21 gennaio 2013

S. Pietro Martire: perchè non sarò mai neutrale.



Per qualche secondo chiudiamo gli occhi ed immaginiamo la Monopoli medievale. Siamo nel 1500 circa. Nel suo palazzo signorile incastonato al centro del paese, il magistrato Leo Arpona era soddisfatto. Erano arrivati i Veneziani e avevano portato con sé arte e cultura, catalizzando gli interessi delle menti elette della città. Arpona era contento perché, grazie alla sua posizione, aveva maturato delle conoscenze all’interno della leadership dei nuovi dominatori, che gli avevano consentito di arrivare a commissionare un dipinto nientemeno che a Giovanni Bellini, artista la cui fama aveva varcato i confini delle sue origini. Arpona aveva un sogno: la sua famiglia era devota ai domenicani e fin dalla sua infanzia gli avevano raccontato la storia avventurosa di Pietro Rosini, della sua vita integerrima, rigido custode della dottrina, e soprattutto della sua morte da martire. In qualche modo voleva legare indissolubilmente il suo nome a quella vicenda così ricca di epica e misticismo e insieme donare alla città e alla cristianità di Monopoli un segno indelebile del suo amore. Così colse l’occasione che gli si era presentata con l’arrivo dei Veneziani. L’artista raccolse l’invito e la splendida tela arrivò in città. Arpona scelse come destinazione naturale il convento dei frati domenicani, dove aveva già fatto erigere una cappella al Santo. Purtroppo il convento era fuori dalle mura e ciò costituiva fonte di apprensione per il magistrato, considerati i tempi mai stati tranquilli per l’avvicendarsi in quel tempo di tante vicende belliche con dominatori più o meno barbari di usanze e di costumi. Ma tant’è, il quadro fece bella mostra di sé nella cappella di famiglia. Quando Arpona morì, nel suo testamento citò la provenienza del quadro e “fu sepolto con l’abito domenicano all’interno della cappella” sotto lo sguardo amorevole del “suo” Santo (Cfr. G. Bellifemine La Basilica di S. Maria Amalfitana p. 70). Questo fu il primo atto d’amore che dette inizio alla vicenda che arriva fino ai giorni nostri. Il secondo fu la ricostruzione della cappella (distrutto il convento da Andrea Gritti, comandante della guarnigione veneta, perchè non potesse essere utilizzato dalle truppe del marchese del Vasto) con l’icona del Santo, nella nuova Chiesa di San Domenico ad opera dei frati, aiutati dai fondi stanziati da alcune famiglie nobili monopolitane, tra cui gli Indelli, imparentatisi con gli Arpona. E poi via via a cavallo dei secoli con tutte le vicende già narrate, legate alla spoliazione imposta arbitrariamente dai gerarchi fascisti baresi, ostacolata fino all’ultimo da chi, erede dell’amore di Leo Arpona, continuava a difendere la monopolitanità dell’opera. E’ questo il motivo per cui chi è monopolitano non può rimanere né insensibile né “neutrale” di fronte a questa storia. L’arte, il mecenatismo, le proprie radici, la devozione, il martirio, la santità, sono categorie che appartengono alla sfera dei sentimenti e della fede non a quella delle competenze amministrative e burocratiche. L’obiezione tecnica che si solleva è che l’estrema fragilità del dipinto impone la sua custodia in ambienti asettici, privi di umidità e tenuti costantemente sotto controllo. Probabilmente la nostra città è considerata arretrata da questo punto di vista e, a questo punto, se effettivamente un sito del genere non esiste sul territorio comunale, è arrivato il momento di attrezzarsi. Confidiamo che la prossima Amministrazione, ultima erede di quell’atto d’amore iniziato nel 1500, si faccia carico, magari in concorso con le autorità ecclesiastiche, che gestiscono l’attuale Museo Diocesano, di un progetto di allestimento di una degna sede per il dipinto che possa così ritornare, legittimamente, dove Arpona volle che fosse conservato.

