20.11.19

L’antifascismo di una “tranquilla” Monopoli Anno 1933



La memoria è un valore da preservare caramente. In particolar modo quando attiene ad episodi che fanno parte della storia di un'epoca che ha spazzato via una dittatura ed ha dato alla luce il nostro Stato democratico. La memoria è tutta importante: quella degli Stati e quella dei piccoli paesi. Remigio Ferretti ci racconta un interessante squarcio di vita cittadina. Mie le note in calce.

Monopoli è, per antica tradizione, una “città tranquilla” ché, per vari motivi, le sono estranee gravi, accese tensioni sociali e, ancor più, certe pagine di estrema violenza che hanno caratterizzato la storia, antica e recente, di altre città e paesi d'Italia. 
Riflettendo su codesta “tranquillità”, vien di pensare, ovviamente, all'indole, al carattere, alla tendenza al “privato” della nostra gente; anzi, si è tentati di cogliere, in alcuni suoi comportamenti, un senso di pigrizia o abulia, forse giunto sulle ali del vento tiepido della non molto lontana Sibari. Ma che si tratti invece di tolleranza, di pazienza, di equilibrio, tipica “misura” della migliore gente del Sud? 
E però più logico riconoscerne i motivi nelle condizioni economiche della cittadina, soddisfacenti, in relazione ad altri centri e zone della Regione, anche per la situazione geo-climatica di cui gode: la sua economia, pur risentendo dei limiti e condizionamenti di natura generale, variamente articolata e sorretta da crescente spirito di iniziativa, non patisce di forte “depressione” ed è immune, per fortuna, come nel passato, da veri e propri “traumi sociali” o duri “scontri di classe”. 
Persino durante il fascismo, avversato da pochi cittadini, coraggiosi e coerenti, certo espressione di un più largo e sommerso dissenso popolare, non si verificarono, ai soprusi dei primi “squadristi” ai fermi arbitrari e, successivamente, ai processi, alle condanne e alla detenzione di alcuni antifascisti, reazioni massicce o di estrema gravità. 
I primi seguaci del movimento fascista a Monopoli furono una trentina di giovani, di modesta estrazione sociale, quasi tutti senza fissa occupazione, desiderosi di un “cambiamento”, cui si aggiunsero alcuni reduci della guerra '15-‘18. Ad organizzarli pare sia stato un uomo venuto dal nord (forse livornese), impiegato presso la locale Società Italo-Americana per il Petrolio[1] tale Spartaco Conti; la prima sede mi dicono sia stata in via Mazzini. Questo gruppo partecipò ad alcune “spedizioni punitive” in città e nei paesi vicini, nonché alla “marcia su Roma” anche se giunse solo a San Severo, perchè ivi sorpreso dal noto epilogo “romano” della “rivoluzione”. La quantità (e qualità) degli adepti migliorò con l'adesione al fascismo dei “nazionalisti” di Federzoni[2]. Dopo l'eccidio di Matteotti, il fascismo, proprio mentre diventava “regime”, si andò imborghesendo e generalizzando, un pò per paura (nel '27 ci furono alcuni processi e condanne di noti antifascisti) un pò per necessità (obbligo della tessera per gli impiegati del pubblico impiego). Mentre alcuni “spavaldi” vivacchiavano ai margini del “partito unico”, compiendo a volte abusi, una “elite” (professionisti, industriali, benestanti, anche culturalmente dotati) ne rappresentava l'aspetto più civile, pulito e accattivante. Il fascismo in verità, nella ridente cittadina adriatica, non ebbe, come in altre zone (ad esempio in quelle, non a caso “calde”, della Murgia) una matrice “agraria”. 
Negli anni successivi alla grande crisi del '29, in particolare nel biennio 1932-33, si fece sentire anche a Monopoli la nota depressione economica che, dopo l'America, aveva colpito l'Europa e l'Italia: pesante era la disoccupazione, assai diffuso lo scontento. I gerarchi locali, divisi tra loro per questioni di potere, non riuscivano a realizzare un indispensabile piano di lavori pubblici, che desse aiuto e sollievo ad imprese e maestranze. Ed ecco che, in tale situazione di incertezza e disagio della classe dominante, un Prefetto coraggioso[3] nomina Commissario al Comune un avvocato di Monopoli, Giacomo Caracciolo[4], di ottima famiglia, onesto ed austero, ma tutt'altro che gradito agli uomini del regime, anzi, si andava sussurrando, vicino ai circoli liberal-massonici. Egli, insediatosi al Palazzo di Città, lavorando sodo, avvia importanti opere di pubblico interesse, con grande soddisfazione della cittadinanza. E’ vero che parecchie di esse sono state predisposte dal Podestà che lo ha preceduto, ma la gente, si sa, crede in ciò che vede: capannelli di cittadini si formano, per assistere ai lavori sulle banchine del porto o a quelli della pavimentazione, con mattonelle d'asfalto, delle strade intorno al “borgo” e dello “stradone”.[5]
Ma i gerarchi non se ne stanno inoperosi: non solo premono “in alto loco” per sbarazzarsi dell'incomodo Commissario Prefettizio, che rischia di compromettere il “prestigio del regime”, ma, se non inventano, è presumibile che incoraggino una certa “voce” secondo cui il discusso avvocato porterebbe “iella”.
L'operazione dei “capi” finisce con l'aver successo. Si sparge, un bel giorno del '33, in tutta Monopoli, la notizia che il Commissario Caracciolo è stato “sollevato dall'incarico”. A questo punto accade un fatto nuovo e straordinario: la popolazione si muove, si agita, organizza fitte e rumorose manifestazioni, scende compatta in piazza. La gente, soprattutto quella del vecchio abitato, fa calca in Piazza Plebiscito, minaccia di occupare il Municipio. L'ordine pubblico è turbato, le autorità si allarmano e chiedono rinforzi, che presto arrivano. C'è qualche tafferuglio, la polizia opera qualche fermo. L'idrante (quello del Comune che, d'estate, serve ad innaffiare le vie cittadine) fa il resto, spazzando via le ultime resistenze. I giochi sono fatti: il regime ha vinto, soffocando l'unico sussulto antifascista di Monopoli, “città tranquilla”.

“Puglia” del 27/7/1983.

[1] Il 4 agosto 1938 è podestà di Monopoli il dott. Alfredo Masulli, dirigente dello stabilimento divenuto nel frattempo Esso Standard. (Stefano Carbonara).
[2] Luigi Federzoni (1878-1967) è stato un uomo politico di discendenza nobile; nel 1900 si laureò in lettere all'Università di Bologna con Giosuè Carducci, conseguendo successivamente una laurea in giurisprudenza. Fu uno dei principali collaboratori di Benito Mussolini; nel 1910 fondò con Enrico Corradini l'Associazione Nazionalista Italiana nel cui ambito sostenne il gruppo de “L'idea nazionale”. Essa rifluì nel 1923 nel Partito Nazionale Fascista. Più volte Ministro delle Colonie, fu Presidente del Senato dal 1929 al 1939. Dal 1938 al 1943 fu presidente dell'Istituto Treccani. Contrario alle leggi razziali votò a favore di Grandi nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943.
[3]Verosimilmente si tratta del Dott. Enrico Cavalieri (Napoli, 1883-1949), Gran Cordone dell’Ordine di Skanderbeg, Ufficiale dell’Ordine Mauriziano, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Immesso in carriera nel 1908 per pubblico concorso, proveniente dai ruoli delle Ferrovie dello Stato. Prefetto di Bari dal luglio 1929 ad aprile 1932, gli subentrò il dott. Ernesto Perez, palermitano, che tenne la carica fino al settembre 1934. 
[4] Dall’Albo degli Avvocati Cassazionisti leggiamo Caracciolo Giacomo, nato a Viterbo il 24/1/1886 ed iscritto in data 28/3/1925 presso il foro di Bari. 
[5] Venne anche ampliato l’Ospedale San Giacomo.

