5.12.12

Scuola "G. Modugno": una scelta sbagliata




Alla fine del 1983 Remigio Ferretti era un cittadino come tanti, impegnato, d'altronde, da sempre, nella cultura e nell'amore per la sua città. Il suo mestiere era girare per il paesello e guardarsi intorno: accarezzare con lo sguardo le piccole e le grandi cose, dal particolare al macrocosmo, con la lente e il cannocchiale. Se coglieva un alcunchè di sgarbato o offensivo per la sua visione di Monopoli (che indossava come un vestito sartoriale) reagiva con l'arma più sottile che la natura gli aveva elargito in dono: la penna. Mi piace quindi ricordare uno scambio epistolare con l'allora Sindaco Walter Laganà che, al di là dei toni rivelatori di un forte scontro di personalità (che però maschererà sempre un grande affetto reciproco), ci aiuta a capire che certi eventi affondano le radici in tempi lontani, e gli errori commessi ritornano con pazienza a ricordarci la loro improvvida esistenza.


LE OPERE PUBBLICHE DI LAGANÀ


Il sottoscritto, avv. prof. Remigio Ferretti, già sindaco della città di Monopoli, espone quanto appresso: è appena iniziata, nel centro abitato di Monopoli (zona Portavecchia), la costruzione di una Scuola Materna che si affaccia, ad ovest, su via Procaccia, è contigua, a nord con le Scuole elementari “G. Modugno”, mentre, ad est è vicinissima al mare.
La ubicazione del nuovo complesso è quanto mai infelice; infatti la zona scelta è battuta tutto l'anno da venti violenti ed è anche assai umida per essere a pochi metri dal mare, quindi inadatta e dannosa per la salute di bambini di così tenera età.
Nel lontano 1958 fu operata altra scelta errata, destinando la stessa zona alle erigende Scuole Elementari “G. Modugno", già citate. Allora, unica scusante poté considerarsi la scarsa sensibilità della pubblica opinione (e della classe dirigente) ai problemi dell'habitat e in particolare dell'urbanistica, ma oggi, a 25 anni di distanza, la cosa è addirittura assurda. Si cominciò allora a creare una massiccia barriera contro il mare, privando abitanti e cittadini dell'affaccio alla costa ed ora, imperterriti, senza soluzione di continuità, si prolunga tale barriera quando, fuori dell'abitato, è vietato costruire a meno di m. 300 dalla battigia!
Il posto è inidoneo anche per il traffico, già caotico, che ingorgherebbe ancora di piú l'unica strada di disimpegno, la via Procaccia; situazione tanto piú pesante, dato che il progetto non prevede il prolungamento di una delle più belle vie della città, via Europa Libera.
Per di più, il suolo in parola di proprietà degli eredi Russo ed altri, (contro cui è in corso procedura di esproprio) presenta natura carsica, geologicamente singolare, con grotte assai profonde, circostanza emersa in occasione della costruzione della ricordata Scuola elementare, che avrebbe dovuto sconsigliare un insediamento pubblico per il considerevole incremento di spese che l'opera certamente comporterà.
Va opportunamente ricordato che il vecchio Piano Regolatore (Capitanio), mentre aveva recepito il progetto di sistemazione della zona; approvato in occasione della costruzione delle Scuole elementari “G. Modugno”, che prevedeva il prolungamento di via Europa Libera, con sbocco a mare e attraversamento di un Lungomare che collegasse le Mura antiche e Cala Portavecchia con Porto Bianco e Porto Rosso, inopinatamente prevedeva anche, a sud della strada ad aprirsi, una zona residenziale a villette.
Col nuovo Piano Regolatore (Piccinato) in regime di salvaguardia, fu impedito a privati di costruire in detto suolo, anzi furono revocate le licenze già concesse, il ché non poteva significare altro che la opportuna non costruibilità del suolo Stesso.
Invece, con designazione contraddittoria certo censurabile, l'infausto Piano Piccinato prevedeva su detto terreno, il sorgere di…un'altra Scuola! Ciò che insomma non era lecito a semplici cittadini, era invece lecito alla Pubblica Ammínistrazione! Bell'esempio di logica, di coerenza e di…lungimiranza urbanistica!
Per le ragioni innanzi esposte, il sottoscritto chiede: in via principale, il trasferimento in altra zona della Scuola materna; in via subordinata, il riesame e la ristrutturazione del relativo progetto, sì da assicurare il prolungamento di via Europa Libera sino alla costa e la creazione dell'indicato Lungomare. Tale seconda soluzione è oltremodo facile e praticabile, dato che il suolo disponibile è ben mq. 7.000 e la superficie coperta solo mq. 700.
La prima soluzione è certo ottimale, dal punto di vista urbanistico, igienico-sanitario, socio-economico, geologico e panoramico, la seconda rappresenta il minimo che un paese civile e chi lo amministra deve fare, se si vuol conservare almeno l'ombra di quelle doti di intelligenza e buon senso, doti antiche e peculiari della nostra gente.