18 gennaio 2013

Moby Dick


Alla radio un vecchio brano del Banco Di Mutuo Soccorso: Moby Dick.
Come d'incanto quel connubio straordinario di parole e musica mi ha trasportato sul mare frastagliato e tumultuoso, teatro delle vicende narrate da Melville...
Ho pensato alle balene ed al loro strano mondo fatto di solitudine nel branco, di apparente beatitudine nella loro maestosità, di istinti di solidarietà, di slanci di passione ed altruismo.
Le balene hanno un cuore grande non solo fisicamente.
Loro hanno un Tom Tom integrato che consente loro di sapere dove si trovano in qualsiasi parte del globo.
Ciò non esclude che siano dotate di una fantasia che li proietti da qualsiasi parte loro vogliano essere.
Sono perseguitate nella loro vita da parassiti che si attaccano alla loro pelle.
Ma loro sopportano stoicamente come fosse un destino ineludibile.
E poi Moby Dick...
Il suo mantello bianco. Sempre in lotta con il suo cacciatore. Ancora più sola nella sua inebriante bellezza. Moby Dick che ha scoperto una ragione di vita nell'essere cercata, nell'essere preda ambita e agognata. Moby Dick la balena bianca, lo splendido angelo che vive nel desiderio di coloro che hanno una vita che pesa come una condanna, ma una mente leggera come una brezza. Lei potrebbe fuggire, solo lo volesse, ma non lo fa.
Si offre preda incantevole alla bramosia della fiocina, si dona con orgoglio al piacere del tormento.
Si dice che quando spiaggia una balena accade perché ha perso l'orientamento.
Non è così.
Ha perso il desiderio del gioco, la voglia di innamorarsi della vita e dei suoi tornanti ubriacanti.
E’ stata colpita al cuore ed è morta di inerzia.

15 gennaio 2013

Ripetitori


Incredibile!. Non credevo a quello che stavo leggendo quando ho appreso della possibile edificazione di altri TRE ripetitori sul nostro già tormentato territorio. Orrore. Immagino questi nuovi ammassi di ferraglia minacciare la Chiesa e la scuola di Antonelli, o tumefare il bosco di Carluccio o la macchia di Tortorella. Monopoli, grazie al suo splendido connubio tra mare e colline, è stata vittima predestinata in passato di queste indecenti aggressioni. A nulla sono valse le sollevazioni popolari, le denunce, le interpellanze. Tutto inutile, tutto da archiviare. Ma attenzione il ragionamento non vale solo per Monopoli (per il proprio cortile come dicono gli anglosassoni...). Stesso discorso dovrebbe farsi per Polignano, Fasano o il paese di Vattelapesca. Dobbiamo smetterla di considerare la legittima aspirazione dei cittadini a non farsi prendere per i fondelli, come un fatto esclusivamente locale. I grandi temi ecologici vanno sollevati e dibattuti in modo globale. Perché si formi una catena solidale che scuota dal profondo questo nostro paese da decenni ormai in mano ad una classe politica prona e corrotta. Voglio dire, per esempio, che la pur auspicabile soluzione prospettata tempo fa di spostare tutti i ripetitori (di tutti i tipi) sul monte S. Nicola, è una soluzione minimalista, che risolve il problema fino e non oltre alla zona di caduta del segnale più forte che sia stato scatenato sul territorio. Invece, a mio modo di vedere, va rivisto dalle fondamenta l’approccio generale di tipo culturale all’argomento. Si deve capire che la terra, come l’acqua e come l’aria non sono dimensioni infinite, ma interagiscono e si compenetrano in un ecosistema che madre Natura ci ha donato con specifici confini e limiti. In sostanza la domanda che ci dobbiamo porre è: perché la concorrenza tra operatori telefonici o tra network televisivi o quant’altro si deve giocare sul terreno del “chi ha il segnale più forte e chiaro, che arriva più lontano, vince”? La concorrenza deve spostarsi sul terreno della qualità, cioè il segnale deve essere uguale per tutti, concentrando i ripetitori in siti disabitati senza devastare l'equilibrio florovivaistico e consentendo su un unico manufatto l’accesso e la disponibilità a chi ne ha i titoli. Non facciamo emergere questioni "tecniche" difficili da risolvere! Cominciamo ad investire nella salute degli utenti e non solo sull'audience pubblicitario! Ora il "campo" c'è ed è nella presa di coscienza dei cittadini! Inoltre le amministrazioni locali devono ottenere maggiori poteri di controllo e coordinamento ed essere autorizzate a esigere dei canoni di servizio per lo sfruttamento del territorio messo a disposizione. La concorrenza così sarà incentrata sui servizi offerti, sulle tariffe, sulla trasparenza dei costi, e non sulla potenza del segnale.
Leggo anche che l'assessore Rotondo, sfiduciato dalla sostanziale impotenza del Comune ad ostacolare queste installazioni, si tira indietro, «perché non butto dalla finestra i soldi dei cittadini». Grande. I soldi dei cittadini infatti vanno buttati in tutt'altre faccende quali gestioni demenziali della raccolta rifiuti e differenziata, svendite del patrimonio comunale, ripavimentazioni infinite dell'anello del Borgo ecc. ecc. Non chiediamo di incaricare Longo e Ghedini con le loro parcelle milionarie a nostra tutela, ma di far valere i nostri diritti in ogni luogo e circostanza utile e non solo in Tribunale.
Questa è una tra le tante battaglie di civiltà a cui sarà chiamata la prossima classe politica nazionale e locale. Speriamo la accolga con forza propulsiva e gioiosa determinazione.