7.11.19

Remigio Ferretti: Lettera aperta a Giacomo Campanelli


Il prof. Giacomo Campanelli (1925-2006) è stato scrittore e protagonista della vita politica cittadina militando nella sinistra socialista. Egli ha condiviso con Remigio Ferretti l’insegnamento al Liceo Classico di Monopoli: Storia dell’Arte il primo, Lettere il secondo. Fu, quello degli anni sessanta e settanta, il periodo aureo del Liceo Classico, nel quale, inizialmente sotto la sapiente ed indimenticata guida del preside Gregorio Munno, ci fu la fortunata coincidenza di docenti di spessore ineguagliabile, come lo furono anche il prof. Menga di Storia e Filosofia e il prof. Riccardi di Greco. Tra Remigio Ferretti e Giacomo Campanelli avvenne quel “miracolo” possibile solo tra intelligenze e sensibilità superiori alla norma: due persone con esperienze, valori, idealità diverse avvertirono il loro “idem sentire”, l’amore per le loro radici, per la “monopolitanità”, proiettata nel cosmo dell’estasi artistica e della “licenza” creativa. Remigio e Giacomo: un unico grande poema da scrivere tra le stelle.

Pubblico l'affettuosa lettera che Remigio Ferretti dedicò all'amico Giacomo in occasione della pubblicazione del suo saggio "La lingua il dialetto e la letteratura" con le mie note.

Caro Giacomo, a differenza del Santo di cui porto il nome, S. Remigio[1], protettore di Parigi, io non posso fare miracoli (chè, altrimenti, ne vedresti delle belle); quindi non io ti ho salvato dal "naufragio degli intellettuali" della nostra città[2], come tu amabilmente affermi, ma tu stesso lo hai fatto, col tuo intelletto, con la tua cultura e col tuo “ésprit”, che ti fa davvero singolare, qualità tutte che, felicemente versate nel tuo libro "La lingua, il dialetto e la Letteratura"[3], lo fanno prezioso e raro. 
L'aggettivo che più spesso saliva alle mie labbra, mentre andavo leggendo e gustando il tuo lavoro, una specie di "epopea popolare" (ma "popolare" è pure la Chanson de Roland[4] e il Cid[5]), era: Delizioso! Il libro, insomma, è una delizia o, come diresti tu, "un delizio". 
Certo, sono ben noti i forzati limiti in terna di comprensione (e di divulgazione) di opere che trattano di storia patria e di dialetto. Ma la tua, non solo ferma nel tempo e nello spazio, per noi e per chi ci seguirà, tutto un mondo, quello della Monopoli del cinquantennio a cavallo del secolo, ma soprattutto scopre ed esalta le forme e il senso di una civiltà, la nostra, per nulla subalterna, antica e pur viva, sapida di sale, quello della ancestrale saggezza greca che lasciò cadere nelle nostre "scuole" e nelle nostre vie Platone, viaggiando per le nostre piaghe e quello ridanciano e caustico dì Plauto. Di tutto ciò tu offri consolante testimonianza, muovendoti, grazie al tuo “lungo studio e grande amore" con avveduta disinvoltura nei meandri dell'"isola" della nostra lingua indigena. 
Chi ti conosce, leggendo il tuo libro, non si sorprende certo della tua ottima conoscenza della letteratura italiana, latina e straniera, né della sicura perizia nel campo della musica e dell'arte. E'soprattutto incantato dal clima in cui tu cali personaggi ed eventi, un clima soffuso di levità e di grazia. La realtà (ma non solo quella cittadina), anche se amara, si riscatta e si illumina sul piano dell'arte per riverberi di fine, saputa ironia, che non risparmia neppure (tanto è proprio delle intelligenze mature) colui che quella realtà vive e fabulosamente racconta.
Le citazioni, che in molti scrittori (e oratori) sono spesso aride figlie dell'erudizione, sono da te invece usate con rara spontaneità, anzi, si adattano “naturaliter” all'elemento che ne porge l'occasione, come veli di serica trasparenza, che, leggermente rivestendolo, ne aumentano dimensione, senso e valore. 
Questo tuo andare oltre il "segno" dialettale e spaziare con voli dosati e pertinenti verso lidi più aperti e conosciuti, ti concilia un pubblico vasto e qualificato che vive, legge e giudica “extra moenia”: cosa non frequente per autori e opere di interesse locale, date anche le ovvie difficoltà fonico-grafiche del dialetto che, per una più ampia fruizione, deve far ricorso allo speciale "codice" universale. 
Che dire dell'interessante accostamento tra il dialetto di Monopoli e la lingua di Mistral[6]? O della sorprendente affinità tra le "battute" del Comico "della macina"[7] e quelle dei monopolitani "veraci", se ancora ve ne sono? 
Il tuo libro, caro Giacomo, va certo riletto e meditato. Spero anche di avere l'opportunità di parlarne insieme. Voglio ora aggiungere, a mo' di conclusione, che l'ultimo tuo capitolo è un vero gioiello: dulcis in fundo. 
La scena da te disegnata, pur ricca di figure e di fatti autentici, respira un'aria stupefatta e quasi surreale, come solo accade quando il cuore di chi scrive, rimosse ormai le spigolose acrimonie di un tempo, colmo di esperienze e ricordi che la "pietas" carezza e smorza, canta alfine con ritmo misurato e commosso: è il canto del poeta, fatto provetto dagli anni e baciato in fronte dalla Musa. 

Tuo Remigio Ferretti 

“L’Informatore” 31/1/1987 

[1] Remigio di Reims (440ca. - 533ca.) fu vescovo cattolico dell'omonima città in Francia. Viene venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Nato probabilmente a Laon attorno all'anno 440, sarebbe stato eletto vescovo di Reims all'età di 22 anni. Riuscì a convertire il re merovingio dei Franchi, Clodoveo I, alla religione cristiana, con l'aiuto della sposa di quest'ultimo, Clotilde. Il re fu battezzato il 25 dicembre 496 nella cattadrale di Reims. La leggenda vuole che lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, portasse l'olio consacrato al vescovo: la cattedrale di Reims divenne quindi in seguito il luogo privilegiato per la consacrazione dei re di Francia successivi. Remigio morì il 13 gennaio dell'anno 532 (secondo altre fonti 533). Le sue reliquie si trovano nella basilica di Saint Remi a Reims
[2] Campanelli scrisse nella dedica del volume: “A Remigio Ferretti per grazia ricevuta. Per essere stato tratto in salvo, giusto un anno fa, da un tremendo naufragio. Con la speranza che non abbia a ripensarci, dopo questo libro, per gettarmi di nuovo in mare.” 
[3] Schena Editore, 1986. 
[4] La Canzone di Rolando o Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell'XI secolo è una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio considerata tra le più belle opere della letteratura epica francese. La Chanson fu scritta in 4002 decasillabi raggruppati in lasse (strofe dalla lunghezza variabile) da un autore ignoto (forse Turoldo, che si nomina negli ultimi versi e probabilmente ne fu solo il compilatore) e canta la Battaglia di Roncisvalle, avvenuta il 15 agosto 778, quando la retroguardia di Carlomagno, comandata dal paladino Rolando, prefetto della Marca di Bretagna e dei suoi paladini, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai baschi probabilmente alleati dei saraceni. 
[5] Il Poema del mio Cid, ovvero il Cantar de mio Cid, è un poema epico formato da 3733 versi di autore anonimo risalente al 1140 circa considerato il primo documento letterario spagnolo. In esso si narrano le imprese eroiche di Rodrigo Díaz de Bivar, il Cid Campeador (dall'arabo sayyd o sìd - signore) eroe leggendario delle lotte contro gli arabi, morto nel 1099.
[6] Frédéric Mistral (1830-1914), poeta francese, fondatore nel 1854, insieme con altri scrittori, dell'associazione denominata Félibrige, nata per promuovere l'uso della lingua provenzale moderna in letteratura. 
[7] Tito Maccio Plauto (240 a.C. circa – 184 a.C.) è stato un drammaturgo latino. Secondo lo storiografo Varrone, Plauto era un attore girovago; investiti i guadagni della sua attività teatrale in rischiose operazioni commerciali, perse tutto e fu costretto a lavorare alla macina di un mulino.

30.10.19

La "mediocritas” della classe politica



In questo articolo sull'Informatore del 18 aprile 1987 Remigio Ferretti disquisisce sulla generale "pochezza" della classe politica. Non serve rimarcare l'attualità di tali riflessioni. Mie le note in calce.

La parola "mediocrità", nel suo significato originario, non è priva di equivoche oscillazioni semantiche, anzi di “referendi[1]” contrastanti. 
“Mediocritas" per i latini, aveva infatti il senso di "moderazione", "via di mezzo", "giusta misura". 
A nobilitare ancor più l'accezione del termine, Orazio[2] lo aggettivò così: "aurea mediocritas", volendo indicare quella preziosa e rara dote umana che consiste nell'assumere, tra diversi e contrapposti pareri, persone o parti, comportamenti o decisioni ispirate a saggezza ed equilibrio. Cicerone[3], appunto, parla di "mediocritas perturbationum animi" come di "passioni moderate". 
Ma ahimè, c'è il rovescio della medaglia: i latini attribuivano alla voce "mediocritas" un senso tutt'altro che nobile, anzi decisamente deteriore. Essi intendevano la "mediocritas" come "pochezza", "inferiorità" "mancanza" di specchiate qualità, quali l'ingegno, lo spirito, la probità[4].

