6 giugno 2019

Lettera aperta ad Antonio Guccione (*)


(*) Antonio Guccione era candidato sindaco alle elezioni comunali del 1996 che poi vinse. La lettera fu pubblicata sul n. 39 del periodico Portanuova del dicembre 1994.

Primavera del 1992. Ere geologiche, spazi temporali dilatati oltre l'inverosimile, ci separano da quel primo incresparsi d'onde. Mi ritrovo a indirizzarti altre considerazioni, questa volta in forma pubblica, perchè ritengo utile aprire il dibattito. Non ti nascondo di essere in uno stato d'animo ondivago, di tipo gramsciano, tra il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà. Nel gioioso turbinare degli “spots” che grandinano sulla nostra telecratica esistenza, è divenuto fondamentale “grattare” il fondo di quel forziere blindato conservato gelosamente nella soffitta della memoria per ritrovare quell’attributo meraviglioso che fa l'uomo "exceptio in natura": la capacita di comunicare. “Persone adulte muoiono quando la conversazione cade” e noi stiamo infarcendo la nostra vita di circolari, fax, slogan, epiteti vari, sulle note di un suadente, cadenzato “rap” senza fine. Un fiume di idee senza parole che rompe gli argini della sopportazione, raccogliendosi in un immenso, spaventoso, invaso di silenzio: questo è il "fascismo-light". 
La sinistra non è immune da colpe per questi black-out comunicativi, per questi cortocircuiti fra coscienza collettiva, bisogni inespressi e rappresentanza politica. Il trapasso paludoso, maleodorante di questi anni '80 ormai alle spalle ce ne da qualche esempio: nell'atmosfera surreale, vagamente felliniana, in cui il CAF costruiva il suo impero, fra l'altro, sulla parola/realtà artificiale, il solo Enrico Berlinguer rivendicava una "diversità" irrisa da molti, poi difesa strenuamente da un Natta poi accantonato come un oggetto da rigattiere. E’ paradossale: la forma-partito è criticabile, forse obsoleta, ma solo il vecchio partito (vedi il crollo di Forza Italia) ha il contatto diretto con il territorio. Il punto è di rendere dinamici questi terminali, non strumentali satelliti del centro, forze vive con continuità, non solo nelle occasioni elettorali. Ricordi la "cellula di strada" di togliattiana memoria? Non esiste qualcosa che gli assomigli: i tanto osannati "clubs" forzaitalioti funzionano solo quando il Capo parla dal tubo catodico, altrimenti sono elementi volatili. E’ successo che, lentamente, è montata un'omologazione strisciante, non so se per scelta cosciente, per mancanza di alternative o per un subdolo effetto "traino", inizialmente sottovalutato. Questo ridurre la politica a "mero tecnicismo" ha avuto una grande risposta nelle grandi manifestazioni di questi giorni che inducono a riflettere: è la rivincita di un altro tipo di comunicazione, epidermica, frontale, senza mediazioni tecnologiche o istituzionali, la parola che buca lo schermo e schiaffeggia il Potere, la proposta di un io-collettivo che sottende al livellamento di costumi, ambienti sociali, etnie e scuote il mondo in tele-narcosi con un incessante tam-tam. E da qui occorre ripartire. Privatizzazione della politica e spoliticizzazione di massa vanno superate con una rivitalizzazione dell'idem sentire fra eguali, tra soggetti solidali e sinergici. Puntando il compasso sulle città (la "polis" donde anche "politica"), futura architrave dove si estrinsecherà il consesso civile, per arrivare gradualmente a Roma. 
Monopoli, una citta, un piccolo microcosmo non dissimile da tante realtà viciniori, eppure cosi complessa, tetragona, multiforme. Vantiamo una storia singolare fatta di grandi slanci e vergognose sudditanze, costruita da marinai e contadini dall'istinto di solidarietà innato, da un ceto mercantile egoista e dinamico, da una manciata di industriali speculatori, cementificatori e senza amor di patria, da un ceto operaio sparuto, ma dalle spalle solide, da una marea di cattolici praticanti dalle tante ipocrisie e da grandi organizzatori di fede (qualcuno censurato, boicottato, esiliato) impegnati allo stremo in invisibili cuciture di rapporti umani e sociali; il tutto condito da qualche vecchio intellettuale chiuso nella torre e molti giovani che imparano presto come si fa a scalare il successo. 
Nella primavera di quest'anno, in pieno tourbillon elettorale, Monopoli sembra alzare la testa: le macchine dei partiti spingono a pieno regime ed anche la società - civile (l'Araba Fenice della nostra città) mostra segni di vita: convegni, dibattiti, confronti a tutto spiano e le poltrone destinate a rinfrancare nuove terga allettano i neorampantismi. Sembrava che la politica, precipitata in mezzo a noi, avesse avuto uno straordinario potere catalizzante, scatenando impegni civici e risorse intellettuali. 
Pia illusione! Tutto si è fermato alla "bolla" presidenziale, confermando che le armi si affilano solo quando si ode un tintinnio di sciabole, altrimenti è meglio tornare nei comodi giacigli in attesa della prossima occasione. 