12 gennaio 2013

S.Pietro Martire: il dipinto conteso



Ripropongo in questo post un articolo di Remigio Ferretti riguardante la storia del famoso dipinto conteso che contiene numerosi spunti e aneddoti storici, corredato da alcune mie note.

TUTTA LA STORIA DEL GIAMBELLINO IL GRANDE ESULE

Del S. Pietro Martire, il famoso dipinto del Giambellino(1) che, dal XVI secolo ad oggi, ha costituito e costituisce, per Monopoli, motivo di orgoglio, amarezza e nostalgia, hanno scritto, molti decenni fa, uomini di valore e competenza(2). Essi ne hanno ricordato le vicende, studiato ed illustrato i pregi pittorici, alla luce dell'arte rinascimentale e dell’intera opera dell'illustre pittore veneto. Sicché, specie per quest'ultimo aspetto, poco o nulla potrebbe aggiungersi a quanto sostenuto e pubblicato da tali benemeriti studiosi.
Può essere comunque, in particolare per i giovani, nuovo e per certi versi stimolante, rifare la storia del Giambellino e del periodo che va dal 1913 al 1933, approfondendone i risvolti politico-ammininistrativi, con brevi connotazioni d'ambiente e di colore ed anche gli echi, i ricordi e i rimpianti del periodo successivo, ancor oggi non del tutto spenti.
L’”avventura” di questo quadro(3), di valore inestimabile, si snoda attraverso gli ultimi due lustri della democrazia prefascista, il ventennio fascista e l’era repubblicana: quasi settant'anni di storia della città e delle classi dirigenti che, espressione dei diversi climi politici, mentalità e costumi, vi hanno governato ed operato: puntuale punto di riferimento, tra i primi piani e dissolvenze, il nostro Giambellino.
Siamo nei primi mesi del 1913. Nel firmamento politico italiano, non privo di nubi, l’astro maggiore è Giolitti(4), con la sua luce e i suoi maligni influssi. La guerra libica si è da poco conclusa e, come dopo tutte le guerre, urge l'esigenza di una “ripresa”; per favorirla, si tenta di “mettere ordine” nei vari settori della vita del Paese, anche in quello dei “beni culturali”.
Piomba infatti in terra di Bari un inviato del Ministero della Pubblica Istruzione, Capo-Sezione presso la Direzione generale per i Monumenti, Antichità e Belle Arti, il dott. Attilio Rossi(5), funzionario accorto e zelante. Egli ha un preciso compito: prendere visione del patrimonio artistico delle diverse città, constatarne le condizioni e agire in conseguenza, ai fini della sua tutela e conservazione.
Giunge a Monopoli, verosimilmente già informato della esistenza, nella cinquecentesca Chiesa di S. Domenico(6), del capolavoro belliniano, vi si reca e, alla sua vista, si mostra stupito e ammirato, poi scandalizzato e dolente per lo stato deplorevole del dipinto.
Era sindaco di Monopoli il dott. Giuseppe Pugliese (1875-1953), uomo integerrimo e medico valente, riservato ed austero, anche se a volte non privo di humour. Già capo della Civica Amministrazione per breve tempo (nel 1910) era, di estrazione e convinzione, liberale, espressione di quella “borghesia illuminata” che si considerava erede della migliore tradizione risorgimentale.
Il Rossi informa le autorità locali dell'esito della sua ricognizione e della inevitabile decisione di proporre al Ministero il trasferimento del quadro a Roma per il suo necessario ed urgente restauro, a mente dell'art. 4 della legge 20.6.1909, n. 364.
Comincia così uno spietato braccio di ferro tra il comune di Monopoli e l’Autorità centrale: chi è in realtà questo dott. Rossi? Come mai si presenta senza preavviso e senza credenziali? E’ legalmente abilitato ad operare una vera e propria “spoliazione” ai danni della città? Per ottenere precise risposte a tali interrogativi, l'Amministrazione interpella le superiori Autorità: le risposte non lasciano adito a dubbi: il dott. Rossi è designato a pieno titolo dal Ministero competente a compiere la ricognizione delle opere d’arte in terra di Bari!
Gli effetti della visita del Rossi non si fanno molto attendere: il 24 maggio del 1913, il Ministero, con telegramma, invita il comune di Monopoli, in forza della Legge già citata, a spedire senza indugio a Roma il Giambellino, per l’indispensabile restauro.
