28 settembre 2013

Remigio e Gemma: un amore sotto le bombe.


Sul numero di ottobre di Report.M viene ricordato l'incontro dei miei genitori. Come tante vicende accadute nel periodo bellico essa è avvolta da un alone misto di romanticismo e dramma. Io l'ho voluta ricostruire così, come me lo dettava il cuore e scarni frammenti di racconto, sfarinati nella memoria.

Quella mattina Antonietta, come al solito, era in piena attività. Erano solo le sei e fortunatamente la notte a Torino era trascorsa tranquilla. Dopo il coprifuoco nessuna sirena aveva lacerato il silenzio e così aveva potuto riposare. Aveva preparato il cestino per Paolo, suo marito ferroviere, che di lì a poco sarebbe venuto a bere il suo caffè nero e bollente. In quel plumbeo mattino di gennaio del 1945, Antonietta si fermò un attimo e pensò a quelle tre pesti che aveva messo al mondo e che anche oggi avrebbero preteso uscire per la loro missione. Pericolosa, aggiunse dentro di sé. Gemma, Rita e Giovanna, le loro figlie, erano fisicamente simili, ma con caratteri completamente diversi. Giovanna era bonacciona e ingenua, si faceva trascinare e non aveva ancora una personalità ben definita. Rita era saggia ed accondiscendente, paziente fino allo sfinimento, una vera donna di casa, sapeva già far tutto. Gemma, oh! Gemma! Era un castigo di Dio! Certe volte Antonietta si chiedeva se fosse davvero sua figlia o se non l’avessero scambiata nella culla. Poi interveniva Paolo e metteva le cose in chiaro: “E’ tua figlia. Non avere dubbi a riguardo, ci hai messo tutto del tuo….” Quelle tre le stavano dando delle apprensioni. Gemma aveva convinto le due sorelle che sarebbe stata un’opera meritevole sfamare ed assistere i soldati italiani di stanza nella caserma “Riva” che si trovava a circa due chilometri dalla loro casa. Durante l’inverno ne erano arrivati a frotte, superstiti dai vari fronti dove si combatteva e che avevano scelto, molti loro malgrado, di rimanere, dopo l’8 settembre del ‘43, nell’orbita dei Tedeschi sotto il regime di Salò. Pativano la fame e il freddo quei soldati, già reduci da stenti e privazioni. E così le tre sorelle trasformatesi in crocerossine, si caricavano di pane, frutta, biscotti, vestiario di lana e altri beni di prima necessità e si recavano alla caserma, sfidando ed eludendo i posti di blocco dei nazisti. E Antonietta era sempre in ansia. Non avrebbe voluto acconsentire, ma Paolo le disse: “Le tue figlie hanno un cuore grande e tu avresti fatto la stessa cosa al loro posto”. Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da Paolo che le venne incontro, la baciò sulla fronte e le disse: “Buongiorno, dormito bene? Stanotte tutto tranquillo grazie a Dio…E le bambine? Ancora a letto?” – “Tutto bene….ehm…(sempre bambine le chiamava!)…Non sarà il caso che si fermino un pò?” – “Sta tranquilla. Sento che questa sporca guerra è agli sgoccioli e….non so, mi aspetto belle novità, sono ottimista e fiducioso!”. Le sue parole la rincuoravano sempre, la sua voce profonda era un calmante naturale. Antonietta sospirò e gli porse la tazza del caffè. Dopo che Paolo l’ebbe lasciata, andò in punta di piedi nella stanza delle ragazze e trovò Gemma già sveglia che si stava vestendo. “A te non ti fermano neanche le bombe, eh?” Per tutta risposta lei le chiese: “Hai preparato i cartoni?” – “Si, sono sul tavolo.” – si rassegnò Antonietta. Gemma chiamò sottovoce le sorelle si avviò in cucina e cominciò a infilare nei cartoni il pane e altre vettovaglie. Venne raggiunta da Rita e Giovanna, dopo grandi sbadigli, e tutte e tre indossarono degli ampi cappotti, ciascuna prese un cartone legato con lo spago e uscirono nel freddo e grigio inverno torinese, inseguite dalle insistenti raccomandazioni di Antonietta, sempre più flebili man mano che si allontanavano dal giardinetto di casa.