A maggio la sinistra si candidava al governo della città, con una certa sicumera, devo dire. Poi, dopo il marchio infame è venuta la stagione delle polemiche, delle illazioni (i giudici sono imparziali solo "secundum eventum litis", se non ci toccano da vicino), delle "code di paglia", dei ricorsi, dei rimpianti. E cosi mentre la società civile si rianestetizzava, la vita, in questi mesi, è ripresa tranquilla: chi cercava lavoro ha interpellato il neo-eletto, chi doveva acquistare il terreno che diventerà edificabile lo ha fatto, chi doveva estorcere lo ha fatto, chi doveva prestare il denaro ad usura lo ha fatto meglio di prima, chi doveva lavarsi la coscienza lo ha fatto, chi vedeva "Non è la Rai" ha continuato imperterrito. Tutto normale. Ci siamo solo stupiti e lamentati che (incredibile!) la Commissione Straordinaria abbia seguito pedissequamente le norme vigenti e tutto ciò è sinceramente sconveniente. Mi chiedo: esiste un vocabolo meno dirompente e più assolutorio di "mafia" per descrivere la sintesi di tutti questi comportamenti, omissioni, false coscienze, opportunismi e qualunquismi? Forse qualcuno, un po' distratto, dopo il decreto di scioglimento, pensava finalmente di notare, passeggiando in piazza, dei distinti signori in giaccone e pantaloni da caccia, berretto schiacciato sulle ventitrè e fucile a canne mozze a tracolla? Bene, cerchiamo di essere realisti e, al di là degli accadimenti giudiziari, che terremo nella dovuta considerazione, occupiamoci della crescita della nostra città. Gli spiriti liberi, la gente sana ed onesta, i circoli, gli operatori della scuola, tutti noi dovremmo farci carico di una grande missione: innescare un processo graduale di presa di coscienza collettiva sui grandi temi della solidarietà, dell'onesta intellettuale, della civiltà dei comportamenti, della sana amministrazione, per poi costruire dei progetti, semplici, non faraonici, destinati concretamente al nostro paese. 
Occorre cercare con continuità disarmante, occasioni di dibattito, con un metodo, per cosi dire, policentrico, non fermandoci ai luoghi sacri e istituzionalmente, storicamente preposti; dovremmo riapparire nel Centro Storico a sentire le voci degli eredi dei nostri avi, la storia che piange il suo abbandono dalle pareti sbrecciate, dai vicoli desolati; ci sono dei concittadini dimenticati nei quartieri periferici, Via Piccinato, Via Castellana; diamo loro il diritto di espressione, vestendoci di umiltà e bussando alle loro porte; e che dire delle nostre campagne violentate, vilipese, raggirate, abituate al mercato dei diritti soggettivi che dovrebbero essere assicurati "ex lege"? Facciamo diventare protagonisti gli esclusi. Padre Ernesto Balducci diceva che “viviamo in un accampamento regolato da rigida disciplina imposta dai "sorveglianti" (il Panopticon), dal quale gli "immondi" sono esclusi". Nostro dovere è uscire dall'accampamento e aiutare gli esclusi a guardarlo ed a scoprire che esso è "immondo". La festa dell'Unità divenga itinerante: meno stands, meno budgets e poche strutture, leggere, che battano a tappeto il territorio. Ma, mi dirai, abbiamo solo, come minimo, un anno di tempo fino al voto e questo è un programma a medio-lungo termine. D'accordo. Iniziamo a scavare le fondamenta, non mettendo nessun carro davanti ai buoi. Possiamo anche continuare a ragionare di numeri e di alleanze, ma partendo dal basso: rovesciamo la politica, rendendo, per quanto possibile, le comunità responsabili delle proprie scelte, protagoniste sulla scena cittadina. 
Non commettendo gli errori del passato, come, quando, con una specie di "accanimento tattico" si seziona l'elettorato per capire chi può venire dalla nostra parte a seconda o meno di un nostro comportamento: il tuo segretario sezionale in un incontro pubblico, ad esempio, si è detto preoccupato per le sorti dei liberi professionisti che ruotano attorno al mercato dell'edilizia (...) A parte le perplessità sull'effettivo stato di indigenza di questi rispettabilissimi concittadini, non mi sembra che il PDS pur di mostrarsi sensibile alle problematiche di tutte le classi sociali, debba dimenticarsi che i suoi principali interlocutori sono gli operai, i disoccupati, i pensionati, le donne, gli emarginati (gli "esclusi" dall'accampamento). Occhio alle blandizie dei vecchi e nuovi cortigiani! Quando si arriva a fiutare l'inebriante profumo del potere, si levano dalle sirene canti afrodisiaci... Insomma, il terreno di incontro (anzi, mi spingerei a dire di abbraccio) tra cattolici e progressisti è la dedizione verso gli oppressi, non i tavoli per la spartizione dei posti a sedere. In questo tipo di abbraccio credo fermamente, come credo che il tuo impegno sia oggettivamente orientato in questa direzione; e mi piace terminare proprio tentando una sincrasi ideale tra due grandi figure della storia: l'una che sostenne di “andare avanti con due riferimenti, il cielo stellato sopra di sè e la legge morale dentro di sè” (Kant) e l'altra di “orientare la propria vita sentendo sempre come profondamente proprie tutte le ingiustizie che si commettono contro chiunque, nel mondo” (Che Guevara). 
Con immutata stima.

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