Nel silenzio delle Autorità locali, il 13 giugno (appena venti giorni dopo), torna tra noi il dott. Rossi: porta questa data il verbale di consegna del dipinto, stilato nella Chiesa di S. Domenico e firmato dal rappresentante del Ministero, dal Sovrintendente di Puglia dott. Cremona e dal vice-sindaco f.f. Pietro Giudice, maggiore in congedo (sintomatica l'assenza del sindaco Pugliese). Nel documento si sottolinea il preciso impegno del Ministero alla restituzione della tela al Comune di Monopoli, appena ultimato il restauro, nonché all'assunzione delle spese. Mentre si svolge il triste protocollo, lungo la via S. Domenico sostano gruppi di cittadini, che vivacemente protestano contro la decisione romana; non è difficile intravedere, anche a tal riguardo, la “regia” dell'Autorità comunale, non priva di ingenuità e forzature, ma comunque ammirevole, che spesso si giovò, nell’appassionata difesa del dipinto, di un argomento ad “effetto”: lo spauracchio di disordini e la necessità di garantire l'ordine pubblico. Altri motivi addotti a sostegno della generosa battaglia erano di natura giuridica (il dipinto, affidato in custodia alla Congrega di S. Cataldo, era di “esclusiva proprietà” del comune, in virtù del D.L. 7.7.1866, n. 3036, relativo alla soppressione degli Enti ecclesiastici) altri, di fatto (si negava che la tela fosse gravemente compromessa “ad opera dei tarli”, tanto da causare “il distacco delle vernici”) tutti, per la verità non molto solidi. In realtà, l'Amministrazione comunale non si fidava dell'Autorità centrale, certo non a torto!
Il S. Pietro Martire, molto probabilmente affidato al Comando dei Carabinieri, non parte subito per la capitale, certo per le pressioni, i temporeggiamenti, i cavilli cui abilmente ricorre il sindaco: si eccepisce, tra l'altro, la mancata emanazione e notifica di un regolare decreto del Ministero, che peraltro arriva il 24.6.1913, corredato dal parere del Consiglio superiore. Anche il Questore di Bari, Calabrese, sollecita, in pari data, la consegna del quadro. Ma questo rimane ancora presso la Caserma dei Carabinieri, nonostante una ennesima, perentoria diffida ad adempiere, del Ministero, in data 9.10.1913. Infatti, ancora il 29.11. dello stesso anno, il sindaco Pugliese, che non si rassegna, invia un lungo motivato esposto al locale comando della Benemerita, con invito…a rimettere al proprio sito, nella Chiesa di S. Domenico, il disputato dipinto.
Ma, verso la fine del 1913, il Giambellino raggiunge Roma.
Ebbene, incredibile a dirsi, già il 2.2.1914 il nuovo sindaco di Monopoli, Pietro Rotolo, interessa l'on. Luigi Capitanio(7), perché perori presso il Ministero la sua restituzione. Subentra la dolorosa parentesi della guerra 1915-18, ma subito dopo, le autorità comunali tornano a insistere per riottenere il dipinto. Particolarmente interessante e vivace, l'intervento, nel 1920, del Sindaco avv. Vadalà presso le autorità romane, peregrine le scuse addotte dal Ministero per giustificare la ritardata restituzione, di cui pur si ribadisce l'impegno: persino la non ancora ripristinata sicurezza dei trasporti per ferrovia! Sorprendente la proposta, con riservata del 19.7.1920, del Sovrintendente Carlo Calzecchi(8) al Sindaco della città: un cospicuo indennizzo dello Stato al Comune di Monopoli, in cambio del S. Pietro Martire.
Ma il quadro, che, assai ben restaurato, faceva bella mostra di sé a Palazzo Venezia, nella Sala dei Parametri, incantando critici, artisti, amatori e turisti di tutte le città e nazioni, resta ancora, “grande esule”, in Roma. E ciò, nonostante si levino molte voci, anche autorevoli, ad invocare il suo ritorno in patria, tra le altre, quella dell'ispettore onorario alle Belle Arti, cittadino battagliero e buon pittore, Vincenzo Brigida, e l'indimenticabile Armando Perotti(9).
