29.4.22

Recensione della silloge "Gramma" di Lorenzo Dibello

 

Parlare di Lorenzo, e di un libro di poesie scritto da Lorenzo è per me un grande privilegio e un fantastico deja-vu. Entrambi nella nostra gioventù abbiamo attraversato un periodo storico in cui lo svezzamento delle idee sfociava prematuramente, ma consapevolmente, in un rispondere “presente” all’appello urlato dagli avvenimenti che incrociavamo nel nostro andare. E lui oltre a coltivare un impegno politico quotidiano sicuramente superiore al mio, è diventato poeta molto prima di me. Perché si diventa poeti? Perché ad un certo istante si percepisce che il recipiente del nostro animo, dove vengono accumulati gli stimoli più svariati provenienti dal mondo esterno, sta per tracimare. E ci si fa in quattro per evitare che il contenuto di quel recipiente venga disperso in mille rivoli, assorbiti dal terreno arido del quieto vivere, dell’abitudine, del ritirarsi nelle famose Torri d’Avorio o nella protesta elitaria. Ci soccorre la spugna della poesia che con premuroso e amorevole trasporto, raccoglie stilla per stilla questi impulsi e li trasforma magicamente in versi. La poesia ci fornisce strumenti atti a scansionare tutte le nostre pulsioni e un vocabolario che le traduce in volo.

Lorenzo pubblica il suo primo libro - “Oltre” - nel 1991, ma, come si desume anche dalla lettura di questo “Gramma”, ha iniziato a scrivere negli anni ’70. Quegli indimenticabili anni in cui il linguaggio in generale aveva una “ratio”, dove esistevano contrapposizioni anche radicali e violente, ma suffragate da un livello intellettuale di cui pian piano nel tempo si sono perse le tracce. Quegli anni sono stati - come scrisse Jack Kerouac - quelli di una “generazione in movimento”.

“Gramma”, appunto. Dal greco gráphō “scrivo” – “incido”. E Lorenzo ci spiega nella sua introduzione che ha voluto “incidere”, utilizzando le tante derivazioni possibili del tema. Ma, cercando di categorizzare alcune di queste derivazioni, l’Autore non può non compiere escursioni ed evoluzioni tra di esse, in quanto fortemente simbiotiche e interconnesse. È un tentativo vano di schematizzazione che testimonia del costante subbuglio in cui versa il poeta. La poesia fonde e mescola, deterge e innaffia, rumina e metabolizza. Resta esclusa da questa inevitabile commistione la categoria del “Cardiogramma”, che parla l’idioma puro e immune dell’amore, ma questo non ci stupisce affatto.

Nella prefazione di Francesco Pepe si accenna a Pasolini e al suo viaggio in India, paese che ha ispirato le foto di Giuseppe Di Palma che corredano in modo profondo e iconico il volume. Ma Pasolini è il convitato di pietra di quasi tutte le liriche di Lorenzo. La sua visione sferzante dell’epoca consumistica, edonistica, il suo pessimismo sul futuro apocalittico dell’umanità, il suo tendere verso una purezza ancestrale e un riaccostarsi ad un modo di vivere semplice, preindustriale, bucolico, li ritroviamo un po’ dappertutto.

In “La vita scivola”: “Il turbinoso capitale in fine si fermerà/in spazi ricolmi di ossa e membra”.

In “Senza nuvole né legge” affiora la disperazione senza rimedio di una generazione che prende spunto dal film di Varda “Senza tetto né legge”, dove una vagabonda muore di freddo dopo aver incontrato varia umanità: “Disperdemmo il calore/acquistato al mercato delle fragilità/ancora una volta/nei laminati incontri nell’autoparco/senza nuvole né legge”.

In “Iconoclastici bistrot” “un urlo malinconico verso il proliferare di una città sempre più commerciale e indifferente al paesaggio”, dove intravedo un non velato riferimento a questa città.

Tema che torna anche in “Si poggia la vita notturna” sull’aggressione selvaggia dei centri storici.

In “Ma che vergogna” dove viene sferzata l’intoccabilità dei potenti e stigmatizzata la rinuncia alla denuncia o in “La piazza invoca” dove emerge una rabbia cupa e incontenibile.