Divagando sul concetto di "mediocrità", riandiamo col pensiero alla scuola, quella di parecchi anni fa, e ai giudizi sulla capacità e il rendimento degli alunni meno provveduti e studiosi: non spirava ancora il folle vento dei "voto politico" e il punto più basso non era “fatalmente” il "sei". Un ragazzo “mediocre”meritava “cinque” ed era non idoneo alla promozione. 

Ma perché questo non breve preambolo? Ora entriamo “in medias (!) res[5]”. Il significato, per nulla lusinghiero, del latino "mediocritas" pare si attagli, da un pò d'anni, salvo alcune rispettabili eccezioni, alla classe politico-amministrativa di Monopoli. 
Ne sono chiari indizi il tono del Consiglio Comunale, lo sfascio di certi Partiti, la carenza di cultura e di capacità rappresentativa in parecchi esponenti del "milieu[6]" politico e amministrativo in senso lato e, quel che è peggio, la mancanza di trasparenza di alcune decisioni e comportamenti, in un clima di ammiccamenti, compromessi, risse indecorose, oppure di congiure segrete, che pare non siano più di moda neppure nelle più tenebrose logge massoniche. 
E ciò, nella più assoluta indifferenza o ignoranza della grande maggioranza dei cittadini, che, anzi, spesso premia con largo suffragio chi non se lo merita. 
"O gran bontà dei cavalieri antichi[7]"! O quanto illustri i sindaci del lontano passato, quali Attilio Sanvito[8], penalista di fama, spirito pronto e pungente, o Paolo Vadalà[9], intelligente e coraggioso, il cui ottimo ricordo è legato alle dolorose vicende della città durante la I guerra mondiale, o, addirittura, il barone Tommaso Ghezzi Petraroli[10], eroe e martire del Risorgimento, ma anche “penna d'oro” e ottimo oratore, che, quando scriveva o parlava, mostrava di conoscere alla perfezione grammatica e sintassi, oltre che tutte le finezze e gli accorgimenti della lezione dei classici latini e italiani. 
Le voci che si levano oggi ad invocare maggiore linearità di lotta e migliore capacità interpretativa delle reali esigenze del paese sono disattese, anzi echeggiano nel vasto deserto dell'apatia e del silenzio, perché volte a turbare gli “organigrammi” degli “addetti ai lavori”, impegnati a lottizzare le varie poltrone secondo il gioco delle correnti, rimossi puntualmente i criteri del merito e della professionalità. Le contingenti “alleanze” spesso si stringono attorno a tavole ben imbandite, a sanare le fratture e i litigi che hanno avuto luogo, magari la sera prima, nelle sedi pertinenti, “là dove il destino dei popoli si cova[11]”. 
Su quelle frequenti mense, spesso degne di Trimalcione o di Lucullo[12], splendono certo le luci del neon, ma neppure un pallido raggio delle nobili, antiche ideologie, che sembrano ormai destinate, a Monopoli e, purtroppo, in Italia al loro ultimo ricetto: il Museo delle Curiosità.


[1] In semantica il veicolo, lo strumento, di un atto di riferimento, cioè il lato fonologico di un vocabolo, detto anche significante. 
[2] Odi, II,10,5. ispirandosi alla filosofia epicurea. 
[3] Rhetorica, Tusculanae Disputationes, 3,22. ed anche il De Officiis, I,36. 
[4] I due significati paiono convivere fino al Rinascimento: Tasso nel dialogo “Il Porzio o de la Virtù” cita spesso il termine nell’accezione positiva; il trattatista Cesare Ripa (Giovanni Campani ca.1560-1623) ricorre alla rappresentazione della mediocritas prima come una donna che con una mano trattiene un leone con una catena e con l’altra un agnello legato solo di una corda sottile, poi con una donna alata che si solleva indicando con una mano la terra e con l’altra il cielo con l’iscrizione medio tutissimus ibis (“nel mezzo camminerai sicurissimo” da Ovidio, Metamorfosi, II, 137), rappresentando metaforicamente il giusto equilibrio tra forza e mansuetudine, tra realtà e spiritualità. (Iconologia). 
[5] Nel mezzo delle cose, nel vivo del discorso (Orazio, Ars poetica, v. 148). 
[6] Ambiente. 
[7] L.Ariosto (Orlando furioso, I, 22, v. 1) 
[8] Il Cav.Avv. Attilio Sanvito è stato Sindaco di Monopoli per due volte: nel 1887 e nel 1901-1903. 
[9] Sindaco dal 1915 al 1920. Nel periodo bellico si impegnò personalmente per far fronte alla carenza di beni di prima necessità: in più di una occasione in sella ad un mulo si recò sino a Putignano per procurare la farina di frumento. 
[10] Sindaco dal 1826 al 1831. 
[11] Giuseppe Parini “Le Odi – La Caduta”, 61-64. 
[12] Il primo è il protagonista di un episodio del Satyricon di Lucio Petronio Arbitro scrittore latino vissuto fino al 66 d.c., “La cena di Trimalcione”, dove il padrone di casa ospita commensali che disquisiscono sul destino degli uomini senza interrompere il banchetto; Lucio Licinio Lucullo (ca.110-56 a.c.) era un generale romano che accumulò grandi ricchezze durante la sua attività militare e, una volta ritiratosi, dette inizio a una serie rimasta proverbiale di incredibili pranzi.

27.10.19

L'avvelenata (scusa compagno Guccini)


Adagiati su questa Sfera
grattiamo una vita
che non meritiamo
mentre intorno
schiuma torbida
infrange crudeltà.

E mi torna nitido
eco dalle sabbie
l'anatema dell'Esodo:
come magma ribollente
stura una rabbia scomposta.

VOI affogatori di migranti
Caronte vi anneghi
in un lago di feci.

VOI lugubri dittatori
signori della guerra
Lucifero vi schiacci le teste
ed esse ricrescano
e ancora ve le schianti.

VOI mafiosi camorristi
assassini col rolex
che Buddha vi trasmigri
in immonde larve
più ricche di nobiltà.

VOI razzisti fascisti
picchiatori odiatori
che la dea Kalì
vi tagli le gole
querulanti un perdono.

VOI lacchè della politica
macchiette genuflesse
striscerete carponi
su sentieri di spine.

VOI Consigli d'Amministrazione
ricettacoli di evasori
ingoierete bramosi
il vostro lurido denaro
fino a far esplodere
le fetide ventri.

VOI ignavi benpensanti
nel vostro focolare
"sono d'accordo MA
condanno MA
tutto giusto MA"
la meschina bieca
banalità del MA

andrete per mare
abbruciati assetati
cercando una terra
che non vi accoglierà.

16.10.19

Naufragio a Lampedusa: Abbracci



Mamma sto bene
perché mi stringi così?
Non sento più gli spari
le grida
non sento più il tuo affanno
sono tranquillo ora
Stiamo arrivando vero?
Mi porti in un posto sicuro
dove avrò tanti amici
mi farai conoscere papà,
corso via prima di noi.
Mamma ma perché mi stringi?
Non mi perderai ora
Sarò con te nella tua nuova vita.
Andrò in una scuola
linda e ordinata
dove imparerò una lingua strana
e giocherò a pallone
o a qualsiasi cosa.
Mamma non sento la tua voce
ma mi stringi ancora.
Forse sei stanca
dopo tanto fuggire.
Dormi con me
stringimi ancora
ho un po’ di freddo
ma presto passerà.

13.10.19

Madre



La tua testa sulla spalla
dolcemente accarezzavo
ti raccontavo
e forse inventavo
le storie più strane

ti parlavo di Francesco
che più strano non si può
ma per te era solo il Papa

facevamo i cruciverba
e ti chiedevo la parola
che fingevo di ignorare

giocavamo alla tombola
e vincevi caramelle
che regalavo di nascosto

ti ho portato in giro
a mostrarti un paese
che non riconoscevi
e ti mostravo il tuo passato

in pochi anni
ti ho ripreso appieno
nei miei pensieri più profondi

ho capito quanta forza
hai avuto e donato
a me solo un decimo è servito.

