29.4.22

Recensione della silloge "Gramma" di Lorenzo Dibello

 

Parlare di Lorenzo, e di un libro di poesie scritto da Lorenzo è per me un grande privilegio e un fantastico deja-vu. Entrambi nella nostra gioventù abbiamo attraversato un periodo storico in cui lo svezzamento delle idee sfociava prematuramente, ma consapevolmente, in un rispondere “presente” all’appello urlato dagli avvenimenti che incrociavamo nel nostro andare. E lui oltre a coltivare un impegno politico quotidiano sicuramente superiore al mio, è diventato poeta molto prima di me. Perché si diventa poeti? Perché ad un certo istante si percepisce che il recipiente del nostro animo, dove vengono accumulati gli stimoli più svariati provenienti dal mondo esterno, sta per tracimare. E ci si fa in quattro per evitare che il contenuto di quel recipiente venga disperso in mille rivoli, assorbiti dal terreno arido del quieto vivere, dell’abitudine, del ritirarsi nelle famose Torri d’Avorio o nella protesta elitaria. Ci soccorre la spugna della poesia che con premuroso e amorevole trasporto, raccoglie stilla per stilla questi impulsi e li trasforma magicamente in versi. La poesia ci fornisce strumenti atti a scansionare tutte le nostre pulsioni e un vocabolario che le traduce in volo.

Lorenzo pubblica il suo primo libro - “Oltre” - nel 1991, ma, come si desume anche dalla lettura di questo “Gramma”, ha iniziato a scrivere negli anni ’70. Quegli indimenticabili anni in cui il linguaggio in generale aveva una “ratio”, dove esistevano contrapposizioni anche radicali e violente, ma suffragate da un livello intellettuale di cui pian piano nel tempo si sono perse le tracce. Quegli anni sono stati - come scrisse Jack Kerouac - quelli di una “generazione in movimento”.

“Gramma”, appunto. Dal greco gráphō “scrivo” – “incido”. E Lorenzo ci spiega nella sua introduzione che ha voluto “incidere”, utilizzando le tante derivazioni possibili del tema. Ma, cercando di categorizzare alcune di queste derivazioni, l’Autore non può non compiere escursioni ed evoluzioni tra di esse, in quanto fortemente simbiotiche e interconnesse. È un tentativo vano di schematizzazione che testimonia del costante subbuglio in cui versa il poeta. La poesia fonde e mescola, deterge e innaffia, rumina e metabolizza. Resta esclusa da questa inevitabile commistione la categoria del “Cardiogramma”, che parla l’idioma puro e immune dell’amore, ma questo non ci stupisce affatto.

Nella prefazione di Francesco Pepe si accenna a Pasolini e al suo viaggio in India, paese che ha ispirato le foto di Giuseppe Di Palma che corredano in modo profondo e iconico il volume. Ma Pasolini è il convitato di pietra di quasi tutte le liriche di Lorenzo. La sua visione sferzante dell’epoca consumistica, edonistica, il suo pessimismo sul futuro apocalittico dell’umanità, il suo tendere verso una purezza ancestrale e un riaccostarsi ad un modo di vivere semplice, preindustriale, bucolico, li ritroviamo un po’ dappertutto.

In “La vita scivola”: “Il turbinoso capitale in fine si fermerà/in spazi ricolmi di ossa e membra”.

In “Senza nuvole né legge” affiora la disperazione senza rimedio di una generazione che prende spunto dal film di Varda “Senza tetto né legge”, dove una vagabonda muore di freddo dopo aver incontrato varia umanità: “Disperdemmo il calore/acquistato al mercato delle fragilità/ancora una volta/nei laminati incontri nell’autoparco/senza nuvole né legge”.

In “Iconoclastici bistrot” “un urlo malinconico verso il proliferare di una città sempre più commerciale e indifferente al paesaggio”, dove intravedo un non velato riferimento a questa città.

Tema che torna anche in “Si poggia la vita notturna” sull’aggressione selvaggia dei centri storici.

In “Ma che vergogna” dove viene sferzata l’intoccabilità dei potenti e stigmatizzata la rinuncia alla denuncia o in “La piazza invoca” dove emerge una rabbia cupa e incontenibile.

In “Lavori in corso” “il saggio nostro riprodursi/di resti tufai e cemento impastato/senza ponti né vascelli/come di turisti frettolosamente incantati/da vetrine laccate/di insane opportunità”.

In “Molto potere per nulla” “E’ tutto sotto controllo/molto controllo su tutto/per un Potere condiviso/senza nulla dividere/se non la illusione/ di un ultimo piumone/svenduto dai mercanti”.

In “Miti e mediocri” dove si ironizza sulla mediocrità e sulla superficialità dell’effimero.

In altri versi Lorenzo pare ripercorrere l’ironia fustigatrice del cinereo Bukovski o del Prevert meno romantico, o l’impegno indomito dei “poeti della protesta” Percy Bysshe Shelley, William Wordsworth, Walt Whitman.

Percy Bysshe Shelley in particolare scrisse nella sua “Difesa della poesia” che “i poeti sono i legislatori del mondo non riconosciuti”.

Il tutto con una spruzzata di riverberi montaliani che però non soffocano la forza e la costanza di un impegno civile.

In “Niente di più doloroso” viene descritto un girone infernale dei peccati dell’uomo contemporaneo.

In “Scoperte le nudità” si svelano le nefandezze, camuffate in tutte le forme, del Potere.

“Mezz’uomini” è un vero e proprio festival di maschere pirandelliane con i loro tic e il laissez-faire tipico di un comportamento egoistico e opportunistico di una parte di umanità.

“Maledetta vita” mette in evidenza i tre aspetti sostanziali dell’esistenza “maledetta, stupenda e ridicola”.

In “Tra il dire e il fare” riecheggia Claudio Lolli e il suo “Aspettando Godot”: “Hai ancora troppo da dire/per poter pensare/di avere qualcosa da fare/come ad esempio morire”.

Le evidenti tracce di altri cantautori compaiono in “Ora come allora e per sempre” come la dissacrazione mistica di Franco Battiato “falsi tutori caparbiamente gelosi/dell’immagine costante di sé stessi/ancorché propria dei divini egizi/degli intrepidi greci e dei saggi bizantini” e i fendenti precisi di Pierangelo Bertoli “E ogni attesa finirà tradita/nella grassa seconda sagra/da ciceroni avversi a proconsoli/drogati dalla impudente sicumera/in palazzi in odore di quaquaraquà”.

In “Tutti uguali” pare ascoltare in sottofondo le note dei Pink Floyd di “The Wall”: “Non uguali ma tutti diversamente/deboli capaci di stare in riga/uno davanti all’altro per nascondere/la propria debolezza”.

Altrove l’Autore ritrova scampoli di tenerezza, quando si rivolge alla figlia con insieme, sia la consapevolezza delle difficoltà che ancora la donna trova per conquistare rispetto e riconoscimento dei propri meriti, sia la delicatezza di non voler assolutamente condizionare da padre premuroso le sue libere scelte.

In “Cosa ti darò” c’è l’incoraggiamento a vivere in modo indipendente e consapevole.

In “Senza disprezzo” la invita a non farsi trascinare dall’odio per un mondo che bullizza e insulta le donne.

Oppure quando volge lo sguardo indietro a commossi ricordi dell’infanzia in “Due nonne due uova due dolci”.

In “Riconosci quel che devi alla terra” si raccomanda la memoria costante delle proprie radici: “ammonisci chi solo in alto/porge lo sguardo smarrendo ogni identità e profilo di appartenenza”.

Visionaria è “La guerra rattrista solo gli illusi” che ci riporta prepotentemente e drammaticamente nell’attualità: “E nella Guerra ognuno ci rientra per colpa/per l’egoismo spudorato/che massacra l’amore”.

Cito ancora in questo ovvio, insufficiente tentativo di suggerire un “ordine” di lettura (che la poesia di per sé abiura in quanto disordine per definizione):

“Le forme del mondo e della vita” sull’immodificabilità da parte dell’uomo delle forme naturali;

“La giovane senza lacrime” una appassionata rivincita della donna emarginata;

“La carezza dell’acqua senza sapone” sulla imprevedibilità e le circostanze che ci possono cambiare la vita.

In Criptogramma il poeta si diverte un po' con alcuni calembour:

In “Significo” dove i tifosi napoletani saranno contenti visto che cita “segnando ogni insigne”, ma che in realtà insinua il dubbio sui grandi riferimenti politici, sociali, di costume ecc.;

In “Il dado è tratto” si smitizzano le verità sistemiche che ci vengono propinate;

mentre “Borghese gentiluomo” è una parabola sulla mediocrità.