In “Lavori in corso” “il saggio nostro riprodursi/di resti tufai e cemento impastato/senza ponti né vascelli/come di turisti frettolosamente incantati/da vetrine laccate/di insane opportunità”.

In “Molto potere per nulla” “E’ tutto sotto controllo/molto controllo su tutto/per un Potere condiviso/senza nulla dividere/se non la illusione/ di un ultimo piumone/svenduto dai mercanti”.

In “Miti e mediocri” dove si ironizza sulla mediocrità e sulla superficialità dell’effimero.

In altri versi Lorenzo pare ripercorrere l’ironia fustigatrice del cinereo Bukovski o del Prevert meno romantico, o l’impegno indomito dei “poeti della protesta” Percy Bysshe Shelley, William Wordsworth, Walt Whitman.

Percy Bysshe Shelley in particolare scrisse nella sua “Difesa della poesia” che “i poeti sono i legislatori del mondo non riconosciuti”.

Il tutto con una spruzzata di riverberi montaliani che però non soffocano la forza e la costanza di un impegno civile.

In “Niente di più doloroso” viene descritto un girone infernale dei peccati dell’uomo contemporaneo.

In “Scoperte le nudità” si svelano le nefandezze, camuffate in tutte le forme, del Potere.

“Mezz’uomini” è un vero e proprio festival di maschere pirandelliane con i loro tic e il laissez-faire tipico di un comportamento egoistico e opportunistico di una parte di umanità.

“Maledetta vita” mette in evidenza i tre aspetti sostanziali dell’esistenza “maledetta, stupenda e ridicola”.

In “Tra il dire e il fare” riecheggia Claudio Lolli e il suo “Aspettando Godot”: “Hai ancora troppo da dire/per poter pensare/di avere qualcosa da fare/come ad esempio morire”.

Le evidenti tracce di altri cantautori compaiono in “Ora come allora e per sempre” come la dissacrazione mistica di Franco Battiato “falsi tutori caparbiamente gelosi/dell’immagine costante di sé stessi/ancorché propria dei divini egizi/degli intrepidi greci e dei saggi bizantini” e i fendenti precisi di Pierangelo Bertoli “E ogni attesa finirà tradita/nella grassa seconda sagra/da ciceroni avversi a proconsoli/drogati dalla impudente sicumera/in palazzi in odore di quaquaraquà”.

In “Tutti uguali” pare ascoltare in sottofondo le note dei Pink Floyd di “The Wall”: “Non uguali ma tutti diversamente/deboli capaci di stare in riga/uno davanti all’altro per nascondere/la propria debolezza”.

Altrove l’Autore ritrova scampoli di tenerezza, quando si rivolge alla figlia con insieme, sia la consapevolezza delle difficoltà che ancora la donna trova per conquistare rispetto e riconoscimento dei propri meriti, sia la delicatezza di non voler assolutamente condizionare da padre premuroso le sue libere scelte.

In “Cosa ti darò” c’è l’incoraggiamento a vivere in modo indipendente e consapevole.

In “Senza disprezzo” la invita a non farsi trascinare dall’odio per un mondo che bullizza e insulta le donne.

Oppure quando volge lo sguardo indietro a commossi ricordi dell’infanzia in “Due nonne due uova due dolci”.

In “Riconosci quel che devi alla terra” si raccomanda la memoria costante delle proprie radici: “ammonisci chi solo in alto/porge lo sguardo smarrendo ogni identità e profilo di appartenenza”.

Visionaria è “La guerra rattrista solo gli illusi” che ci riporta prepotentemente e drammaticamente nell’attualità: “E nella Guerra ognuno ci rientra per colpa/per l’egoismo spudorato/che massacra l’amore”.

Cito ancora in questo ovvio, insufficiente tentativo di suggerire un “ordine” di lettura (che la poesia di per sé abiura in quanto disordine per definizione):

“Le forme del mondo e della vita” sull’immodificabilità da parte dell’uomo delle forme naturali;

“La giovane senza lacrime” una appassionata rivincita della donna emarginata;

“La carezza dell’acqua senza sapone” sulla imprevedibilità e le circostanze che ci possono cambiare la vita.

