quindici, profumeria che stuzzicava le narici coi profumi più sciccosi. Proseguendo il giro, il glorioso Caffè Rudy (Rodolfo Todisco amico di babbo) accoglieva la borghesia cittadina, la quale, dopo aver consumato il caffè, passava davanti alle biciclette di Intano (mastice e gomma) e comprava la Gazzetta dall’edicola di Laura Sardella (odore di fresca stampa tipografica). Grande Laura! Quanti Topolini mi hai regalato, strappandomi la copertina: i giornalini di Walt Disney, un’altra mia passione. Dove ora c’è il negozio Vittorio Emanuele c’erano le Autolinee Alò Alfredo e i pullman parcheggiavano dietro l’angolo con il loro caratteristico odore di pneumatico consumato. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (1)

Quando non siamo sovraccarichi di pensieri e incombenze quotidiane, rilassati, percorriamo a piedi le strade cittadine, può succedere che qualcosa ci richiami alla memoria immagini e vicende del passato. E’ singolare che, dei cinque sensi in nostra dotazione, l’olfatto sia quello capace di penetrare più nel profondo del nostro archivio in disuso, di sollevare polvere, altrimenti permanente, a celare volti, emozioni, turbamenti. Quella che mi accingo a raccontare è una “road story” percorsa in un paese che non c’è più, ma i cui ruderi emergono con forza trascinati alla superficie da odori e aromi che scuotono gli altri sensi, rincorrendoli e coinvolgendoli. I sensi di un bambino hanno grandi ali che trasportano in luoghi immaginari, ma tutto quello che immagazziniamo da piccoli non lo perdiamo se ci abbiamo sognato sopra. I luoghi citati non sono sincronizzati nel tempo, ma si dispiegano con armonia nel decennio di cui si tratta.
La Monopoli a cavallo degli anni 60/70 era una placida cittadina con velleità da “grandeur”, ma che in fondo si beava della sua immobilità socio-culturale. Io, poco più che bambino, terminavo la scuola elementare all’Istituto San Giuseppe e iniziavo la Scuola Media Galilei. Mi recavo spesso a casa dei miei zii in via Bixio 248, visto che mamma lavorava e mia zia, maestra, mi faceva doposcuola. Da qui con lei uscivamo nelle belle giornate e facevamo tappa al Bar Veneto dell’ineffabile Romano. Venivamo avvolti subito da effluvi di pasticceria e chicchi tostati. La mia scelta preferita era però rivolta verso la granita di caffè e panna: una delizia che non mi stancava mai. La consumavo seduto su una panchina nella Villa S.Antonio. Lascio nei ricordi la mano di zia Wanda e esco dalla villa verso via Rimembranze. Dove ora c’è il Conservatorio, c’era l’elettrauto Carparelli. Continuando ad esplorare i dintorni mi sovviene il Bar Commercio, dove ora c’è Pantera Rosa, che emanava cornetteria fino al balcone del quinto piano dove ho abitato fino al ’68, in Corso Umberto 41. In via Magenta c’era il Ristorante Pasqualino. In via Bixio ad angolo con corso Umberto sorgeva il primo supermercato Gamma, che divenne poi Standa. Poi il cinema Radar e l’Hotel Savoia. Del cinema impossibile dimenticare la maschera Spinelli a cui facevamo tanti scherzi da prete (tipo dividerci in più posti sparsi nella sala e provocare rumori vari, così lui correva da una parte all’altra con un frenetico agitare di torcia) e il soffitto che si scoperchiava (manco l’Allianz Arena) e che faceva penetrare aria fresca che scacciava fumo pervicacemente intrappolato. Verso la stazione scavallava quell’odore inconfondibile del catrame dei binari. C’era una biglietteria con esseri umani, allora. E un capostazione con la paletta. E degli operai in salopette e guanti. Ero affascinato dai treni e dal funzionamento degli scambi. Alla domanda cosa farai da grande rispondevo sicuro: “Il Manovale!!”. Reputavo di grande responsabilità saper attaccare e staccare i vagoni e governare la direzione da far prendere ai convogli. Una metafora della vita nella quale ci tocca dover decidere quale direzione prendere, cosa portarci dietro e cosa lasciare su binari morti. Oltrepassando Parco Bovio e imboccando via Del Drago (allora immaginavo che si chiamasse così per qualche mostro preistorico che avesse imperversato lì vicino) mi incuriosiva vedere dei vecchi binari che scendevano verso mare lungo una via che si chiamava allora, coerentemente, Strada Ferrata. Scoprii successivamente la storia del trenino ciuf ciuf che arrivava fino in Cementeria a cavallo fra le guerre, mirabilmente descritto da Giacomo Campanelli. Proseguendo lungo via del Drago si confluiva nuovamente in via Rimembranze che terminava in un terreno che ospitava un carrozziere, dove ora c’è la palazzina dell’Ufficio Postale. Scendendo da via Trieste ricordo solo campi e terreni incolti. L'attuale via Marina del Mondo era una strada non asfaltata ampia quanto la strettoia esistente dopo la Stazione di Servizio. Da qui, come oggi, si raggiungeva Lido Pantano, allora l’unico stabilimento balneare a pagamento in paese. Qui mentre il juke-box caricava i 45 giri “Una rotonda sul mare” e L’isola di Wight”, io imparavo a nuotare. Svoltando a destra si percorreva via Fiume e accanto al campo Veneziani non c’era ancora il Palazzetto dello Sport. Il mio sport da bambino era il minibasket. Il prof. Del Giglio ci allenava dove capitava che ci ospitassero. Ricordo allenamenti all’addiaccio alla palestra della scuola S.Antonio, oppure alla Galilei, se ci andava bene. Presi a cuore la questione del Palazzetto. Carta e penna, scrissi all’on. Moro che babbo mi aveva fatto conoscere. La somma che mancava alla sua realizzazione arrivò e Il Palazzetto venne eretto. Un mattoncino piccolo piccolo posso dire di averlo messo anch’io. (continua)