Discorso a parte merita il “Cardiogramma”.

Qui l’impressione è che il poeta lasci un pò andare i comandi del suo velivolo, passando da un aeromobile con un ben preciso piano di volo, ad un più leggero aliante che si affidi ai dolci venti delle pulsioni, alle correnti sanguigne che incrociano negli strati alti dell’atmosfera, dove si respira l’aria pura e convulsa delle passioni.

Facciamo parlare i versi:

In “Bruna, onda esile bruna…” “strappi il calore del sole/alla sabbia cui ignaro affidai/il tuo corpo fiero di giunco”.

In “Veleggia” “Ma come è vero che le tue labbra sono dolci/come il boccio delle prime more/così è dolce il latte del tuo seno/cui serafico mi rigenero senza tregua.”

In “Prima e dopo” “E la tua alba sarà nei miei occhi/tristi e silenziosi/ad attendere le tue volontà/o perlomeno le Tue voluttà”.

In “A te” “La complicità del nostro amore/così distrattamente disperso tra i marosi”.

In “L’ultima volta”, che in realtà è stata la prima volta, ci risuona ancora lo stupendo verso “Era riuscita a sfilarmi/l’aorta dalla camicia”.

In “Uno di questi giorni” “Vorrei sentire il tuo amore incontaminato/aggiunse con la tenerezza/di chi chiede al sole di/lasciare il posto alla luna”.

In “Tra i tuoi capelli” “Perdersi è dir poco/Sconfinare oltre ogni/margine dell’umano/per ritrovarsi riavvolto/come tra Bacco e Venere/sempiterno e lieve”.

Come sempre l’amore alla fine vince su tutto, ricompensandoci delle ferite inferte da una realtà a volte insostenibile, ed avvicinandoci a quella dimensione sovrumana a cui dovremmo tendere per redimerci dalle nostre piccole meschinità.

Chiude il volume una raccolta di opere giovanili le S-grammature dove Lorenzo dimostra una continuità e una coerenza creativa intonsa negli anni.

In “Astri sconfinati” ritroviamo ancora Battiato: "Astri sconfinati nelle sventure del cosmo/vi rincorrete nello spazio atemporale/con energiche attrazioni/in sempre dissimili orbite/aspirando trepidi vitali rincontri”.

“I ppure m’agghje sunnète” è una scherzosa chicca in dialetto;

In “Desiderare di perderti” “Violenterò le tue voluttà/e come acqua corrente/derogherò con preavviso/lasciando i tuoi vascolari aridi/abbandonati dal mio e tuo sangue”.

In “So di amarti nel rinnegarti” “Sei sempre nuova nel tuo mondo/di cenere cristallina/coi tuoi paventati tremori/nella tua addomesticata letizia/nel sapiente computo delle differenze/di noi inarrestabili procacciatori/di inconfessati rimpianti”.

La condizione del poeta, al di là di estemporaneità legate al caso, è il dimenarsi in un tempo insufficiente, in una realtà rugginosa, in un bacino dove raccogliere scampoli di felicità. Noi ragazzi nati negli anni del boom economico abbiamo goduto di tempi esaltanti che hanno forgiato il nostro sentire e ci hanno donato strumenti lenticolari, con i quali spalanchiamo le finestre sul mondo. Io e Lorenzo eravamo due degli amici seduti al bar della poesia che voleva cambiare il mondo, poi uno è entrato in banca e l’altro in aule giudiziarie. Non siamo riusciti a cambiare il mondo, ma il nostro orgoglio, credo, sia quello che il mondo non è riuscito a cambiare noi. Forti del nostro percorso ideale, continuiamo a scrutare l’orizzonte con il terzo occhio, quello dell’anima. Lorenzo con questo libro ci spiattella le pochezze, le infamità e le crudeltà che ci circondano. Ma ci suggerisce anche di non perdere la meccanica del volo, di non scomunicare l’ebbrezza del sogno, di non cedere alla piattezza e all’afasia.

Robert Frost diceva che “la poesia è un modo di prendere la vita alla gola”.

Lorenzo ci prende alla gola e non molla la presa fino all’ultimo rigo.

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