1922: avvento del Fascismo. Al Sindaco Ignazzi subentra, ancora una volta, il dott. Pugliese, che riprende, imperterrito, dopo circa un decennio, la strenua lotta per la riconquista del Giambellino. E gli arride, questa volta, la vittoria: il prefetto Gasperini, il 24.12.1925, gli annunzia che la penata restituzione è stata autorizzata. Val la pena di osservare che il fascismo adottava, sin da allora, il metodo del “bastone e della carota”: dopo il delitto Matteotti(10)(e il resto), parve forse opportuno restituire ad un comune del sud quanto era stato maltolto dalla “fiacca ed imbelle democrazia parlamentare”. Comunque il sindaco Pugliese l'aveva spuntata e con lui l'intera città. Il S. Pietro Martire è sistemato sul palazzo comunale, nella Sala che sarà poi chiamata “Perricci”.
Ma, purtroppo, per lo stupendo dipinto non è ancora finita! Ormai non è più tempo di sindaci, ma di podestà. E' nominato podestà di Monopoli un giovane avvocato, colto e intelligente: Giuseppe Maggi. Ma, in tempo di dittatura, anche gli uomini dotati e capaci possono poco.
Consolidato il regime, la “carota” torna ad essere un volgare vegetale; arriva dall'alto un invito, (in realtà un ordine): i Comuni debbono cedere le loro opere d'arte più insigni per costituire, in Bari, una Pinacoteca provinciale. La vocazione autoritaria del "nuovo corso" si sposa con quella antica del Capogruppo ad accentrare, a monopolizzare, a strafare. Con delibera dell'8.8.1929, il S. Pietro Martire viene "dato in custodia" all'Amministrazione Provinciale di Bari.
La grande fiammata giambelliniana, che pare si spenga, pure, qualche anno dopo, dà ancora timidi guizzi: nel 1933 un prefetto coraggioso, infastidito per le beghe dei gerarchi monopolitani, nomina Commissario straordinario al Comune l'avv. Giacomo Caracciolo. Uomo di destra, onesto, pignolo ed attivo, estraneo alle cricche dei politicanti locali, è inviso ai "capi" fascisti e da essi, con ogni mezzo, osteggiato. Ebbene, molti pensano che egli sia l'uomo adatto a "strappare" a Bari il tormentato dipinto; c'è infatti, agli atti, una petizione di cittadini che, informati, speranzosi, pressati, a tal fine si rivolgono a lui: primo firmatario, il sig. Giovanni Iaia. Ma la cosa non ha seguito, ché i fascisti, dopo circa un anno, riescono a liberarsi dallo scomodo commissario Caracciolo.
Dopo, per quasi cinquant'anni, pavidità, disinteresse, silenzio; ancor oggi il Giambellino è "esule" in Bari e costituisce "la gemma più preziosa" della Pinacoteca (testuale espressione usata, qualche tempo fa, dalla sua direttrice, dott.ssa Belli-D'Elia(11)). Alle rare, più recenti sortite di alcuni tenaci innamorati del Giambellino, tendenti a riaverlo tra noi, si obbietta, e a ragione: Se vi fosse restituito, quale sede degna e sicura gli destinereste? Forse ancora la Sala Perricci, da tempo adibita alle riunioni del Consiglio comunale, che non proteggerebbe certo il capolavoro da gravi, forse irreparabili danni?
La prospettiva della creazione di una galleria d'arte antica e moderna nella nostra città è invero molto lontana: il Giambellino dunque resta ancora a Bari, in verità sorvegliato, tutelato, ammirato. Ma Monopoli, se e quando vi pensa, si sente umiliata, mutilata: il Giambellino non è stato soltanto una meravigliosa opera d'arte, ma un fatto ideale e culturale di speciale rilievo, una testimonianza di civico prestigio, un brandello vivo della sua storia.
Ed ora, una breve morale di questa che favola non è: tre classi politiche, tre generazioni la prefascista, denigrata spesso a torto, la fascista e l'attuale, maturata in tempo di democrazia repubblicana, si sono succedute, nel giro di circa settant'anni. Se si dovesse formulare per esse un giudizio di valore, la prima sarebbe promossa con lode, la seconda, respinta con biasimo e la nostra…rimandata ad altra sessione, perché impari ad amare Monopoli d'amor più forte!
Ci pare già di sentire certi corvi gracchiare: ma questo è provincialismo, è campanilismo! Ebbene, voi corvi, malati di falso cosmopolitismo, ricordate che Socrate, “cittadino del mondo”, fu figlio della sua amata Atene, ove nacque, visse, meditò e morì. E fu Atene, luminosa per storia, cultura, arte e scuole filosofiche che gli schiuse più vasti orizzonti del vero. In patria, si sa, i “profeti” non hanno fortuna e a Socrate non toccò sorte diversa, ma la sua città, proprio processandolo e condannandolo a morte, lo consacrò gloria e guida dell'intera umanità.