In Criptogramma il poeta si diverte un po' con alcuni calembour:

In “Significo” dove i tifosi napoletani saranno contenti visto che cita “segnando ogni insigne”, ma che in realtà insinua il dubbio sui grandi riferimenti politici, sociali, di costume ecc.;

In “Il dado è tratto” si smitizzano le verità sistemiche che ci vengono propinate;

mentre “Borghese gentiluomo” è una parabola sulla mediocrità.

Discorso a parte merita il “Cardiogramma”.

Qui l’impressione è che il poeta lasci un pò andare i comandi del suo velivolo, passando da un aeromobile con un ben preciso piano di volo, ad un più leggero aliante che si affidi ai dolci venti delle pulsioni, alle correnti sanguigne che incrociano negli strati alti dell’atmosfera, dove si respira l’aria pura e convulsa delle passioni.

Facciamo parlare i versi:

In “Bruna, onda esile bruna…” “strappi il calore del sole/alla sabbia cui ignaro affidai/il tuo corpo fiero di giunco”.

In “Veleggia” “Ma come è vero che le tue labbra sono dolci/come il boccio delle prime more/così è dolce il latte del tuo seno/cui serafico mi rigenero senza tregua.”

In “Prima e dopo” “E la tua alba sarà nei miei occhi/tristi e silenziosi/ad attendere le tue volontà/o perlomeno le Tue voluttà”.

In “A te” “La complicità del nostro amore/così distrattamente disperso tra i marosi”.

In “L’ultima volta”, che in realtà è stata la prima volta, ci risuona ancora lo stupendo verso “Era riuscita a sfilarmi/l’aorta dalla camicia”.

In “Uno di questi giorni” “Vorrei sentire il tuo amore incontaminato/aggiunse con la tenerezza/di chi chiede al sole di/lasciare il posto alla luna”.

In “Tra i tuoi capelli” “Perdersi è dir poco/Sconfinare oltre ogni/margine dell’umano/per ritrovarsi riavvolto/come tra Bacco e Venere/sempiterno e lieve”.

Come sempre l’amore alla fine vince su tutto, ricompensandoci delle ferite inferte da una realtà a volte insostenibile, ed avvicinandoci a quella dimensione sovrumana a cui dovremmo tendere per redimerci dalle nostre piccole meschinità.

Chiude il volume una raccolta di opere giovanili le S-grammature dove Lorenzo dimostra una continuità e una coerenza creativa intonsa negli anni.

In “Astri sconfinati” ritroviamo ancora Battiato: "Astri sconfinati nelle sventure del cosmo/vi rincorrete nello spazio atemporale/con energiche attrazioni/in sempre dissimili orbite/aspirando trepidi vitali rincontri”.

“I ppure m’agghje sunnète” è una scherzosa chicca in dialetto;

In “Desiderare di perderti” “Violenterò le tue voluttà/e come acqua corrente/derogherò con preavviso/lasciando i tuoi vascolari aridi/abbandonati dal mio e tuo sangue”.

In “So di amarti nel rinnegarti” “Sei sempre nuova nel tuo mondo/di cenere cristallina/coi tuoi paventati tremori/nella tua addomesticata letizia/nel sapiente computo delle differenze/di noi inarrestabili procacciatori/di inconfessati rimpianti”.

La condizione del poeta, al di là di estemporaneità legate al caso, è il dimenarsi in un tempo insufficiente, in una realtà rugginosa, in un bacino dove raccogliere scampoli di felicità. Noi ragazzi nati negli anni del boom economico abbiamo goduto di tempi esaltanti che hanno forgiato il nostro sentire e ci hanno donato strumenti lenticolari, con i quali spalanchiamo le finestre sul mondo. Io e Lorenzo eravamo due degli amici seduti al bar della poesia che voleva cambiare il mondo, poi uno è entrato in banca e l’altro in aule giudiziarie. Non siamo riusciti a cambiare il mondo, ma il nostro orgoglio, credo, sia quello che il mondo non è riuscito a cambiare noi. Forti del nostro percorso ideale, continuiamo a scrutare l’orizzonte con il terzo occhio, quello dell’anima. Lorenzo con questo libro ci spiattella le pochezze, le infamità e le crudeltà che ci circondano. Ma ci suggerisce anche di non perdere la meccanica del volo, di non scomunicare l’ebbrezza del sogno, di non cedere alla piattezza e all’afasia.