Monopoli, 16.12.1983



REMIGIO FERRETTI


In riferimento al Suo esposto, concernente l’edificio della Scuola Materna in località Portavecchia, mi premuro rimetterLe copia della relazione dell’Ufficio Tecnico Comunale in proposito, da cui può evincersi facilmente che l’eventuale accoglimento delle Sue argomentazioni ritarderebbe enormemente la realizzazione dell’opera pubblica in questione, con possibile notevole aggravio di spese e con sicuro danno della collettività locale, che vedrebbe ancora una volta frustrate le proprie legittime aspettative.

Con l’occasione Le porgo i più cordiali saluti.

Il Sindaco


WALTER LAGANA’


In riferimento alla sua risposta relativa al mio esposto, tendente ad ottenere lo spostamento della Scuola materna in costruzione in Monopoli, zona Portavecchia, o almeno, una ristrutturazione del progetto, sì da consentire lo sbocco a mare della Via Europa Libera, mi premuro precisare quanto segue: L'eventuale e comunque non eccessivo aumento di spesa e il lieve ritardo nella realizzazione dell'opera pubblica non possono in alcun modo giustificare il gravissimo scempio perpetrato ai danni di un'intera cittadinanza, che vedrebbe chiuso uno sbocco a mare di grande rilevanza urbanista, panoramica ed igienica, e distrutto uno dei pochi polmoni della costa urbana. In ciò, sig. Sindaco, consiste “la legittima e davvero frustrata aspettativa della collettività locale".
Né a tale infausta decisione fa da supporto la infelice e scarna relazione del suo Ufficio tecnico. La tipizzazione della zona secondo il P.R.G., quanto mai errata, non poteva impedire, all'atto della redazione ed approvazione del progetto, la ricerca e la scelta di una soluzione (il minor male) che almeno salvasse lo sbocco a mare di via Europa libera e il disimpegno viario della zona. Né può importare la intervenuta approvazione o l'appalto già espletato. Il rimedio è semplice, universalmente praticato: una semplice “Variante in corso d'opera”! Quindi, niente revoca del progetto (!) e dell'aggiudicazione dei lavori (!). Tanto, ovviamente almeno ai fini dell'accoglimento della “subordinata" da me prospettata. Nella tesi del suo Ufficio tecnico mi pare affiori, tra le righe, una visione preconcettualmente ostile ad ogni e qualsiasi possibilità di soluzione diversa, anche se migliorativa. Si tratta, ancora una volta di una visione feticistica e cieca del Piano Piccinato!
Nella vana speranza di un miracoloso suo ripensamento che, al di là del suo “efficientismo", colga con intelligenza e sensibilità, la vera essenza del problema che mi son premurato di sottoporle, spinto da nessun altro interesse, se non il bene della nostra Monopoli, le invio ossequi.


REMIGIO FERRETTI


Pubblicata su “Meridiano Sud” del 15/1/1984.

4.12.12

ILVA: Una proposta indecente


Quello che pesa soprattutto nel modo di fare politica in questo tempo immorale è il fiato corto, lo sguardo miope, il vezzo di volare sempre bassi e rasentare la sudditanza e l'acquiescenza. Si è smarrita la tensione verso traguardi non dettati dal mero utilitarismo edonistico, ma dalla parte alta del torace, dalla forza che muove gli astri, dal desiderio di uguaglianza e di giustizia per tutti. Il caso dell'ILVA macera solo le coscienze di chi non ha mai avuto voce, di chi sa ancora inforcare il binocolo e guardare lontano e, come gli operai con quello materiale, sopravvive al proprio sfruttamento intellettuale. Tommaso Moro nel 1516 immagina un modello di società ideale che denomina Utopia. Non avrebbe mai immaginato però che questo modello, seduto accademicamente sul futuribile, sarebbe stato sconfitto e sbeffeggiato proprio da quel tempo futuro nel quale avrebbe avuto più possibilità di avvicinare la sua realizzazione. Noi inguaribili sognatori, sosteniamo ancora la volontà di mantenere accesa la candela della speranza al di fuori dell'accampamento dove padre Balducci collocava gli esclusi e gli sconfitti. E vengo alla proposta: il gruppo RIVA ha incamerato negli anni miliardi di euro indifferente alla morte che aleggiava intorno alle sue fabbriche. Ma fermiamoci ai 3,5 miliardi che occorrono alla bonifica. La produzione si deve fermare. Anche un altro solo tarantino che si ammali, un altro bambino che nasca con problemi genetici, una sola vita che ancora venga immolata sull'altare della produzione globale è un dazio insostenibile. Allora 3 miliardi e mezzo di euro bastano per garantire uno stipendio medio di 1300 euro per più di tre anni a 50.000 dipendenti. Nel frattempo il gruppo RIVA deve essere obbligato a risanare e quanto meno tempo ci impiegherà a farlo meno reddito di solidarietà dovrà erogare. Utopia? Forse. Ma ne abbiamo tanto bisogno.

29.5.12

Il gioco del calcio


1968. Un anno che di solito viene citato solo con le ultime due cifre, perché non può confondersi con nessun altro secolo. Avevo da qualche tempo iniziato a seguire il calcio. Come fanno tutti i bambini: i colori del gagliardetto, gli amichetti, le figurine, le belle giocate. Non era lo sport che praticavo ma, prima o poi ti ci trovi immerso e coinvolto. Coltivavo la mia passione da solo in casa, contro tutti, in ossequio al mio carattere ribelle, un papà interista e democristiano (che sfiga!) e mamma e fratello juventini: che brutta compagnia! Il calcio era la Radio. Quella a transistor, portatile, che stressava le pile e gracchiava le voci. Oppure il Radiogrammofono gigante, a valvole, che impiegava dieci minuti per accendersi e, dovevi calcolare bene, altrimenti ti perdevi l’inizio di “Tutto il calcio, minuto per minuto”. La Tv aveva due canali e due colori e faceva stare in linea, perchè dovevi percorrere tanti metri al giorno per commutare. La tivvù dei ragazzi e poi, all’interno del Telegiornale (quello col mappamondo), notizie di sport, ma solo quali partite si sarebbero giocate e la classifica. Niente commenti, gossip, telecamere nei bagni dello stadio e quant’altro. La Domenica era il clou. Partita in differita alle 19. Poi la Sportiva alle 21, che dribblava anche il Carosello, per noi destinati inderogabilmente al letto. Gianni Rivera il mio mito. L’abatino di Brera, quello che sembrava stesse su un parquet con la stecca da biliardo ai piedi. Quello che parlava alla palla come ad un essere vivente, indicandogli la strada giusta. Quello che nessun difensore osava toccare perché temevano di essere colpiti da una stregoneria. Quello che apriva la strada a Pierino PratiLaPeste, e il pallone di cuoio cucito a mano, non una sfera perfetta, andava dove andava, dove doveva andare. Il Milan di Nereo Rocco, il “paron”, ogni intervista a rintracciare l’Italiano smarrito, in mezzo ad un gergo misto dialetto-calcese. Era frequente per tutti snocciolare la formazione preferita a memoria come fosse San Martino di Carducci. Gli altri giocatori? Semisconosciuti, se non fosse per le figurine Panini. Iniziai a giocare una schedina del Totocalcio. Due colonne costavano 50 lire quanto un cono gelato con (poca) panna, di quelli che ti si squagliavano tra le mani e poi lo finivi leccandoti le dita. Una volta, avevo undici sulla scheda e aspettavo il risultato di Milan-Fiorentina che si doveva vedere alla TV, in differita. Il mitico Enrico Ameri (che poesia!) non diceva il risultato finale alla fine della trasmissione radiofonica per lasciare il brivido della suspence. Ovviamente avevo l’1, manco a dirlo. Il Milan vinse 2-0 e feci dodici. Vinsi 35.000 lire e le misi nel salvadanaio, quello blu della Banca dell’Agricoltura, con maniglia e chiave su cassetto a ribalta. Come Pulcinella, non ricordo più cosa ne feci. Il Gioco era gioco. Nudo e crudo, puro e azzimo, come il pane che ti nutre e non ti gonfia, zolloso e non ampolloso come il campo degli stadi del 1968, dove garretti e terreno erano tutt’uno, dove si prendeva a calci la palla e non la vita.