Pubblicato su “Puglia” del 25-26/5 e 4/6/1981 e “L’Informatore” del 25/7 e 26/9/1987.

(1) Giovanni Bellini (Venezia, 1433 circa – Venezia, 26 novembre 1516) pittore italiano, uno dei più celebri del Rinascimento, noto anche con il nome Giambellino.

(2) All’epoca di questo testo, sicuramente Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni, Firenze, 1968

(3) Il dipinto raffigura il Pietro da Verona al secolo Pietro Rosini (c.ca 1205 – 6 aprile 1252) santo patrono della sua città nel momento dell’assassinio a Seveso. Infatti, si racconta che il priore domenicano venne assassinato nella foresta di Barlassina con una roncola, mentre si recava a piedi da Como a Milano. Le agiografie riportano che intinse un dito nel proprio sangue e con esso scrisse per terra la parola "Credo”.

(4) Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Si concludeva indi quella che è stata poi definita dagli storici l'”età giolittiana”, un periodo di progresso economico, di rivoluzione industriale e di modernizzazione, di notevole rigoglio culturale e di mutamenti nella società e nel costume, che avvicinarono l'Italia al livello dei paesi più moderni e industrializzati; furono "gli anni in cui meglio si attuò l'idea di un governo liberale" (Croce, Storia d'Italia, p. 233).

(5) Attilio Rossi, (Castel Madama 1875-1966), fu dirigente presso la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti dove espletò importanti incarichi, quale direttore della Regia Calcografia e direttore di Villa d'Este; fu anche autore di articoli di carattere storico artistico e bibliofilo. Ha lasciato un fondo privato costituito dalla sua immensa biblioteca.

(6) La presenza dei frati domenicani, dell’ordine dei Predicatori, a Monopoli risale al 1270 ed è stata tra le prime in Puglia. I domenicani fondarono fuori le mura, nell’area di Cala Fontanelle, più precisamente in prossimità della Cripta di S. Giorgio, la Chiesa di Santa Maria Nova, omonima della chiesa dello stesso ordine di frati a Firenze. Dopo la distruzione della chiesa e convento di S. Maria Nova nelle guerre del 1528, il 10 aprile del 1532 i frati decisero di costruire il loro nuovo complesso all’interno dell’abitato a mezzo permuta dei loro terreni “extra moenia” vicino al complesso dei Minori Osservanti, con un terreno di don Pirro della Croce. Il quadro era stato commissionato dalla famiglia Indelli per essere posto nella Cappella di famiglia all’interno della chiesa.

(7) Luigi Capitanio (Monopoli, 15 dicembre 1863 – 20 agosto 1922) medico e politico, è stato deputato nelle file del Partito Liberale nella XXIV Legislatura del Regno d'Italia.

(8) Carlo Calzecchi Onesti (1886 – 1943) Soprintendente dal 1933 al 1939.

(9) Armando Perotti (Bari, 1865 – Cassano delle Murge, 1924) scrittore e poeta, studioso e giornalista, attento osservatore e conservatore delle realtà pugliesi e della cultura regionale fu un letterato di grande sensibilità e cultura.

(10) Giacomo Matteotti fu ucciso il 10/6/1924 dal mazziere fascista Giuseppe Viola durante il suo rapimento.

(11) Pina Belli D’Elia è stata direttrice della Pinacoteca provinciale, dal 1974 al 1988.

