24 aprile 2021

Il faro


La fantasia popolare negli anni della mia adolescenza annoverava una costruzione particolare: il faro. Soprattutto quando era posizionato su un’isola dalla quale dominava l’orizzonte, avvisando della sua presenza per miglia e miglia. Il mare, elemento misterioso con le sue calme e i suoi silenzi, con le sue ire e le sue deflagrazioni, circondava la piccola terraferma dove il faro assumeva le vesti di un vero e proprio totem, un misericordioso, simbolico rifugio incarnante le speranze, i desideri, i sogni dei suoi, talvolta, singoli abitanti.
Nel 1967 la RAI trasmise una piccola serie di 4 episodi, nello spazio destinato alla TV dei Ragazzi, che s’intitolava “I racconti del faro”. Protagonisti erano Fosco Giachetti, storico grande attore di teatro, nella parte di Libero (mai nome fu più calzante), responsabile del faro e Roberto Chevalier nella parte di Giulio, suo nipote che lo veniva a trovare sulla sua isola dal continente.
In quell’epoca io ero spesso a casa dei miei zii dove la sorella di papà, Wanda, era maestra e mi faceva doposcuola e il marito Peppino era la persona alla quale mi affezionai tantissimo. Era il narratore di storie avvincenti e pericolose, colui che amava la campagna e la natura e che mi scarrozzava in lungo e in largo per le contrade. Che mi insegnò a nuotare. E che mi presentò la Loggia di Pilato che imparai ad amare.
Ecco, lo zio Libero del faro era la proiezione del mio zio Peppino e le avventure di Giulio, tra tesori nascosti, pirati spietati, messaggi nella bottiglia, naufraghi sconosciuti che approdavano sull’isola, erano le mie avventure, quelle che vivevo nella mia fantasia, insieme a mio zio Peppino che ho amato tanto e che mi ha donato questa casa in questo luogo carismatico che ha qualcosa del faro, nel suo dominio della pianura, nel suo essere al centro degli elementi, nel suo alternarsi di silenzi e bufere, profumi e colori, il sogno dei pittori e dei poeti.

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