Robert Frost diceva che “la poesia è un modo di prendere la vita alla gola”.

Lorenzo ci prende alla gola e non molla la presa fino all’ultimo rigo.

25.4.22

La mia ragazza


La mia ragazza
ha le gote rosso mela
e sopracciglia irriverenti
che s’inclinano per burla.

Lei si muove vibrando
come le onde dell’Adriatico
profuma di fontane d’altura
e quando è triste
piange lacrime d’argento.

La mia ragazza dipinge sogni
e li regala sotto i ponti
a chi non vuole nulla
ma si ciba di bellezza.

Lei ha dentro cento sinfonie
balla sull’orlo dei vulcani
ma si nasconde col lenzuolo
quando fuori c’è temporale.

La mia ragazza è bella
come il cielo d’aprile
quando taglia a strisce il mare
lei è così bella
che ho paura che si rompa.

Lei pedala sulla sua bici
ridendo di vento e capelli
mentre fa la gimcana
tra le mie noiose fobie.

Sarà vera la mia ragazza?
Non so e cosa importa?
Se scrivo su di lei
mi basta per toccarla,
se invento su di lei
mi basta per amarla.

Bolle di luna

 

Soffio parole
rivestite di bolle
che la brezza della sera
spinge verso il mare.

Scoppieranno infine
liberando poesia
profumata di luna.

23.4.22

La visita della farfalla


Ti posi
inusitata ospite
sulle mie grigie fantasie
curiosa di zampette,
barcollante di vento.

Hai il dono della fragilità
che mi turba e mi attira:
per questo
faccio delle mani
pista d’atterraggio
per offrire una pausa
alle tue missioni.

So che ti fermerai poco:
il meraviglioso tempo
di un respiro di colori,
ma quel poco è immenso
per me che - a volte -
la terra m’inchioda.

Amo la tua evanescenza
e la tua possanza di volo,
il tuo volteggiare rotondo
che mi trascina nell’incanto.

Torna - ti prego -
ogni tanto a trovarmi,
a vestirmi di sole,
portandomi in visita
su petali di rosa
e particelle d’infinito.

22.4.22

Sole malato

È ora
di sottrarre
dall’invaso mai colmo
l’amaro additivo.

Provvidi tiranti
libereranno
il mio orizzonte
della tua acida luce.

Il tempo non cancella
danni collaterali
vittime sacrificali
di cui porto la croce.

Mi batterò il petto
fino all’ultimo respiro
per la mia stoltezza,
immeritata follia
della mia fragilità.

Scompari finalmente
sole malato:
cerca un emisfero
più consono
alle tue miserie.

21.4.22

L’equilibrio del gatto

 

Mi affascina
il tuo splendido equilibrio
indifferente all’altezza,
ubriaco di vertigine.

Elegante prodigio
passeggi sui centimetri
maestoso e vagamente snob.

Invidio la tua capacità
di mediare illuminato
tra i bordi delle scelte,
tra i lati dell’ inquietudine,
tra le tentazioni del volo.

Forse un pò ti assomiglio
incosciente a volte
costeggio la forma delle nuvole
bordeggiando sogni.

19.4.22

Il tuo broncio


Quando il tuo broncio
sarà lungo cento poesie
vieni a bussare piano
alle mie imposte socchiuse.

Ascolterò la tua noia,
ti asciugherò la rabbia
dagli angoli della bocca,
dividerò con te la paura
in piccoli bocconi digeribili.

Conquisterò il tuo sorriso
con l’Oscar della scemenza
perché ogni tuo sorriso
smuove le faglie dei continenti.

Allora mi carezzerai di note
da pizzicare in pigiama
saltellando tra le corde
picchiettando sul mio sguardo.

Alla fine, richiuse le imposte,
penserò di aver sognato,
ma uno strano ritornello
mi resterà appiccicato al cuore.

18.4.22

Sintonie







Esistono sintonie,
onde radio
non percepibili,
emozioni levigate
da un serafico bon ton.