21.5.12

Ex Italcementi: rifacciamo Villa De Martino!


Nelle tiepide serate d’agosto dopo che gli ultimi filamenti di sole rossastro avevano disegnato l’aria si preparavano i tavolini e gli scranni dell’orchestrina. Fra poco sarebbe stata musica e folla, fra poco le coppie avrebbero danzato sulle note dei più famosi “chansonnier”, fra poco l’atmosfera sarebbe stata intrisa di festa e di magia. I nostri padri, le nostre zie, gli amici di famiglia, i notabili e i borghesi più semplici, tutti avrebbero provato l’inebriante volteggiare nel verde, immersi tra palme e pineti, tra bouganville e ciclamino. Sarebbero sbocciati amori, ne sarebbero tramontati altri, si sarebbe discusso di progresso e civiltà, di ideali e di sogni di grandezza, si sarebbero gustate le tele e i colori dei pittori di Puglia. Questa era Villa De Martino negli anni ’50. Un’oasi di verde e seduzione. Poi il cemento sovrano e cieco, ebbe il sopravvento. E Villa De Martino sopravvive nei ricordi, e in un triste giardinetto soffocato sotto via Barnaba.
La Villa De Martino con annesso palazzo signorile fu realizzata da Carlo De Martino, armatore monopolitano, su suggerimento della moglie di origini torinesi, Bice Gazzo. L’area verde di oltre un ettaro, con affaccio sul porto, era impreziosita da una statua di Diana cacciatrice e offriva spazio a serate danzanti e varie manifestazioni. Dopo il trasferimento di proprietà ai Giannulo, all’inizio degli anni ’60, venne quasi completamente distrutta per fare posto ad un gruppo di fabbricati. Nel sottosuolo vi è una cripta con alcuni affreschi. Casualmente anche a Posillipo esisteva una “Villa De Martino” che, nel 1962, venne distrutta per far posto ad un palazzo di cinque piani, dando impulso anche ad una interrogazione parlamentare.
Leggo del progetto di “riqualificazione urbana” (sotto questo attributo può nascondersi di tutto), dell’area Italcementi. Leggo di cubature e volumetrie. Leggo di cemento ancora sovrano e cieco. Abbiamo un’occasione per chiedere perdono alla Storia: restituiamo Villa De Martino ai monopolitani. In quei luoghi quasi confinanti alla sua posizione originaria. Restituiamo alla città un polmone sul mare, un balcone verde sull’azzurro. Ritroviamo il gusto della convivialità sobria e civile in un contesto unico e imperdibile. Ce ne sarebbero grate le generazioni a venire.

13.3.12

Ciao Lucio


Ciao Lucio
ci hai lasciato
in un soffio di primavera.

Eravamo tutti in Piazza Grande
avevamo ancora bisogno
di carezze e di sogni
di lenzuola bianche e di briganti

eravamo tutti lì
c’era Tazio, Ayrton,
l’Avvocato e Bonetti
c’erano Anna e Marco
che si tenevano per mano
c’era tua figlia Futura
e il Ballerino stanco
c’era tua mamma geniale
ti chiamò Signore
Gesù fra i pescatori.

Due ragazzi nascosti
innamorati in un rottame
per loro ci sarà sempre
una sera dei miracoli
per loro sfreccerà
il motore del 2000
invecchiato senza età
perché non è riuscito
a disegnare
il cuore del ragazzo.

Ti parleremo ancora
telefonando tra vent’anni
raccontandoti la vita
il sole
la stella di mare
le tue isole vergini
l’ultima luna
il suo parco
e l’anno che verrà.

Ciao Lucio
guarderemo ancora in alto
dove le rondini
si fermano
sul naso dei vecchi
dove leggono nel cuore
da dove arriva
questo strano dolore
e cosa sarà
che fa crescere gli alberi
e la felicità
che ti porta a cercare giustizia
dove giustizia non c’è.

Ancora più in alto
dove canta Caruso
dove ballano gli angeli
due dita sopra il cielo.

16.12.11

Feste da rottamare.