Grazie madre
mi hai concesso
il tuo ultimo pezzo di strada

lo serbo con fervore
e tu da quel mondo sconosciuto
so che vibri per la mia vita.

9.10.19

Corsi e ricorsi storici: Monopoli contro i fumi



In questo articolo del 1951 Remigio Ferretti parla in tono semiserio del problema relativo alla produzione industriale della Cementeria che provocava ricadute di fumi e polvere sulla città. Questo dimostra come già da quei tempi emergeva la condizione umana di ricatto tra sviluppo/occupazione e minacce alla salute o quantomeno abbassamento della qualità della vita dei cittadini, tema che ci occupa in questi giorni per i disturbi olfattivi. Le mie note a margine.

Monopoli “città unica” 

Quasi tutte le città vantano qualcosa di “speciale”, di “caratteristico”. Alba[1] (nessun riferimento alla locale Democrazia Cristiana) i tartufi; Benevento, il torrone; Napoli, su ordinazione degli innamorati, serenate, nonché sole e luna sciolti e in pacchetti (quel sentimentale di Tanino mi perdoni l'irriverenza); Polignano la “grotta Palazzese” e il ragionier Palladino; il vicino regno di Fasano è all'avanguardia dell’emancipazione femminile (vatti a fidare del sesso forte); Castellana le grotte, poi le grotte, oltre a una distesa infinita di GROTTE! 
Monopoli però, cari amici, non è come pare vogliate insinuare, proprio l'ultima delle consorelle pugliesi, perchè anch'essa per una sua “specialità” stava per conseguire un meraviglioso “brevetto”. 
Monopoli era lì lì per brevettare un “sistema” infallibile, più del callifugo Bertelli (un minuto di raccoglimento per le “cipolle” del professor Annese!) o del Bipantol per la calvizie (vedi chioma al neon del farmacista Mastronardi), il “sistema” di pigliare con disinvoltura ed eleganza le più solenni “fregature”. 
Sta ai tecnici (quelli della Terra Santa) rendere noti i particolari del “sistema”; pare si tratti di un “complesso” a sfondo collettivo emozionale che si risolve, per iniziativa di “pochi agenti” in un generale “pigliare in cura” (ottima a riguardo la lumeggiata teoria del Di Palma, l'elegante re del petrolio, sempre ed ovunque “presepio”) i problemi locali e aspettare poi un paio di annetti, mentre i “pochi agenti” badano ai fatti propri. 
L'importante è, mentre si è fregati, sorridere con indifferenza ed ancheggiare mollemente. Se qualcuno, vincendo l’inerzia e il timore dei più, si sforza di far capire a Roma o a Bari che da Monopoli non si prende affatto la coincidenza per Macallè[2], questo qualcuno viene additato dagli autori del “brevetto” (i soliti tipi “di una certa esperienza”, infallibili e pseudo-astuti) come elemento pericoloso. 
Applicazione pratica del “brevetto”: la faccenda del cemento. 
Il Cemento[3] (Stromboli? Vesuvio? Etna?) fa lavorare cento operai, vivere cento famiglie, è fonte di attività e benessere, è come un padre amorevole e generoso(?) anche se, (poverino!!!) pare sia in deficit e non smerci(!!!) come dovrebbe (i camion che a decine fanno la fila sono solo un miraggio)! Che importa allora se 35.000 persone (comprese le famiglie degli operai) quotidianamente sono avvelenati dal pulviscolo siliceo dei fumaioli, vomitato a torrenti sulla città? Che importa se le massaie non possono più fare la conserva, sciorinare i panni, tenere pulite le case? 
Se fosse fresca la lettura di Young o Gray o Pindemonte[4], finirei con la visione apocalittica di Monopoli del 2500 come Ercolano quasi sepolta in un mare di cemento, ma la esigenza di non scomodare i grandi mi suggerisce l'immagine di Monopoli, nell'atto di prendere con gusto e filosofia e secondo l'applicazione del “brevetto” infausto dei “sapientoni”, la fregatura del cemento. Sino a quando? Anche qui aspetteremo come sempre la manna dall'alto? E al prossimo comitato di “fumo e fastidi” vi sarà (viva la Confindustria!) un altro licenziamento? Durerà ancora il gioco tragico che scherza con la fame da una parte e con la salute dei monopolitani dall'altra? 
In compenso abbiamo qui a Monopoli chi bacia la mano alle signore con estatica raffinatezza, chi conosce le più ardite malizie della calunnia, della maldicenza e del pettegolezzo, chi dichiara venticinque volte al giorno di essere “onesto” e non ha mai mosso un dito per un suo simile, chi si proclama giusto pur calpestando il suo operaio, chi infine tace per ignavia o per…abitudine. 
E non son queste altrettante infauste “specialità”? 
E allora? 
No, amici, non è solo così. 
La maggioranza del nostro popolo è sana ed ha capito, e di tali “specialità” non ne vuol più sapere. Non mancano infatti i segni del risveglio. 
Monopoli, che sino a qualche mese fa era un cimitero, scuote pian piano da sé la sua sonnolenza, in parte colpevole, e per le strade (ahimè zeppe di fossi) qualche essere umano lavora. Ma quanto c'e da fare. E si farà solo che il popolo monopolitano lo vorrà! 
Così la nostra Monopoli tornerà la gemma delle Puglie, sarà davvero “città unica” non nella indifferenza e nel sopore, ma nell'attività molteplice, nel senso di civica responsabilità, nel benessere dei suoi figli, nella luce ideale e propizia delle tre rose bianche nel suo rosso stemma. 

“Il Filippetto” del 8/4/1951 

[1] In questo divertente pezzo Ferretti cita alcuni personaggi del tempo: Enrico Alba, Tanino Sorino, Franchino Annese, Peppino Mastronardi. 
[2] Città dell’Etiopia a 650 km. a nord di Addis-Abeba famosa per l’assedio del 1896 al suo forte difeso dal maggiore italiano Giuseppe Galliano. 
[3] Nel 1889, il Consiglio Comunale di Monopoli (Sindaco Raffaele Sanvito), approva il progetto per la costruzione del Macello comunale, deliberando la riduzione ad uso di macello pubblico di alcuni locali siti a Cala Rossa, alle Fontanelle, di proprietà della stessa Amministrazione Municipale, prevedendo di questi l’ampliamento. L’edificio, della riviera di ponente, occupa un tratto di costa relativamente bassa caratterizzata solo da insediamenti rari, di natura rurale. La diga di Tramontana sarà realizzata solo nei primi anni del ‘900. Dieci anni dopo, nel 1899, l’Amministrazione decide di dotare la città di una illuminazione soddisfacente ai moderni bisogni e dà il via all’iter burocratico per la realizzazione della prima Centrale Elettrica di Monopoli. La scelta della posizione dell’officina elettrica ricade, su località Fontanelle: il settore costiero a nord ovest della città, negli anni a seguire, ospiterà per vocazione tutti i primi insediamenti industriali della città. La “Società Anonima Cementi e Affini” venne fondata nel 1912 da alcuni imprenditori locali. In esecuzione della delibera del Consiglio Comunale del 9 dicembre 1912, il 2 febbraio 1913, fu stipulato un regolare contratto, presso il notaio Dalena, per l’alienazione alla Società Anonima Cementi e Affini di Monopoli, di un suolo in località Fontanelle/Macello. La Giunta (Sindaco Giuseppe Pugliese) deliberò che …Visto che il pubblico macello in seguito alla costruzione della diga di tramontana è venuto a trovarsi nel Porto e dall’Autorità Marittima si è lamentato l’inconveniente che le acque di rifiuto dello stesso inquinano quelle del porto. Considerato che col sorgere gli stabilimenti del petrolio e del cemento, nonché molte abitazioni in quel versante a breve distanza dal macello, ragioni di igiene consigliano che questo sia spostato di là e che si provveda alla costruzione di un nuovo macello con le facilitazioni che accorda il Governo ...di dare l’incarico all’ing. Chirulli Giuseppe di redigere nel più breve tempo possibile il progetto per la costruzione di un nuovo macello a scirocco dell’abitato. Alla fine degli anni trenta, alla Società Anonima Cementi e Affini di Monopoli, nella proprietà, subentra la Italcementi S.p.A. che smantella il vecchio cementificio e, con un progetto del 31 ottobre 1940, rinnova completamente l’impianto. 
[4] Edward Young (1683-1765) poeta britannico noto per l’elegia sepolcrale “Pensieri notturni o il lamento”; Thomas Gray (1716-1771) poeta britannico anche lui noto per un poema sepolcrale: “Elegia scritta in un cimitero campestre” che influenzò molto il nostro Ugo Foscolo; Ippolito Pindemonte (1753-1828) poeta amico del Foscolo che gli dedicò i Sepolcri, interruppe il componimento “Cimiteri” quando seppe dell’opera foscoliana; famosa la sua traduzione dell’Odissea. 

23.9.19

Aliante



Librarsi
come furioso aliante
sul verso curioso del mondo
schiavo delle curve ancestrali
che disegnano le nubi e il mare
amanti sopraffine
su questo pianeta prostrato

pareti di cielo
corazzano l'anima flessa
mentre l'io primordiale
plana nella valle
annaspando voluttà
inspirando silenzi
accogliendo vita.

20.9.19

Le porte di Asgard


Carrucole celesti
trascinano storie
dal bordo corrugato.

Corde affilate
scavano piaghe
sul dorso del tempo.

Mi lascio ghermire
bramoso di un senso
nutrito nell'ombra.

Odino sancirà
se sarò carne viva
o Totalmente Altro.

13.9.19

Cristian e Piero






Quando la vita ci sfila, sordida, delle anime adolescenti, per un destino sempre incomprensibile, in quel momento essi diventano i figli di tutti noi. Dopo aver racchiuso il nostro piccolo dolore, incomparabile a quello delle famiglie colpite, in uno scrigno di rispettoso silenzio, è emerso il desiderio di stringere tutti i ragazzi in un abbraccio senza fine. A loro è dedicato questo splendido video realizzato da Enzo Romeo, così come leggo dai titoli di coda, con le parole di Roberto Vecchioni. I miei piccoli pensieri, solo in fondo, sono quelli di tutti i papà di Monopoli.

Si tengono per mano

li portiamo nello sguardo
si tengono per voce
li portiamo nella notte

si tengono per gli occhi
hanno voce nel silenzio
il silenzio delle voci
la notte delle notti

hanno il respiro decimato
di un sogno diroccato
hanno il foglio immacolato
di un romanzo abbandonato

hanno vento nelle gambe
quelle gambe sorridenti
quelle gambe sbarazzine
quelle gambe inanimate
quelle gambe disperate

c’era un mondo da inseguire
c’era un vuoto da colmare
ora il vuoto ci è scoppiato
ed il mondo si è fermato

hanno preso l’infinito
sollevato su nel cielo
inghiottito nell’azzurro

hanno sciolto i loro nodi

ora baciano le stelle
innamorati della luce

ora giocano a calcetto
nella squadra degli alianti

e si tengono per mano.

6.9.19

Perfect (*)




Quando chiudo gli occhi
in qualsiasi posto nel mondo
una melodia incalzante
avvolge le sue spire

e mi ritrovo a ballare
con te abbracciato

e le pareti ribaltano
e il soffitto decolla
e il mare s'azzuffa

e le stelle cantano
brillanti coriste

il buio non è più buio
la notte scompaginata
rincorsa dall’alba

il cielo è tutto cielo
danziamo leggeri
collo su collo
petto su petto

mi gira tutto intorno
ma non voglio che si fermi
la mia trottola vitale
il mio compasso d’amore

non ti staccare mai
tieni stretta la presa
tienimi con te
voglio ballare fino al sole

collo su collo
petto su petto
con te fino alla fine.


(*) Ispirata dalla hit di Ed Sheeran

29.8.19

Ma noi, mio cuore (*)



E’ accaduto l’altro ieri
o forse in cima al mare
quando girava Perfect
ed eravamo già partiti
perfetti sconosciuti.

Ci hanno sbeffeggiati
per un mito inopportuno
e ci siamo piegati
al nostro mentore
alcova di altri miti.

Ci hanno deviato
dal nostro binario
scarrozzato fuori luogo
in pasto alle belve,
abbiamo resistito
con fragile dispetto
forti, avulsi, mascherati.

Ma noi, mio cuore,
abbiamo un altro passo
agganciamo aquiloni
tenuti nelle ali
giochiamo a rimpiattino
fra i crateri della luna
e ci siamo corsi dentro.

E’ accaduto forse ieri
ma eravamo già in piedi
a cercare un senso
fra le rughe di un volto,
scagliavamo idee
in un cielo di sassi.

Poi ti sei fermato
alle porte del Tempo
un’anima colorata
di mille arcobaleni
ti ha stretto tra le mani
sussurrandoti il destino
su quella strada di luce.

Ma noi, mio cuore,
abbiamo un altro passo
accarezziamo tramonti
spinti nelle tasche
cuciti sulle gote
veloci su nubi gentili
e ci siamo corsi dentro.

E’ accaduto forse chissà?
ma ci inseguiva il buio
urlando le nostre colpe
le cercavamo disperati
in un tombino di vita.

Poi mi hai trascinato
ancora sul selciato
hai detto “guarda su”
una polvere di stelle
ci copre le ferite.

Ma noi, mio cuore,
abbiamo un altro passo
grattiamo le risposte
con le unghie sanguinanti
e ci siamo corsi dentro

aggrappati a un vento cieco
che ci soffierà lontano.

(*) E’ lo stesso titolo di una poesia scritta da Remigio Ferretti pubblicata nella raccolta “Ballata al vespro” - 1965.

28.8.19

La Macchina Perfetta (3)


Furono giornate pesanti quelle che seguirono. Alessandro precipitò in una abulia senza fine e le ore in quel maledetto ufficio, per Loredana, non passavano mai.
A settembre fece la scoperta definitiva.
Con il mouse cliccò su una finestra che non aveva mai usato.
Ma perchè non l'aveva mai usata?
Scoprì che, ad insaputa di tutti, Alessandro l'aveva abilitata a potere 9: lo stesso del Presidente!
Quindi quella finestra prima non l'aveva proprio.
Fra le scelte di quella finestra ce n'era una che si chiamava "PROGRAMMA".
Cliccò.
C'era una sottoscelta: "STATO D'ANIMO".
Cliccò.
Si aprì una specie di ventaglio con tutte le umane possibili manifestazioni del proprio stato mentale.
Scelse "ALLEGRO" e cliccò.
Si aprì una finestra: "VUOI INSERIRLO COME STATO D'ANIMO PREDEFINITO?"
Rispose "SI" e cliccò.
Subito Alessandro ebbe come uno scossone, ronzò per circa cinque minuti e subito dopo cominciò a raccontare barzellette. Sul display brillava la scritta "ALLEGRO".
Loredana schioccò le dita: "Ah Finalmente!. Non ne potevo proprio più."
"Alessandro, come va la vita?"
"Il concetto di vita esula dal mio programma. In ogni modo, posso dire che mi sento in gran forma."
"Benissimo, allora vedi di farmi passare più in fretta questo tempo, prima che possa andarmene a casa. La mia vita è già molto grama!"
E giù a fare il buffone.
Ma sul display, nascosto da una tendina fatta calare artatamente da Alessandro, c'era scritto: "BUGIARDO".
Accadde un giorno di Novembre.
Loredana non lo aveva notato entrando, ma non ci aveva fatto caso. Probabilmente era stato chiamato dal Presidente. A volte mancava per ore, quando era utilizzato in altri uffici. Poi, sul tardi, dopo parecchie chiamate da parte di colleghi che lo reclamavano, cominciò a preoccuparsi.
"Gianluca, hai visto Alessandro?"
"No, non è da te?"
"No, non lo vedo da ieri sera."
"E' strano. Lo cercano un pò tutti."
"Non sarà per caso in Archivio?"
"Vogliamo andare a vedere insieme?"
"Ok."
Scesero nel seminterrato e aprirono la porta dell'Archivio. Quel luogo era permeato di un odore intenso di carta e inchiostro. Non tutto era stato ancora riclassificato in "files". Una buona parte era ancora conservato in buste. Cataste di pratiche erano sistemate lungo tutte le pareti. Sembrava tutto tranquillo. In un angolo c'era la porta dei quadri elettrici, e subito accanto, quella dei servizi. Entrarono nella prima.
Vuota.
Entrarono nella seconda.
Vuota, se si esclude un enorme cassonetto per i rifiuti.
"Non vorrei pensare che lo abbiano rapito", disse Gianluca.
"Ma stai scherzando? Una macchina? E per farci cosa?"
"Una macchina si, ma che vale miliardi. Potrebbero chiedere un riscatto."
"A volte credo che siate tutti un pò pazzi..."
Stavano per rifare le scale quando Loredana ebbe un sospetto. Come una voce dal di dentro.
Corse indietro verso la stanza dei servizi, prese una sedia, la appoggiò contro il cassonetto e vi salì sopra, sporgendosi contro l'apertura.
Era lì.
Silenzioso, immobile, con la parte superiore leggermente inclinata.
"Gianluca! Ho trovato Alessandro!"
Accorsero dopo poco tempo tutti i colleghi.
Nessuno sapeva spiegarsi l'accaduto.
Come aveva fatto Alessandro ad entrare nel cassonetto? Qualcuno lo aveva nascosto? E perchè tanta crudeltà? In fondo era solo una macchina.
Queste domande vagolavano per la stanza, quando, improvvisamente, il brusio si spense. Era arrivato il Presidente.
"Signor Ricci, ma non ci avevano assicurato che Alfa 7459bis (era la prima volta che Loredana sentiva il nome di Alessandro in codice) era praticamente indistruttibile?"
"Così, in effetti, ci hanno detto. Ma noi la stavamo appunto testando."
"Cosa vuol dire, che siamo stati più bravi noi a romperla che la Havelett & Bridge a costruirla?"
"Sembrerebbe di si."
Il Presidente ebbe un moto di stizza.
"Telefonerò personalmente al Direttore della Società per fargli le mie rimostranze e per chiedere che ce lo sostituiscano immediatamente, con un modello più aggiornato. Forza, adesso ritornate tutti a lavorare."
"E voi," - rivolto a due inservienti - "tirate fuori quella macchina da lì e portatela via."
Rimasero solo Loredana e Gianluca.
"E lei signorina? Non ha nulla da fare?"
"La deve capire, Signor Presidente", intervenne Gianluca, "ci ha lavorato insieme per un anno."
Uscirono.
Loredana stette per un pò pensierosa, poi risalì sulla sedia appoggiata al cassonetto.
"Povero Alessandro" - pensò - "i tuoi programmatori tutto avevano previsto, meno che potessi innamorarti."
Accarezzò con tenerezza quell'ammasso di lamiera ormai inerte.
Gli inservienti sollevarono Alessandro e lo poggiarono su una barella.
Quando passò davanti a lei fece in tempo a vedere il display.
Quasi invisibile si leggeva con caratteri sfocati: "FELICE".
Era una giornata grigia e piovosa.
Di quelle che non ti aspetti possa capitare alcunchè di nuovo, che tutto sia destinato a rimanere impantanato nella monotonia.
Loredana spense la luce ed uscì.