Parole in cerchio
a luce intermittente
dondolanti e discrete
che sciabordano lente
nel lago delle ore.

Vorresti schivarle
- ospiti inopportune -
ma hanno mira chirurgica
s’incastonano perfette
nelle absidi del cuore.

Allora ti arrendi
e ti fai raggiungere:
non ne farai nulla.

Staranno lì in quel cassetto
dove non c’è nulla di valore
tranne le cianfrusaglie
che ti fanno innamorare.

17.4.22

Sei duale

 

Sei duale.

L’altra è in standby.

Vive nei pori della pelle
dietro le rètine,
ha la reception
nella ghiandola pineale.

Ferma immagini
assorbe melodie
mastica percezioni.

Conversa amabilmente
con l’Io cosmico
e ne sugge i segreti.

Non riposa mai
e quando ti addormenti
mette in moto l’astronave
destinazione ovunque.

Sei duale
e l’altra è poeta.




16.4.22

Un pianeta di pace







Mi aggrappo
a molli venature di sole
agghiacciato
da temporali di morte.

Naufrago tra vani
tentativi di futilità,
agonia d’infingimenti,
sbornie d’ossigeno
e recito preghiere
di laica resistenza.

Un piccolo asteroide
è comparso timido
sulla linea dell’orizzonte:
è vecchio di anni giovani
orbitando dalla parte cattiva.

Farò segno con la mano:
proverò a farmi raccogliere
per un passaggio rosa
che mi porti a sorvolare
un pianeta di pace.

I tuoi occhi



Il viaggio
nelle tue pupille,
isole brune
d’oltremare
è stato lento:
non avevo ancora
imparato a nuotare
nell’infinito.

Il grande scultore

 

Che grande scultore
è il vento
scava, picchietta,
raspa e fresa.

Le nuvole
prendono fattezze
sbirciano, ammiccano.
Occhi e fauci
labbra e code
s’inseguono e giocano.

Un giorno
vorrei essere nuvola
- gaia metempsicosi -
farmi dominare dal vento,
assumere pastose forme
sul margine delizioso
dei desideri terreni.

Silenzio

Oggi è silenzio.
Pausa.
Sospensione.
Muore un uomo.
Muore l’Uomo.
Nella cecità del mondo.
Nel tradimento, nell’infamia.
Muore l’innocenza
avvolta da un candido lenzuolo,
schizzato dagli escrementi immondi
del denaro,
strappato dalla bramosia turpe
del Potere.
Oggi è silenzio.
Pausa.
Pianto.

 

Formichine

 

Vanno i pensieri lenti
testarde formichine:
alcuni raminghi
frugano sogni
da stipare per il gelo,
altri in fila perfetta
come pastori
dietro una cometa.

Vanno,
alcuni ubbidienti
saggi di pane,
altri folleggianti
anarchici di luna.

E vanno veloci
macigni d’ovatta,
corazzati ma nudi.

Operai senza mani
trascinano parole
graffiate di tufo,
in grotteschi cantieri
di perdute Regine.

Il veliero

 

Vagava
giocattolo
degli oceani
le vele sfracellate
la chiglia umiliata
senza bussola
nè timone.

Attendeva il bacio
mortale di un corallo
o la nobile sfuriata
dell’ultima tempesta.

L’estremo miraggio
fu una baia
rossa di mirtillo
arcata musicale,
cicatrice di sale.

Il vento si rifiutò,
impedì la manovra,
sbarrò l’approdo.

Allora rassegnata
inchinò la prua
salutò i delfini
e guadagnò
il silenzio.

Tracce

 

Una spiaggia
calice di sogni
deriva dei continenti
accoglie le tracce
piaghe sulla sabbia
pane e tormento.

Sono fermo
in un celeste altrove.

Carro armato d'amore

 

Che sia davvero primavera
sulle foglie rinvigorite
sui boccioli esitanti
sui prati come guanciali

che sia gioco di passi bambini
polline d’api, silenzi da respirare

che sia poesia planante
storie di saggi rugosi
seduti sulle soglie
del tempo andato

che sia tiepida brezza
spirante su esausti pensieri

che ci sia un solo vincitore:
un carro armato d’Amore

Paura di donare

 

Scosto le tende
sbirciando
lampioni tremebondi.