9 gennaio 2013

Beatificazione Aldo Moro

Parlare di Aldo Moro è per me un carezzevole deja vu. Bambino mi aggiravo curioso nei saloni gremiti di persone che salutavano il mio babbo e mi calavano una pacca sulla testa. Mi sorrideva e mi abbracciava anche quest’uomo altissimo e dalla voce suadente e pastosa. Nacque un feeling corredato da scambi epistolari. che mi accompagnò qualche anno. Percepii anch’io, nella normale sensibilità fanciullesca, quella grande umanità che lo contraddistingueva. Ora si propone la sua beatificazione. Non entro nel merito squisitamente destinato al vaglio delle coscienze di fede visto che la beatificazione vuole riconoscere formalmente l’ascensione di un’anima al Paradiso e la sua facoltà di intercedere in favore di individui in prece, comprendendo anche l’aspetto martirologico; mi interessa invece considerare l’attività politica di Aldo Moro alla luce di questa proposta. Mi è sembrato interessante quindi, in questa epoca in cui la politica sembra assumere connotati più “geometrici” (“scendere in campo”, ”salire in politica”) che ideali, cercare un confronto tra comportamenti diversi tenuti da Moro appunto e da altre due personalità in occasione di interventi pubblici. Non scandalizzi la scelta di Bettino Craxi, sicuramente agli antipodi per virtù morali, ma in fondo figlio del suo tempo in cui l’etica e la politica iniziavano a divergere irreparabilmente. Più contigua la scelta di Giorgio La Pira, anch’egli cattolico e già proclamato beato.


L’11 marzo 1977 (1 anno prima del suo rapimento) Aldo Moro pronunziò alla camera il famoso discorso sullo scandalo Lockeed, nel quale difendeva a titolo personale il compagno di partito Luigi Gui ex Ministro della Difesa, dalle accuse di aver percepito/favorito tangenti per l’acquisto degli aerei C-130, poi scagionato dalla corte Costituzionale, e soprattutto, difendeva a spada tratta il suo partito, la DC, dalle accuse di essere coacervo di malaffare. Ricordiamo, solo di sfuggita, che in quegli ”anni di piombo” la DC era considerata sul piano internazionale uno dei baluardi contro il comunismo e, sul palcoscenico nazionale il PCI di Berlinguer era in crescita esponenziale, quindi una difesa “ad oltranza” del suo partito era un atto quasi dovuto. Come poi le conclusioni della vicenda giudiziaria dimostrarono, lo scandalo Lockeed fu forse il primo episodio di corruzione a largo spettro che coinvolse la classe politica in modo trasversale.

… Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con un marchio di infamia in questa sorta di cattivo seguito di una campagna elettorale esasperata. Intorno al rifiuto dell'accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero. Non so quanti siano a perseguire un tale disegno politico, ma è questa, bisogna dirlo francamente, una prospettiva contraddittoria con una linea di collaborazione democratica. A chiunque voglia travolgere globalmente la nostra esperienza; a chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come sì è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l'appello all'opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita. Non accettiamo di essere considerati dei corrotti, perché non è vero….. Abbiamo certo commesso anche degli errori politici, ma le nostre grandi scelte sono state di libertà e di progresso ed hanno avuto un respiro storico, tanto che ad esse deve ricondursi chiunque voglia operare efficacemente nella realtà italiana. Certo un'opera trentennale, per la quale si realizza una grande trasformazione morale, sociale e politica, ha necessariamente delle scorie, determina contraccolpi, genera squilibri che debbono essere risanati, tenendo conto delle ragioni per le quali essi si sono verificati. Ecco perché al balzo in avanti innegabile di questi anni segue una crisi che deve essere diagnosticata con rigore e curata con coraggio. Ma essa non significa affatto che tutto fosse sbagliato, ma solo che vi sono stati eccessi ed errori, in qualche misura inevitabili, in questo processo storico…. Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell'opinione pubblica che, da più di tre decenni, trova nella democrazia cristiana la sua espressione e la sua difesa. Credo che essa non intenda rinunciare a questo modo di presenza, così come noi non pensiamo di rinunciare a questa forza, ai diritti che ne conseguono ed ai compiti che ci sono affidati. Si tratta di cose estremamente serie, ed è doveroso in questo momento riaffermare le ragioni della libertà e la necessaria integrità del paese nella sua sostanza sociale e politica. Rispettando gli altri, desideriamo essere rispettati a nostra volta in qualsiasi momento, ed in particolare quando esprimiamo un voto di coscienza. Chiediamo di essere rispettati non solo per la imponente quantità di consensi che, sostanzialmente inalterata, noi abbiamo alle nostre spalle, ma anche e soprattutto perché, mentre è in atto una corrosione dei valori e delle strutture della società, una corrosione che dovrebbe fare riflettere seriamente quanti vanno al di là dell'immediato e guardano al domani, noi rappresentiamo non solo dei voti, ma idee, attese, speranze, valori, un patrimonio insieme di innovazioni, di ricchezza umana, di stabilità democratica, del quale il paese, secondo la nostra profonda convinzione, non potrebbe fare a meno.