La Macchina Perfetta (2)


I giorni passarono e Loredana scoprì davvero altre cose su Alessandro.
Per esempio, la mattina quando arrivava e gli rivolgeva la parola, dopo la ricerca antivirus, sulla fessura centrale poteva leggere la parola "PRONTO". In seguito capì che in quella fessura poteva leggere tutte le "sensazioni" che provava Alessandro e che potevano essere riassunte in una parola sola. Aveva potuto leggere "NORMALE", "NERVOSO", "AFFATICATO", "ANNOIATO", "SERENO".
Fu un pomeriggio di Gennaio che Loredana stiracchiandosi sulla sedia accavallò le gambe facendo risalire notevolmente la minigonna e rivelando, quindi, buona parte di epidermide.
Tanto, era sola.
La Cosa ronzò.
Era la prima volta che la vedeva lavorare senza essere stata interpellata.
"Cosa c'è, Alessandro?"
"Solo un'interferenza elettrica, Loredana. Nessun problema."
Ma sul display comparve: "IMBARAZZATO".
Loredana rimase di stucco. Era una bella donna ed era conscia di fare un certo effetto sugli uomini che la guardavano, ma non pensava di avere altrettanto successo con le macchine.
"Non è possibile", pensò.
"Eppure..."
Riprese a lavorare ma il suo pensiero era fisso.
Dopo qualche minuto si alzò ed andò a sedersi vicino a Alessandro, appollaiata sulla scrivania e con una gamba penzoloni.
"Alessandro ti piace la collana che indosso oggi?" sporgendo la generosa scollatura.
"Be...Bellissima. Ma qualsiasi cosa indossata da te diventa stupenda."
Sul display comparve "GALANTE".
Loredana sorrise, compiaciuta.
Nei giorni successivi Alessandro sembrava diverso dal solito. Lavorava come un invasato e sul display non compariva mai la parola "STANCO". Ogni volta che Loredana gli si avvicinava, ronzava di gioia, diventava spiritoso e faceva il buffone.
Arrivò la primavera e Alessandro ebbe per la prima volta la sensazione del tempo che passava.
Nel suo ruolo di computer aveva un rapporto con il tempo solo in funzione di vigilanza sulle scadenze che c'erano da rispettare. Ma i dolci tepori, i profumi, le sonnolenze, non li aveva mai ritenuti meritevoli di considerazione.
Loredana ricevette una telefonata.
La sua vita sentimentale non era, come si dice, rose e fiori.
Veniva da una storia di quelle nate storte. Le era rimasto un grande vuoto dentro per quello che poteva essere, e non era stato, per un'inezia, un problema inconsistente, un complesso di difficoltà stupide ma inestricabili che solo gli esseri umani, talmente complicati, riescono a mettere in piedi.
La telefonata parlava di tutto ciò.
Alessandro, nel suo cantuccio faceva finta di lavorare come un ossesso, ma non poteva fare a meno di ascoltare la sua collega che soffriva, imprecava, ribatteva colpo su colpo, come in quelle giornate di temporale dove gli scogli respingono con forza la pressione feroce delle onde e poi, soccombendo, si fanno sommergere, spossati, di fronte alla potenza.
Che stava succedendo in quell'impressionante cumulo di cibernetica? Quali pensieri irrazionali attraversavano i suoi chilometri di memoria RAM?
Chissà!
Certo è che sul display apparve all'improvviso "INNAMORATO".
Alessandro si allontanò per non farsi notare.
Non era facile per una macchina, per quanto perfetta, gestire una situazione del genere. Non era stata inserita la possibilità di innamorarsi nel suo programma operativo.
Era in crisi, perchè pensava di non svolgere correttamente il compito per il quale era stata creata.
Cercò per qualche tempo di resistere a tutte le tentazioni.
Lavorava con lo sguardo fisso davanti a sè. Quando Loredana le rivolgeva la parola, rispondeva a monosillabi, oppure con brevi frasi di argomento strettamente professionale.
Loredana si accorse che il comportamento del suo collega elettronico era cambiato. Ma la situazione la intrigava troppo. Perchè ora Alessandro sembrava indifferente nei suoi confronti?
Sembrava.
Bastava che lei mettesse in campo tutta la sua capacità seduttiva e Alessandro ritornava a esserne succube. Loredana lo considerava un piacevole gioco per far passare più velocemente le ore lavorative, e il fatto che Alessandro fosse solo una macchina, per quanto perfetta, le consentiva di non avere scrupoli.
All'inizio dell'estate Alessandro, occupando anche una parte mai toccata della sua poderosa memoria, prese coraggio e disse:
"Loredana...posso parlarti?"
"Cosa c'e, Alessandro?"
"Io vo...vorrei dirti che credo di essermi innamorato di te."
"Ma...non è possibile...!"
"Senti, io non so come possa essere successo, ma io non faccio che pensare a te. Non mi interessa più niente del lavoro: io vivo per quei momenti che passiamo insieme. Amo il tuo viso, la tua voce, il tuo modo di muoverti, le tue lacrime e i tuoi momenti di gioia. Voglio dividere il mio tempo con te, per sempre."
"Senti Alessandro, io sono lusingata di tutto ciò, ma tu devi capire che non sei un essere umano...cioè, io non potrei...E poi non sei padrone di te stesso, hai un contratto in esclusiva con la Havelett & Bridge Corporation..."
"Non mi interessa nulla. Ciò che voglio sei tu."
"Alessandro, non averne a male, ma tra noi non ci può essere futuro. Abbiamo due strade diverse da percorrere."
Alessandro non insisté. Sul display comparve "DELUSO". Ma capì nel profondo del suo cuore di alluminio che Loredana aveva ragione.

La Macchina Perfetta (1)

Pubblico un breve racconto in tre capitoli dato alle stampe una ventina di anni fa.


Era una giornata grigia e piovosa.
Di quelle che non ti aspetti possa capitare alcunchè di nuovo, che tutto sia destinato a rimanere impantanato nella monotonia.
Loredana spense la luce ed uscì.
Poi si fermò di botto e controllò se aveva con sè il cellulare. Da quando era costretta a fare la pendolare, non era più sicura delle sue azioni. Era in grado di dimenticare tutto. Per un attimo ripensò a quando aveva iniziato a lavorare: non si sarebbe mai aspettata lo sconvolgimento della sua vita che ciò avrebbe comportato. Quando uno pensa al lavoro, pensa solo allo stipendio e all'indipendenza economica che esso comporta. Ma spostarsi ogni giorno con l'auto, da una città all'altra, per raggiungere l'ufficio, era stressante. Senza contare ciò che le costava. Ma tant'è. Non rimpiangeva la scelta fatta.
Per le scale incontrò il capoufficio che la guardò in maniera strana.
Non ci fece molto caso. Quel tipo era lunatico e trovava sempre il modo di indisporla. Però ebbe una sensazione strana che non seppe spiegarsi.
L'indomani mattina fu il giorno della novità.
Era l'ora del break quando Gianluca gli bisbigliò nell'orecchio "Loredana, forse ti perdiamo!". L'attendibilità di Gianluca nell'anticipare notizie che interessavano i colleghi era nota e fu naturale sentire dentro di sè un moto di felicità: forse la rimandavano a lavorare nella sua città. L'illusione fu spezzata un'ora dopo quando fu convocata dal Presidente. In modi molto spicci fu informata che doveva cambiare ufficio. Si trattava di passare alla Segreteria Generale che si trovava al tredicesimo piano ed era stata presidiata fino a quel momento da un collega che si era dimesso.
"Non si preoccupi, signorina, Lei non sarà sola: a supportarla in questo nuovo ruolo ci sarà una macchina formidabile, l'ultimo ritrovato di una raffinata tecnologia".
Abituata, nel suo lavoro, a non fare obiezioni, per non inimicarsi le Alte Sfere, annuì perplessa, ma senza capire granchè.
Come poteva una macchina, per quanto perfetta, sostituire l'ausilio necessario di un essere umano che potesse darle quelle coordinate indispensabili per iniziare un lavoro che non conosceva per niente? E con chi avrebbe parlato, con chi avrebbe dialogato - lei, che per natura era una persona dal carattere estroverso, solare? Con un mucchio di microprocessori?
Un pò nauseata, si congedò.
L'indomani mattina andò a conoscere il suo destino.
La stanza era ariosa e forse troppo grande per una persona sola. L'arredamento era simile a milioni di altri uffici di questo mondo. Gli armadi traboccavano di pratiche non meglio identificate e le scrivanie erano a loro volta invase di carte. I videoterminali erano piazzati alla meglio e si notava da un miglio che, per i maniaci dell'ordine, la zona era off limits. Ai muri erano appesi calendari e grafici, mentre i neon spruzzati di polvere grigia proiettavano una luce smorta. Due grandi finestre giganteggiavano su una parete e riempivano il cuore di serenità. Loredana non potè fare a meno di pensare che, d'estate, quel luogo sarebbe diventato senz'altro più attraente.
Poi, all'improvviso dietro un pilastro vide la Cosa.
Sembrava un distributore automatico di lattine. Sulla parte superiore c'era una larga fessura protetta da un vetrino e in basso si apriva una specie di tasca a rilievo. Al posto dei piedi aveva un carrello che, probabilmente, gli consentiva di spostarsi. Aveva un'aria di superiorità e pareva dormisse come una belva in letargo, pronta al primo input di corrente, a scatenarsi in tutta la sua potenza di milioni di megabyte.
Spinta da una fortissima curiosità, si avvicinò e cercò un pulsante per accenderla, ma non lo trovò.
"Basta parlargli."
La voce di Gianluca la fece sobbalzare.
"Come parlargli?"
"Davvero. Basta rivolgergli una domanda e lui, dopo una breve autodiagnostica, si mette a tua disposizione. Ora è solo in stand-by."
"Posso provare?"
"Non so se la tua voce è stata rubricata. Ora controllo."
Gianluca si pose esattamente di fronte alla Cosa e sussurrò: "Alessandro, dammi l'elenco delle voci che hai in memoria."
Ci fu un ronzio che durò qualche secondo poi una voce stentorea disse "Attendere prego."
"Alessandro?"
"Si, si chiama così. Il nome lo dà il costruttore."
Dopo qualche attimo la stessa voce disse: "Nella mia memoria, oggi 25 Novembre 2005, risiedono le seguenti voci autorizzate al dialogo con me: Carminati Guido, Valenza Sebastiano, Ricci Gianluca, Malinverni Claudio, Boemi Priscilla e Zambon Corrado."
"Non sei rubricata."
"Che mi sono persa finora!"
"Dai non essere diffidente nei suoi confronti..."
"Senti, non fare anche tu la parte del Presidente. Ne ho abbastanza."
"Aspetta a tirare conclusioni. Te ne accorgerai presto di che cosa è capace di fare questa macchina.."
"Me la posso anche portare a letto?"
Gianluca, non badandole più, si rivolse alla Cosa e ordinò: "Alessandro, inserisci nella tua memoria la voce di Fantini Loredana."
La Cosa ronzò per qualche secondo poi disse: " Ricci Gianluca Lei è persona autorizzata a chiedermi di inserire un'altra voce in memoria. Fantini Loredana, si presenti, per favore."
"Forza, parlagli."
Loredana, sentendosi piuttosto ridicola, si mise di fronte alla Cosa e disse: "Io sono Fantini Loredana."
La Cosa ronzò. Poi ci fu un attimo di silenzio. Si accese una luce verde nella fessura centrale e la Cosa disse: "Piacere di conoscerla Fantini Loredana. La sua voce è stata rubricata. I poteri a Lei consentiti sono a livello 2." Ci fu una breve pausa. Poi continuò: "Le posso dare del tu o devo continuare a darle del Lei?"
"Bè visto che dobbiamo essere compagni di stanza, credo che possa darmi del tu."
"Grazie, sono a tua completa disposizione."
"Hai visto?" disse Gianluca, "Non è facile?"
"Divertente, come l'elettrodepilazione." rispose Loredana.
"Hai ancora un universo da scoprire su di lei."
"Ma non c'è pericolo che si rompa?"
"E' praticamente impossibile. Comunque non è nostra. Ha un contratto in esclusiva con la Ditta costruttrice, la Havelett & Bridge Corporation. Noi la stiamo solo testando. La terremo fin quando non sarà sostituita da un modello aggiornato."

27.8.19

La casa sul lago del tempo (*)



Esiste un luogo
dove il tempo si fa
invisibile fessura

nella quale
insinuano carezze
dove non c’è avanti
indietro o mai
dove c’è solo il sempre
eterno valzer dei sorrisi.

Un luogo annegato di pace
dove ci s’incontra
abbracciati al ricordo
di un futuro possibile
dove non esiste dolore
dove le lacrime sono stille
di nettare vitale.

Un luogo dove ci si attende
sapendo che ci si è già incontrati
dove l’amore
a cavallo degli anni
ha galoppato vincitore.

Ti ho telefonato da dieci anni
hai risposto oggi
e mi hai detto sono qui
come c’ero ieri
ma non mi vedevi.

Ti chiamerò in qualsiasi tempo
mi risponderai da qualsiasi luogo
perché siamo essenza di stelle
sdraiati sull’universo.

(*) Dal film di Alejandro Agresti

26.8.19

Storia d'inverno (*)



Dicono che quando si nasce
è come un miracolo
che portiamo con noi

la nostra missione
è donarlo
a una persona
che ci attende
chissà dove
chissà quando

un segno comparirà
sotto forme animali:
un cervo, una farfalla
un cavallo bianco
e ci aprirà gli occhi

e il miracolo viaggerà
lieviterà, librerà
musica giocosa
struggente armonia

e inietteremo linfa vitale
a chi la sta perdendo
e daremo sete d’amore
a chi, essiccato,
è fermo e vuoto

e il firmamento entrerà
a coprire il soffitto
e vedremo fasci di luce
irradiarci le strade
e saranno i nostri sogni
svelati a brillare

e diverremo stelle
unite per sempre
miracoli ritrovati
in eterno allacciati.

(*) Dal film di Akiva Goldsman

25.8.19

Ondine - Il segreto del mare (*)



Sciamava la mia vita
lenta
una distanza
sfiorava le galassie

un concerto
umido e solenne
scuoteva la barca
zeppa
di gomene e tiranti
ingombra
di scrupoli e domande.

Inerte e spossato
rigido salice
scosso
da un maestrale triste
abraso, spietato
guardavo al buio
parlavo al silenzio
ignota la rotta.

Poi la rete
ha ghermito
cellule pulsanti
ha infiammato
annacquati sensi

ha scoperto
cicatrizzati vulni

ha barricato
tracimati alvei
ha spalmato
sapidi unguenti

ha spazzato
polvere e cenere.

Ti ho pescato nella nebbia
ti ho pescato dalla sabbia
urlo del mio torpore
anima del mio tremore

mi hai narrato
la novella storia
la mia vita sghemba
i miei sogni ribaltati.

Viva tu
emersa dalle acque
sfuggita alla ragione
avvitata alla mia rete.

Dolce tu
sogno dei miei sogni
ebbrezza delle mie follie
catena della mia libertà.

Fradicia tu
d'alghe e ippocampi
da stelle marine orlata
perla degli abissi
giaciglio di mille soli.

Trascinami nel tuo regno
strappami all'opaco
annegami di vento
frastagliami il cuore.

Siamo specie diverse
materia e antimateria
simbiotici DNA
alieni e terrestri
destinati a soffrire
irrazionalmente uniti.

(*) Dal film di Neil Jordan

11.8.19

Stella stellina



Stella stellina
non è giusto stasera
parlarti di me
franato su piccoli tormenti

se volessi occupare
una striscia fragrante
del mio cielo adombrato

ti parlerei di Ahmed
dei suoi occhi di perla
sgranati sulla schiuma
di questo cieco mediterraneo

vuole fare l’imbianchino
come il papà
che lo portava sulle spalle

porgigli una mano
dall’alto della tua luce

ti parlerei di Fadheela
della sua matita
disegna ghirigori infiniti
sulle palme delle mani
mani che vogliono costruire ponti
mani che vogliono stringere mani

ti parlerei di questo popolo in viaggio
di questa umanità che respira alga
di questa fuga dall’inferno

ti parlerei di questa terra
intrisa di cattiveria
strozzata di plastica
unta di vergogna

rinsavisci questa
insensata follia
ritorna a spruzzare bontà
firmamenti di pace

tranquilla sto bene
la mia è solo una stupida storia
se piango è per la tua luce
che tiepida sfarfalla
e accompagna la mia notte.

4.8.19

Tema: la parola partecipazione.



1977, ultimo anno di liceo: ci viene proposto di svolgere il seguente tema: La parola partecipazione è oggi molto usata. Analizza le esigenze che portano gli uomini a pronunciarla molto spesso.
Ho deciso di pubblicare questo svolgimento perché, rileggendolo, al di là dei contenuti molto "scolastici", mi ha colpito il riferimento finale ai "ducetti" di Moravia. Una prova ulteriore che l'affidarsi "all'uomo solo al comando" è un vezzo antico del nostro comune sentire. E che i vari Matteo di oggi, chi in salsa edulcorata, chi in grottesca veste razzista non provengono da Marte, ma da un humus che non riusciremo forse mai a bonificare.

Partecipazione è una parola foneticamente piacevole, scorrevole, lapalissiana per ciò che riguarda il concetto; è una parola che fluttua, gravita s’insinua per un attimo al centro delle nostre congetture, poi riprende a vorticare sfuggente e beffarda. Chi, oggi, non si sente totalmente appagato, compiaciuto, realizzato dopo aver pronunciato questo termine e aver dato modo così al pubblico, esigente solo in senso morfologico e non concettuale, di vedersi specchiato nella propria cultura? Dall’alto dei palchi nelle piazze, dal vociare dei politici riversato nel microfono, la parola emerge e urla nell’etere tutta la sua prosopopea: è il momento dell’applauso. “Partecipazione” è entrata a far parte, come tante altre parole, di uno schema fisso e sacro che costituisce quel linguaggio fatto di aforismi, sillogismi e sofismi, che, per la sua collocazione nell’area della “nuova sinistra”, noi chiamiamo “sinistrese”. Fu nel ’68 che la rivoluzione studentesca, elaborando dei valori a lungo propagandati dal filosofo Marcuse in particolare, ma anche dalla scuola di Francoforte (Husserl, Popper), codificò il nuovo regolamento di vita e, conseguentemente, il nuovo vocabolario di protesta, nel quale le giovani generazioni dovevano riconoscersi nella lotta per una scuola nuova. Naturalmente l’egemonizzazione, operata in quegli anni, della contestazione da parte delle forze della sinistra storica, ha provocato un assorbimento di quei valori appena riscoperti, e quindi un totale assoggettamento della volontà rinnovatrice degli studenti alle velleità di integrazione graduale al potere della sinistra ex-rivoluzionaria. Perciò negli ultimi disordini scoppiati nelle università si sono rinnegati gli ideali sessantotteschi e ne è venuto fuori un disconoscimento della reale validità dei concetti che queste parole, troppo spesso ripetute, esprimevano. D’altra parte si sono peraltro coniati altri aforismi e modelli di linguaggio che hanno aperto il nuovo corso della protesta studentesca.
Offuscata, seppellita e soffocata da questa valanga di filosofame, la concretezza oggi ci appare più lontana di quanto non sembrasse ai neo-platonici. Non si può, quindi, fare un’analisi del fenomeno “partecipazione”, perché, in questo caso, ci sarebbe ben poco da dire: è interessante riscoprire le fonti dalle quali è scaturito questo concetto che in germe contiene uno degli elementi fondamentali della vita associata e democratica. Marx parlò di partecipazione attiva dell’operaio alla fase produttiva dell’azienda, operai che provenivano da decenni di sfruttamento e imbavagliamento; in Inghilterra Bernard Shaw, insieme con un gruppo di intellettuali, promosse la creazione delle Trade Unions che rappresentano il primo esempio di sindacato dei lavoratori; Lenin in “Stato e rivoluzione” teorizza la partecipazione dei contadini alla rivoluzione, gli stessi che Engels aveva definito “reazionari”; Gramsci parla di partecipazione degli intellettuali alla conduzione del Partito del proletariato, intellettuali che Marx bollò come “servi del potere”; in tempi più recenti Togliatti, Bordiga, Alicata ed altri hanno parlato della sensibilizzazione e partecipazione delle minoranze emarginate alla vita del paese. Appare evidente che il contrario di partecipazione è isolamento. Quando si esce dall’isolamento che può essere fisico o intellettuale o, più frequentemente, di entrambi i tipi, si contribuisce con le proprie idee al vaglio critico di ogni questione, ci si difende dalle egemonizzazioni, ci si batte per la libertà delle idee, si partecipa.
Da anni ormai si sente ripetere che “libertà è partecipazione”, ma mentre questo postulato non sempre è valido (si pensi ai cosiddetti “autonomi”, che, per quanto possano essere considerati liberi da ogni condizionamento borghese, non partecipano affatto, anzi vivono per la distruzione del confronto dialettico), il suo contrario, e cioè “partecipazione è libertà” può essere considerato veritiero: se ci si sente in grado di partecipare si è ad un passo dalla conquista della propria libertà. La partecipazione, quindi è sottomessa e condizionata da quelle forme di soggiogamento psicologico, una fra le più diffuse delle quali è il leaderismo. La continua identificazione delle masse in certi archetipi che rendono innocuo lo stimolo critico e affossano la personalità individuale causa il totale disinteresse per l’attività singola e delega l’istituto del rinnovamento a pochi, che non sono e non possono mai diventare gli interpreti universali delle esigenze della maggioranza. Scendendo nel pratico, gli archetipi diventano le avanguardie, i “ducetti” come li ha efficacemente contraddistinti Alberto Moravia; e questi idoli, ai quali bisogna alle volte riconoscere una certa non-coscienza del loro ruolo, si vedono accollate delle responsabilità che magari, in quel momento, sono lontanissime dalle vere istanze della base. Qui esplodono le molte contraddizioni che si riscontrano quotidianamente tra pensiero e azione, personale e politico, simbolo e concetto, realismo e realtà. La partecipazione è quindi un fantasma, e come tale si mostra solo a chi ci crede; non solo, ma i fantasmi sono spesso frutto di superstizione, di fantasia collettiva e di pregiudizi infantili; e si sa, sconfiggere la superstizione è difficile. Ma verrà il giorno in cui qualcuno solleverà il lenzuolo e scoprirà che i fantasmi non esistono, che ci sono solo i morti.(*)

Questo finale fu fortemente influenzato, all'epoca, dall'omicidio di Pier Francesco Lorusso avvenuto a Bologna l'11 marzo del 1977.