Figure sottili
strisciano suole annoiate
e sotto cappelli di circostanza
flette la vita inumidita.

Attendo
che la paura svanisca
perché il mio dono
non sia nè parziale
nè occasionale.

Voglio sentire
di nuovo le campane
ansimare di rintocchi,
fuochi pirotecnici
punteggiarmi di colori
e le nostre mani unite
giocare col profumo dell’alba.

Il tuo bacio alla luna

 

Alla luna
manca
un pezzo.
Lo ha rubato
un tuo bacio.

Ha la fronte rugosa
concentrata
sulla la tua bellezza
mentre nuda
ti distendi
sulla notte.

Invito a cena

 

Hai perduto
un fazzoletto di mare
per farmelo raccogliere:
ho invitato
a cena il tramonto
e la collina
ha sorriso.

Baci di roccia

 

Attendono cento,
mille,
ventimila anni.

Ma poi si congiungono
nel loro sogno di pietra,
roccia plasmata
d’argilla e meraviglia,
labbra di terra,
lingue avvitate d’eterno.

Ispirazioni

 

Il tuo cuore
incespica
sul bordo
di una poesia
incompiuta.

Afferra il volo
di un gabbiano
chino sul sole:
lui conosce
il ritmo della vita.

Le parole che non ti ho detto (*)

 

Le parole che non ti ho detto
mi rotolano addosso
sono insieme giostra di venti
e fila tortuosa alle pendici del forse.

Le parole che non ti ho detto
sono scritte in lingue arcaiche
navigano mari e irridono tempeste
scagliano frecce al cuore del tempo.

Le parole che non ti ho detto
sono io - sei tu - siamo noi - perduti
in un labirinto di urla scomposte
ammucchiate in un cestino di stelle.

Le parole che non ti ho detto
sono ogni centimetro di pelle
ogni maledetto centimetro di pelle
che era fuoco e più del fuoco.

Le parole che non ti ho detto
sono vocabolario di Calliope
sprofondate in civiltà sepolte,
annegate negli abissi di Atlantide.

Le parole che non ti ho detto
sono il mio rosario del dolore
abitano nel Regno di Utopia
sono chiavistelli del Paradiso.

Le parole che non ti ho detto
mi rincorrono ogni giorno
marchi di fuoco sulle spalle
avidi sorvoli di avvoltoi affamati.

Le parole che non ti ho detto
sono megafono degli angeli
le porterò in viaggio sottobraccio
e ne farò tappeto di rose.

Le parole che non ti ho detto
hanno casa in una bottiglia
la corrente le porterà a riva
in un domani già passato.

E tu ripeterai per sempre
le parole che non ti ho detto
fanne giaciglio, arca, eden,
fanne costellazione perenne,

fanne ghiaccio, rovi, bocca
fanne rosse bolle di sapone
e fuochi d’artificio per infiammarci
in fragorose esplosioni d’eternità.

(*) Dal film di  Nicholas Sparks

Perchè poeta?

Sulla mia veranda
un soffitto intermittente
buca un cielo ossuto
dove sparpagliate
ruzzolano vorticose
falene impazzite.

Parapetti di marmo
accolgono gomiti esausti
e scalano domande
la cui inevasa morte
spira col vento della notte.

Il tempo che si ferma
è peggior condanna
di quello che fugge via.

Blocchi di tormento
piantati nella memoria,
elastici che frustano
la schiena dell’anima,
versi che volano -si -
ma lo spazio a volte
è nero di pece
e gravido di mostri.

Perché mi hai fatto poeta?
Rispondimi cielo perverso!
Avrei preferito restare cieco
e non essere rapito
dalla morte delle stelle:
esse scoppiano d’amore,
si fondono nel Nero
e da loro nascono mille soli
e nuova vita nell’universo.