Il 3 luglio 1992 Bettino Craxi interviene alla Camera nel pieno delle inchieste su tangentopoli che hanno investito in pieno il cosiddetto CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) e lancia il suo “J’accuse” contro il sistema corruttivo imperante nei partiti. Ovviamente il suo ruolo sembra quello più di un Sansone contro i Filistei che quello di un pentito ravveduto, tuttavia, il muro di Berlino era crollato e, non essendoci più un “pericolo comunista” tranne che per il suo pupillo Berlusconi, erano cadute le ragioni di Stato e internazionali che imponessero ancora il bavaglio.

…Certo è che sarà proprio in tutta questa complessa e difficile fase di avvio che si decideranno le sorti della legislatura. Una legislatura che ha un grande dovere cui assolvere e che ha di fronte a sé compiti di eccezionale portata. Sono doveri e compiti che derivano in primo luogo da una crisi che non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato. Del sistema dei partiti, che hanno costituito l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica, e che ora mostrano tutti i loro limiti, le loro contraddizioni e degenerazioni al punto tale che essi vengono ormai sistematicamente screditati ed indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica. E’ vero che nel tempo si sono accumulati molti ritardi per tanti fattori negativi, per miopia, velleitarismo, conservatorismo. Tutto ciò è avvenuto in modo tale che il logoramento del sistema ha finito con il progredire inesorabilmente come non era difficile prevedere. Ora non c’è più molto tempo a disposizione, ci sono dei processi di necrosi che sono giunti ormai ad uno stadio avanzato. Il Parlamento deve reagire alto e lontano dando innanzitutto l’avvio ad una fase costituente per decidere rapidamente riforme essenziali di ammodernamento, di decentramento, di razionalizzazione

….. C’è un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche. E’ tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile.In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava”.

Il 24 settembre 1954 Giorgio La Pira pronunciò un memorabile discorso al Consiglio Comunale di Firenze. Egli era tanto amareggiato per le critiche ricevute a motivo della sua presa di posizione a favore dei licenziati e degli sfrattati e affrontò decisamente l’argomento dicendo:


“Signori Consiglieri,si allude forse ai miei interventi per i licenziamenti e per gli sfratti e per altre situazioni nelle quali si richiedeva a favore degli umili, e non solo di essi, l’intervento immediato, agile, operoso del capo della città? Ebbene, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna ma decisa: voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: signor Sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro, senza casa, senza assistenza (vecchi, malati, bambini). É il mio dovere fondamentale questo: dovere che non ammette discriminazioni e che mi deriva prima che dalla mia posizione di capo della città - e quindi capo della unica e solidale famiglia cittadina -, dalla mia coscienza di cristiano: c’è qui in gioco la sostanza stessa della Grazia e dell’Evangelo! Quindi, signori Consiglieri, è bene parlare chiaro su questo punto! Ripeto, voi avete un diritto nei miei confronti: negarmi la fiducia: dirmi con fraterna chiarezza: signor La Pira, lei è troppo fantasioso e non fa per noi! Ed io ringrazierò: perché se c’è una cosa cui aspiro dal fondo dell’anima è il mio ritorno al silenzio e alla pace della cella di San Marco, mia sola ricchezza e mia sola speranza! Ed è forse bene, amici, che voi vi decidiate così! Io non sono fatto per la vita politica nel senso comune di questa parola: non amo le furbizie dei politici e i loro calcoli elettorali; amo la verità che è come la luce; la giustizia, che é un aspetto essenziale dell’amore; mi piace di dire a tutti le cose come stanno: bene al bene e male al male. Un uomo così fatto, non deve restare più oltre nella vita politica che esige - o almeno si crede che esiga - altre dimensioni tattiche e furbe! Ma se volete che resti ancora sino al termine del viaggio, allora voi non potete che accettarmi come sono: senza calcolo; col solo calcolo di cui parlava l’Evangelo: fare il bene perché è bene! Alle conseguenze del bene fatto ci penserà Iddio!”.


Singolare vero? Questo discorso del 1954, in piena Guerra Fredda, quando l’Empireo della politica era popolato da anime giuste e da valori fondanti, ci infonde più speranza e fiducia nel futuro che non quelli più recenti, ingolfati da alchimie e sottobosco.


Per chi volesse leggere le versioni integrali ecco i link: