16.4.22

Recensione della silloge "Versi a pezzi" di Lucia Pavone

 

Passeggiavo con l’animo curioso e concentrato fra le prime pagine della “casa della poesia” di Lucia Pavone e, ad un certo punto ho sentito come degli aghi conficcarsi nei circuiti neuro-sensibili e un senso di vergogna per quello che può accadere ad un essere umano nel germoglio della sua identità, in quanto donna, in quanto fragile, in quanto succube, in quanto vittima. Tanto che, virtualmente a testa bassa, sono tornato alla prima pagina, e togliendomi le scarpe come un umile servo di Allah, ho ripreso daccapo la lettura. Questa volta intendendo immergermi completamente per condividere in sinergia quel breviario del dolore che mi si presentava via via davanti. Breviario perché questi “versi a pezzi” sono stoccate lancinanti, fendenti chirurgici, ustioni lente di cera fusa che lacerano nel profondo.

“Ho avuto solo pietre./Appuntite e taglienti/ho costruito così il mio castello” dichiara “la poeta” come predilige dichiararsi Lucia - acutamente - poiché non è necessario stiracchiare e sessuologare il termine per sottolineare una differenza inutile per chi ha il dono della creatività.

Queste stanze della casa sono buie come in una cripta alle cui pareti, illuminate da fioche candele, delle teche conservano rattrappiti ricordi di un tempo rubato alla spensieratezza dell’adolescenza.

“Ho mangiato l’acqua a morsi/ho bevuto parole taglienti”.

Però alla fine: “Come un seme sono germogliata”.

E sono passato con sollievo in un’altra stanza della casa: Lo stupore.

Come una non vedente acquista improvvisamente un senso fino ad allora sconosciuto, Lucia si aggira quasi incredula in una sorta di parco naturale dove scopre gli incanti della natura. E precipito, da lettore rinfrancato, in questo paradiso terrestre dove ci sono solo colori, profumi, cinguettii e ronzii. Albe, tramonti, cielo e mare, luna e stelle, l’inno alla vita che rotea e sfrigola di felicità diffusa. Persino il temporale viene accolto con ardore e lei - la poeta - è in simbiosi con gli elementi scatenati con il bellissimo verso: “sono suono e sono luce/in un asincrono unisono”. La stanza è completata da qualche spunto riflessivo: “In silenzio/insegnami ad andare./Piano e dolce assaporando ogni passo./Al buio o in piena luce,/purché sia lento./Così voglio essere/parte del tempo. Ma subito ci iniettiamo adrenalina con Tempo teso dove i panni stesi al vento prendono vita in un gioco rutilante d’azzurro.

Nella stanza del Coraggio è evidente la presenza di una maggiore consapevolezza di sè, frutto di un’autostima coltivata e fiorita sulle esperienze che hanno segnato il passato e di una forza interiore che la poesia stessa ha fornito di trampolino. “…apri quella porta/che ti vede reclusa al mondo./Aprila e vola,/mostrati fiera al sole/perché sei splendida/esattamente come sei.” Altre testimonianze, la lirica “Il tempo per me” dove l’urlo dell’autrice diventa vento salvifico, “Inzuppata di felicità” e “Anima egoista”, lapidaria e veemente.

Nella stanza delle persone e i personaggi, alla stregua dell’Antologia di Edgar Lee Masters, si tratteggiano alcune emblematiche figure nella sfera degli ultimi, degli umili, dei dimenticati, ma anche di artisti. Stupendo ritratto quello della barbona - “Sei nulla./Un nulla che mi strazia./Sei la fessura/da cui si vede il cuore della gente./È spento.” - e dell’”Operaio senza casa.

Nei luoghi nel tempo Lucia ci porta in giro con sguardo variopinto sui posti dove ha lasciato pezzi di cuore. Si nota qui come i cinque sensi si mettano ubbidienti al servizio del sesto che elabora e trasfigura, coglie e mitizza, afferra e sublima. Stupende “Ercolano” e “La danza di Venere - Erice.

Nei miti e le memorie lo sguardo dall’esterno passa a scandagliare la spiritualità e il sussiego emotivo che emerge dai simboli della fede e dei legàmi filiali.

La stanza della malattia, malefico evento pandemico da lei vissuto, non ci fa tornare indietro nell’anticamera del dolore, come ci si potrebbe aspettare. Certamente il tono è cupo e gelido. Ma la forza descrittiva del Male è talmente minuziosa che quella che viene fuori è una potenza dialettica che ha forse ucciso il male stesso, sconfiggendo il suo mistero che ha impegnato fior di scienziati per mesi e mesi. Lucia si è continuamente radiografata, inseguendo il suo persecutore in tutti gli angoli del suo corpo e alla fine costringendolo alla resa. E festeggia “con ghirlande di spuma/e cieli d’acqua.”

Infine nelle parole non dette si evince quella che per i poeti è una costante. Cioè quella particolare patologia per la quale in alcuni casi le parole diventano come polvere sospesa nell’aria che non si riesce ad afferrare. L’anima compie balzi vorticosi, plastici, erculei, ma le parole sono fumo, simboli onirici, miraggi.
E gli “alcuni casi” sono quelli in cui il cuore batte un colpo e si fa strada a gomitate tra la folla dei ragionamenti. In quei casi il poeta e la poeta combattono per la vita dei propri versi perché possano prendere la direzione desiderata, il volo per il vertice, lo spunto per l’eternità.

E le cerchi ancora queste splendide parole l’Autrice!!! Questo l’augurio che noi lettori lanciamo, certi che ella tornerà ancora a dipingere altri splendidi spicchi di meraviglia sulla tavolozza del nostro vivere.

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