Recensione della silloge "Versi a pezzi" di Lucia Pavone

 

Passeggiavo con l’animo curioso e concentrato fra le prime pagine della “casa della poesia” di Lucia Pavone e, ad un certo punto ho sentito come degli aghi conficcarsi nei circuiti neuro-sensibili e un senso di vergogna per quello che può accadere ad un essere umano nel germoglio della sua identità, in quanto donna, in quanto fragile, in quanto succube, in quanto vittima. Tanto che, virtualmente a testa bassa, sono tornato alla prima pagina, e togliendomi le scarpe come un umile servo di Allah, ho ripreso daccapo la lettura. Questa volta intendendo immergermi completamente per condividere in sinergia quel breviario del dolore che mi si presentava via via davanti. Breviario perché questi “versi a pezzi” sono stoccate lancinanti, fendenti chirurgici, ustioni lente di cera fusa che lacerano nel profondo.

“Ho avuto solo pietre./Appuntite e taglienti/ho costruito così il mio castello” dichiara “la poeta” come predilige dichiararsi Lucia - acutamente - poiché non è necessario stiracchiare e sessuologare il termine per sottolineare una differenza inutile per chi ha il dono della creatività.

Queste stanze della casa sono buie come in una cripta alle cui pareti, illuminate da fioche candele, delle teche conservano rattrappiti ricordi di un tempo rubato alla spensieratezza dell’adolescenza.

“Ho mangiato l’acqua a morsi/ho bevuto parole taglienti”.

Però alla fine: “Come un seme sono germogliata”.

E sono passato con sollievo in un’altra stanza della casa: Lo stupore.

Come una non vedente acquista improvvisamente un senso fino ad allora sconosciuto, Lucia si aggira quasi incredula in una sorta di parco naturale dove scopre gli incanti della natura. E precipito, da lettore rinfrancato, in questo paradiso terrestre dove ci sono solo colori, profumi, cinguettii e ronzii. Albe, tramonti, cielo e mare, luna e stelle, l’inno alla vita che rotea e sfrigola di felicità diffusa. Persino il temporale viene accolto con ardore e lei - la poeta - è in simbiosi con gli elementi scatenati con il bellissimo verso: “sono suono e sono luce/in un asincrono unisono”. La stanza è completata da qualche spunto riflessivo: “In silenzio/insegnami ad andare./Piano e dolce assaporando ogni passo./Al buio o in piena luce,/purché sia lento./Così voglio essere/parte del tempo. Ma subito ci iniettiamo adrenalina con Tempo teso dove i panni stesi al vento prendono vita in un gioco rutilante d’azzurro.

Nella stanza del Coraggio è evidente la presenza di una maggiore consapevolezza di sè, frutto di un’autostima coltivata e fiorita sulle esperienze che hanno segnato il passato e di una forza interiore che la poesia stessa ha fornito di trampolino. “…apri quella porta/che ti vede reclusa al mondo./Aprila e vola,/mostrati fiera al sole/perché sei splendida/esattamente come sei.” Altre testimonianze, la lirica “Il tempo per me” dove l’urlo dell’autrice diventa vento salvifico, “Inzuppata di felicità” e “Anima egoista”, lapidaria e veemente.

Nella stanza delle persone e i personaggi, alla stregua dell’Antologia di Edgar Lee Masters, si tratteggiano alcune emblematiche figure nella sfera degli ultimi, degli umili, dei dimenticati, ma anche di artisti. Stupendo ritratto quello della barbona - “Sei nulla./Un nulla che mi strazia./Sei la fessura/da cui si vede il cuore della gente./È spento.” - e dell’”Operaio senza casa.

Nei luoghi nel tempo Lucia ci porta in giro con sguardo variopinto sui posti dove ha lasciato pezzi di cuore. Si nota qui come i cinque sensi si mettano ubbidienti al servizio del sesto che elabora e trasfigura, coglie e mitizza, afferra e sublima. Stupende “Ercolano” e “La danza di Venere - Erice.

Nei miti e le memorie lo sguardo dall’esterno passa a scandagliare la spiritualità e il sussiego emotivo che emerge dai simboli della fede e dei legàmi filiali.

La stanza della malattia, malefico evento pandemico da lei vissuto, non ci fa tornare indietro nell’anticamera del dolore, come ci si potrebbe aspettare. Certamente il tono è cupo e gelido. Ma la forza descrittiva del Male è talmente minuziosa che quella che viene fuori è una potenza dialettica che ha forse ucciso il male stesso, sconfiggendo il suo mistero che ha impegnato fior di scienziati per mesi e mesi. Lucia si è continuamente radiografata, inseguendo il suo persecutore in tutti gli angoli del suo corpo e alla fine costringendolo alla resa. E festeggia “con ghirlande di spuma/e cieli d’acqua.”