La strada per arrivare alla caserma era battuta dalle ronde a tutte le ore e quindi loro cercavano di percorrere vicoli alternativi. Ogni tanto si bloccavano perché arrivava loro l’eco della marcia tedesca: “Eins, zwei, drei, mach' mich frei, vier, fünf, sechs, was kann die Hex!” e il selciato trasmetteva i colpi degli scarponi. Poco prima di arrivare sulla piazzetta prospiciente la caserma, incapparono in due soldati della Wehrmacht che gironzolavano non inquadrati. “Halt! – Wohin gehen sie?” – “Abbiamo del pane e biscotti. Ne volete un po’?” Avevano imparato a comprare il silenzio dei tedeschi. Allungarono loro un filone e due sacchetti di biscotti e loro si fecero da parte. Con le gambe un po’ tremanti arrivarono vicino al cancello della caserma. La sentinella le conosceva e aprì. Dettero un pacco di biscotti alla sentinella e percorsero una ventina di metri fino al portone. Le stavano aspettando. Decine e decine di mani si alzarono spuntando dalle maniche troppo larghe dei cappotti. Misero i cartoni per terra e distribuirono il contenuto. “Grazie, che Dio vi benedica!”. Stavano per fare dietro front e allontanarsi quando Gemma fu attirata da un giovane ufficiale che non badava a prendere la sua parte, ma si era fermato e le stava sorridendo. “Hai la grazia di un cerbiatto e il coraggio di un leone!”, le disse. Il suo era un accento strano, Gemma non lo aveva mai sentito, ma le parole furono come un cuneo nell’anima. Rimase attonita e un rossore diffuso colorò le sue guance. “Come ti chiami? – chiese il giovane. “Gemma” – “ E io Remigio. Sono arrivato la settimana scorsa. Tu vieni sempre qui?” – “Si, ogni settimana, il martedi”. “Bene, io ci sarò. E la prossima volta vorrei poter parlare con te”. Si rividero. Si parlarono. Gemma interrogò il suo cuore e la risposta fu che palpitava per quel giovane ufficiale dai modi gentili, dallo strano accento, ma dalla favella sciolta e forbita. Il quarto martedì lui le disse. “Fuggiamo insieme. Ti porterò con me a casa mia e ti sposerò.” – “Ma dov’è casa tua?”- “Lontano, in un paese caldo e accogliente, dove ci sono il mare e le colline e il sole li tiene uniti come due teneri amanti…Si chiama Monopoli”. Per Gemma poteva chiamarsi anche il Paese Di Gianburrasca. Era innamorata di quel giovane che parlava strano e le scriveva poesie. E lo avrebbe detto al papà. E poi il papà lo avrebbe detto alla mamma. E poi il papà avrebbe convinto la mamma. Successe proprio come aveva pensato e mamma Antonietta piangeva di notte per non farsi vedere. Remigio dichiarò domicilio in Via Ticino 13, casa di Gemma, sul Lungodora. Venne aprile e i primi di maggio: il giorno stabilito. Fuori, Torino appena liberata, ma ancora insicura. Gemma abbracciò tutti e promise che sarebbe tornata appena possibile. Mamma Antonietta si nascondeva dentro un fazzoletto. Papà Paolo la baciò sulle guance e le disse: “Se ti trattano male, torna da me. Sùbito.” – “Non temere papà. Mi fido di lui”.
Da quel momento in poi un turbine di emozioni.. Remigio indossa abiti civili, da operaio delle ferrovie, in tasca dei lasciapassare delle brigate partigiane. Anche una tessera dello PSIUP. Troppo rischioso prendere il treno da Portanuova. In cammino verso sud, con solo in una borsa pane, biscotti e tanto coraggio; in aperta campagna saltano muretti, guadano stagni, scavalcano collinette. Finalmente arrivano al paesino di Villanova e si fermano alla stazioncina. Dopo un paio d’ore arriva un merci. Salgono su un carro bestiame: stipati all’interno una dozzina di persone, babele di lingue e razze, fuggiaschi come loro. Gemma cerca di ignorare il tanfo che aleggia. Il treno si muove. Asti. Alessandria. Genova. La porta del vagone si spalanca: “Ci sono fascisti qui?” - Tutti con il pugno alzato. – “No compagni! Torniamo dalle montagne!” Il viaggio prosegue. La Spezia. Ancora ronde, controlli, Bella Ciao e Internazionale. Viareggio. Firenze. La tensione si scioglie. Giù verso Roma. Si socializza. Ci si scambiano nomi, indirizzi, promesse. A Roma ci si separa. Tranquilli, ormai è solo chewingum e coca cola. Altro merci ancora più scalcagnato. Napoli. Si sente il tepore del sole. Bari e tutti parlano come Remigio. Un camion militare per Monopoli. Sono passati 4 giorni e 4 notti, ma dove mi hai portato Remigio? In Africa? Ecco, ci siamo. Un mucchio di casette bianche. Un calore di terra e umanità. Un abbraccio d’azzurro. Il mare. Odori e sapori di pace. Benvenuta Gemma. Bentornato Remigio. Grazie infinite. La vostra storia, la mia storia.


Protagonisti:
Paolo Binando (mio nonno)
Antonia Cavallo in Binando (mia nonna)
Margherita e Giovanna Binando (le mie zie)
Gemma Binando (mia madre)
Remigio Ferretti (mio padre)
Varia Umanità

17 settembre 2013

PD: Politici in cerca D'autore (*)


Quando mi si è sollecitata una qualche riflessione sull’attualità politica locale ed in particolare, su ciò che sta accadendo nella galassia PD & affini, ho avuto serie difficoltà nel trovare materia dirimente sulla quale innestare spunti più o meno degni di approfondimento. Un non-Segretario che si dimette senza essere stato eletto, per protesta contro la condotta di un non-iscritto, pupillo di un capogruppo divenuto tale in quanto ex non-candidato, ma autocandidatosi Sindaco. Roba da manuale di psicanalisi. Le sportellate, tanto più assordanti quanto regredenti sul piano della materia grigia, alle quali stiamo assistendo, fanno parte ormai di una drammaturgia che si avvicina al pirandelliano “teatro nel teatro”. Nella famosa Trilogia “Sei personaggi in cerca ‘autore”,” Stasera si recita a soggetto” e “Ciascuno a suo modo”, viene esplorata la dimensione del meta-teatro, quella dimensione cioè nella quale attori, ruoli interpretati, vicende umane e sceneggiature si confondono e si sovrappongono, ponendo questioni filosofiche sulla natura e il limite (e se vi ha da essere addirittura un limite) della recitazione, in quanto ognuno di noi, anche nella vita reale, interpreta una “parte” drammatica. Il canovaccio al quale stiamo assistendo appare così similmente confinato sul terreno della meta-politica, un terreno sul quale ognuno sta recitando un ruolo che ritiene più o meno consimile ai propri interessi, bassi o alti che siano. Sullo sfondo tante rese dei conti da compiere. C’è il burocrate intransigente che passava per caso di lì, c’è l’uomo del fare e (dis)fare che alza il sopracciglio verso tutto ciò che giudica radical-chic, c’è il narciso opportunista, c’è il palafreniere pentito e tutti coloro che si sono pentiti di essersi pentiti. C’è tutto tranne che un partito. Ma ormai il PD ha iniziato a cessare di essere un partito da quando correnti di profughi democristiani ne hanno scalato le gerarchie, occupato le dirigenze, obnubilato la progettualità, svenduto le coerenze. Taluno si è inventato il renzismo, malattia infantile dell’ecumenismo, parafrasando Lenin. Tali correnti, quando esisteva lo scudo crociato, avevano una ragion d’essere in un partito votato all’occupazione del potere, che aveva scannerizzato la sua struttura interna sulla base di quella dello Stato o dell’Ente locale amministrato. Ma quando quella struttura ha da essere riformata, quando occorre mettere in campo energie positive, quando conta il cuore più che il cervello, le correnti manifestano malessere, scorréggiano, sgomitano e calpestano, generando un tumore linfatico che non lascia scampo. Quando si è all’opposizione occorre un progetto alternativo. Punto. Se si è fatta un’analisi corretta e puntuale della mala-gestione del Primo Impero Romani è dovere di un'opposizione degna di questo nome dotarsi di uno strumento programmatico che abbia una scala di priorità sulle quali confrontarsi con la Giunta insediata. Se per mera casualità accade di potersi allineare alla maggioranza su particolari problematiche che possano risolversi a beneficio della cittadinanza, nulla quaestio. Per far questo non c’è bisogno di azzannare al volo deleghe pelose come fossero mangime per porcilaie. Altrimenti rigore, controllo serrato e circolazione virtuosa di idee nuove. Solo questo chiede un elettore medio, non la rivoluzione d’Ottobre. Non credo che sia complicato, per un partito che voglia ricostruire una certa credibilità, trovare unità d’intenti su questo. Tutto il resto sono scorie radioattive democristiane di cui non abbiamo nostalgia.