Infine nelle parole non dette si evince quella che per i poeti è una costante. Cioè quella particolare patologia per la quale in alcuni casi le parole diventano come polvere sospesa nell’aria che non si riesce ad afferrare. L’anima compie balzi vorticosi, plastici, erculei, ma le parole sono fumo, simboli onirici, miraggi.
E gli “alcuni casi” sono quelli in cui il cuore batte un colpo e si fa strada a gomitate tra la folla dei ragionamenti. In quei casi il poeta e la poeta combattono per la vita dei propri versi perché possano prendere la direzione desiderata, il volo per il vertice, lo spunto per l’eternità.

E le cerchi ancora queste splendide parole l’Autrice!!! Questo l’augurio che noi lettori lanciamo, certi che ella tornerà ancora a dipingere altri splendidi spicchi di meraviglia sulla tavolozza del nostro vivere.

5.4.22

Il sorriso

 

Il sorriso non è del corpo,
attiene a meccaniche celesti,
è amnesia mistica
che arrotonda spigoli
livella falsopiani
cauterizza e disinfetta.

Il sorriso è enfasi divina,
idioma degli angeli
allineamento di pianeti.
Il tuo sorriso è avvinto
alla terra e al fuoco
e ha vinto.

La viaggiatrice

 

C’è un tintinnio di tazze
nell’aria pigra del mattino
un arrendersi di giochi
di flanella e pelle.

La mia donna è nel caffè
centellinato guardandole i fianchi
e la smorfia sul finale di Bronte.

Poi un divincolarsi di risa
un dare gas all’avvio
di una giornata qualunque
di un tempo qualunque
e le mani che si stringono
a distanza senza fatica.

La mia donna
ha un talento
per non avere talenti
perché è l’eccellenza
nel mettere in ordine
piccole cose come i pensieri
inanellati di poesia,
verniciati di fluorescenze,
imbevuti di genialità.

La mia donna
vede la polvere
sul mio lobo temporale
e la spazza via solerte:
adora la lucentezza
del mio sorriso pulito.

Ella viaggia tanto
sorpassa sistemi stellari
aggancia code di comete
e non consuma batterie
è vicina pochi anni luce:

ma io la tocco ogni notte
dorme sotto il mio cuscino.

Lo sguardo dei poeti


Lo sguardo del potere è ristretto.
Lo sguardo dell’umanità è limitato.
Lo sguardo dei poeti è sconfinato.

Lo sferruzzare di luci
su telai di cielo
è amplesso di purezze
e ricama punti di prodigio
sulla tazza di terra e mare.

Vorrei scostare la realtà
e guardare oltre
dove si chiude la circonferenza
del mistero che incrocia il sogno.

Sole timido

 

Se il sole è timido
non vuol dire
che non sarà una bella giornata.
Infondi coraggio
all’alba che preme dentro di te.

Sei fradicio di pioggia secca:
scrolla le spalle,
sii spirito marino,
sempre in movimento,
trasparente, generoso,
le onde spalancate come braccia.

Espiazione

 

Ti chiedo perdono
se ho origliato
all’uscio del tuo dolore
non c’era morbosità
ma sacro stupore.

Sono entrato a piedi nudi
addentrandomi cautamente
nei cavernosi vicoli
dove si consumava
l’erosione becera
della tua ingenuità.

Era mia intenzione
ferirmi di singhiozzi
acuminati come dileggi,
espiare le colpe di chi
si atteggiava e colpiva.

Ora con le piante dissanguate
m’inchino e ti invito a danzare,
reginetta della notte,
voglio portarti sul mare
a disegnare infiniti sulla sabbia
perché l’alba sta arrivando
e la nostra vita annegherà di luce.

Barchetta

 

Mi sento barchetta
creata da piccole mani
gioco d’abbandoni
su carsici fiumi d’amore.

Rivoglio quelle mani
varo d’audaci imprese
bacio sulle vele
infiniti ritorni.