(*): Pubblicato sul numero di settembre 2013 di Report.m

4 settembre 2013

La tastiera spuntata




Nelle giornate scorse ho letto una stuzzicante querelle su una locale testata on line (Monopolipress) sollevata da un attento lettore il quale rilevava l’ingiustificata omissione, nell’ambito della notizia di cronaca, di un provvedimento emesso ai danni di un caseificio cittadino, della sua identità. La redazione della testata ha addotto ragioni inerenti il codice di deontologia professionale dei giornalisti. Tale posizione, già di primo acchito, mi è sembrata pretestuosa, ma ho voluto approfondire spinto dal fatto che sono già persuaso da tempo che il proliferare d’informazione locale, anche sul web, non corre di pari passo con la sua qualità e indipendenza. In più di un’occasione si nota palesemente come si preferisca dare spazio maggiore alle notizie basate sul gossip e la cronaca nero-rosa, alle diatribe tra i politici cui piace fare le prime-donne senza alcun costrutto, piuttosto che alle voci autenticamente critiche e agli interventi di peso culturale innegabile e si sta molto attenti a quali piedi si possono pestare. Ho consultato il citato Codice Deontologico dell’Ordine dei Giornalisti che all’articolo 12 recita:

Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali.


1. Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'art. 24 della legge n. 675/96.


2. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'art. 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'art. 5.

Quindi “ex scripto” si evince già di per sé che il codice tende a superare dei limiti più che ad imporli. Sono comunque andato a verificare i riferimenti legislativi. In realtà l’articolo 24 della legge 675/96 non fa che riportare quanto stabilito nel Codice Deontologico il che rende addirittura superfluo il punto 2 dell’articolo 12 su riportato:

Dati relativi ai provvedimenti di cui all'articolo 686 del codice di procedura penale.


1. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del codice di procedura penale, è ammesso soltanto se autorizzato da espressa disposizione di legge o provvedimento del Garante che specifichino le rilevanti finalità di interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati trattati e le precise operazioni autorizzate.

Restano da esaminare i commi dell’articolo 686 c.p.p. che descrivono le annotazioni nel Casellario Giudiziale che sono:

a) nella materia penale, regolata dal codice penale o da leggi speciali:


1) le sentenze di condanna e i decreti penali appena divenuti irrevocabili, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali è ammessa la definizione in via amministrativa o l'oblazione ai sensi dell'articolo 162 del codice penale, sempre che per le stesse non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena;


2) i provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali dell'esecuzione non più soggetti a impugnazione che riguardano la pena, le misure di sicurezza, gli effetti penali della condanna, l'applicazione dell'amnistia e la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere [666];


3) i provvedimenti che riguardano l'applicazione di pene accessorie;


4) le sentenze non più soggette a impugnazione che hanno prosciolto l'imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità o disposto una misura di sicurezza o dichiarato estinto il reato per applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato.

Quindi il punto 2 che racchiude nella sua tipologia i provvedimenti come i sequestri di stabilimenti o merce a titolo preventivo nello svolgimento di indagini, fanno parte di quelle vicende che possono essere liberamente oggetto di completa diffusione informativa proprio perché non si applicano i limiti previsti dalle norme appena citate. In sostanza la mancata o incompleta citazione dei fatti nel caso in questione non è giustificabile né da comportamenti esemplari dal punto di vista professionale, né dal timore di violazione di leggi. Appare invece la sua natura di volatile foglia di fico. Ben vengano le prese di posizione del lettore che argutamente ha sollevato la questione.