Vogliono cancellare il giorno di festa della Madonna della Madia.
Le riflessioni che sono scaturite ad un agnostico
che ha sempre lavorato quel giorno, sono apparentemente contraddittorie.
E' una tendenza di moda, un trend come si dice.
Cancellare le festività, che siano civili, religiose o patriottiche.
Il primo maggio, la liberazione, le feste patronali.
Tutte in un vecchio scatolone, tutte al macero senza riciclo.
Tutte sacrificate sull'altare della produttività, della crescita.
Per andare dove, nessuno lo sa. 
Per produrre cosa e per chi, nessuno ce lo dice, neanche i professori al governo.
E centelliniamo allora con avidità quel profumo fragrante, quell'aria sottile e invitante
che ci avvolge quando passeggiamo le mattine imbrunite di queste ultime giornate di festa.
Quanto sarebbe bello investire in cultura, arte, poesia, ambiente.
Quanto sarebbe bello capitalizzare una giornata di festa 
anzichè il grigio patrimonio di un Istituto di Credito.
Quanto sarebbe bello rivitalizzare la storia, le tradizioni, le ombre maestre del passato.
Ci aiuterebbero a vivere meglio, a rispettarci, ad apprezzare la vita e le sue grandezze interiori.
Cresceremmo si, e pagheremmo i nostri debiti con la grandezza delle nostre anime.

21.10.11

Se questo è un uomo

Ancora una volta accade che l'uomo si appropria delle credenziali del carnefice, sottraendole a chi le ha esercitate fino al giorno prima...Homo homini lupus...La forza della giustizia soccombe alla debolezza della violenza.

E le sterotipate verità globali lavano il cervello dei giusti e degli onesti.
Quando accade ciò mi ritorna sempre alla mente questa poesia sempreverde di Primo Levi.


Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

19.9.11

I fuochi di Najm*



La prima volta che Najm alzò gli occhi verso il cielo aveva quattro anni. Il papà lo aveva condotto al limitare del recinto dove il sole rosso inondava la pianura dei suoi ultimi rami sanguinanti.
E dietro quegli ultimi raggi, nella nera metà del cielo che tracimava imponente, si accesero dei fuochi...
Almeno Najm pensava che fossero fuochi. E lo chiese al papà.
"Sono segni della presenza divina, Najm. Noi li adoriamo e li rispettiamo perchè vigilano severi su di noi. Se ci comportiamo bene con loro la nostra vita sarà propizia e le messi rigoglieranno e gli armenti ingrasseranno". Najm, incantato, li fissò per molto tempo, fino a che la voce del padre lo scosse e il collo gli fece male.
La famiglia di Najm viveva in una sperduta landa dell'Asia Minore, agli albori della civiltà. Il papà faceva il pastore, così come il nonno, così come tutti gli antenati, così come tutto il mondo conosciuto, che non era poi grandissimo. Najm sapeva che anche lui avrebbe fatto il pastore e fino al momento in cui guardò per la prima volta il cielo nessun dubbio a tale riguardo aprì una breccia nelle sue certezze.
Da quella sera in poi non andava a dormire senza prima sedersi a cavalcioni sulla recinzione a guardare "i fuochi". Seguiva, spingeva, dolcemente, il sole giù, giù, dietro le colline, e rapidamente abbracciava le altre presenze che incombevano. E così per tante sere, come fosse un dovere. Quando il tempo era inclemente e la notte era nera e spaventosa si accucciava nel suo giaciglio e si concentrava...Immaginava i "suoi" fuochi che solcavano il nero della vita....
Passò il tempo e Najm diventò esperto nell'arte del pascolo. La mattina precedeva di qualche ora il sole e accompagnava il papà nei lunghi percorsi sulle pianure desolate ma ricche di foraggi e sementi. Questi, gli aveva insegnato tutto quello che serviva a condurre le greggi in modo sicuro, autoritario, ma insieme dolce e comprensivo. Quegli animali erano la sua famiglia allargata. "Ricordati che se non ci fossero loro non avremmo ragione di esistere neanche noi", lo ammoniva la voce calda e rasposa del genitore.
Le voci dei pastori hanno questa caratteristica: per anni governano il gregge con comandi vocali la cui intonazione è recepita e riconosciuta al volo dalle orecchie delle bestie; pare che si stabilisca un idioma sconosciuto fatto di gesti e invocazioni, un vocabolario sui generis. Ma alla lunga le corde vocali umane subiscono variazioni morfologiche: esse non vibrano più con la stessa intensità, ma pare si adagino nella culla embrionale del tempo perduto, si schierano in retroguardia, sagge e pazienti.
Le giornate trascorrevano sempre uguali e monotone, ma Najm aveva il suo appuntamento fisso al quale non mancava mai. I fuochi lo attendevano pazienti e il suo arrivo pareva eccitarli: sfavillavano come fiaccole inestinguibili rischiarando la notte silente e tiepida di quelle latitudini.
La sua era una splendida ossessione. Passava da un vertice all'altro del recinto, saliva come un furetto sugli alberi più alti, sporgendosi per cercare di toccarli. Lanciava loro delle pietre, ma piano piano, per paura di spaventarli. Si chiedeva continuamente se fosse vero che decidessero il destino delle persone. Alcuni vecchi del villaggio avevano dato dei nomi di animali ad alcuni di essi, come se incarnassero le loro caratteristiche.
Lentamente si convinse che fosse così. Dentro di lui maturò una decisione. Avrebbe agevolato il loro compito. Nella vita si sarebbe comportato in maniera coerente e leale e li avrebbe amati come se fossero stati dei Grandi Maestri.
Il suo appuntamento serale era così divenuto un'occasione di riflessione e dialogo: con sè stesso e con i suoi Maestri. Rifletteva e spaziava su tutto. Sulla sua famiglia, sul gregge, sul raccolto, sulle stagioni che si susseguivano foriere di buoni o cattivi presagi. E poi ancora più dentro di se: le ragioni della sua esistenza, cosa lo guidava, perchè sentiva dentro di sè sempre una strana sensazione di indomabile anarchia, di orizzonti mai raggiunti....
Una sera si fermò il tempo. Lo chiamarono a gran voce ragazzini giunti stremati al limitare della pianura, dove le greggi riunivano le fila e si preparavano al ritorno. "Corri Najm!" Bastarono queste parole. Mentre divorava la distanza che lo separava da casa percepì che la sua vita era ad una svolta.
Era steso su un giaciglio di povere vesti. Respirava a fatica. La fronte bruciava. Vide Najm, il suo piccolo Najm. "Caro" - ebbe la forza di dire - "Sii forte e fai sempre quello che senti, quello che trovi giusto per te e per chi ti ama". E gli strinse forte le mani.
Non pianse Najm. Scolpì all'interno del suo cuore queste parole e lentamente, allontanando tutti, si recò al suo appuntamento.
Erano lì, come sempre, i suoi fuochi, i suoi Maestri. Parvero ondeggiare e brillare più vivi al suo arrivo. Si mise a cavalcioni, come sempre. Mentre sentiva ancora forti e chiare le parole del papà una brezza improvvisa venuta su da chissà dove, spazzò la pianura e si insinuò lungo la sua spina dorsale. Si accese un altro fuoco in cielo. Una luce brillante si affiancò alle altre. E una lacrima viva scese sulle guance di Najm. Il suo papà era lì con lui.
Da quella sera riconosceva quel fuoco dovunque si trovasse...gli pareva che la sua luce brillasse più viva e le pulsioni del suo cuore corrispondevano alle intermittenze nel cielo. I suoi stati d'animo, la sua collera, la sua tristezza, la sua serenità erano riflessi multicolori nell'immensità. Sapeva di non essere solo e questa consapevolezza lo sosteneva e gli dava forza per affrontare la vita e non perdere mai la voglia di sognare e di volare alto.
La voglia di sognare l’accompagnava da bambino. Si sentiva "diverso", ma nello stesso tempo non voleva sentirsi tale. Anzi il suo desiderio più grande era condividere queste sensazioni con gli altri. Non riusciva ad immaginare come l'umanità fosse totalmente impegnata a rinchiudersi in piccole incombenze materiali. Aprire il cuore alla natura, al cielo, conversare con i "fuochi", non sapevano che cosa si perdevano!
E ogni sera cercava un dialogo più forte, più denso, più intimo con i suoi Maestri. Ora che il suo papà era con loro voleva raggiungerli, toccarli, amarli, voleva fondersi con la loro essenza sovrumana, voleva CAPIRE, finalmente.
Accadde una sera, in autunno avanzato. Raggiunse come sempre il luogo del suo raccoglimento. Salì sull'albero più alto che dominava la pianura. I fuochi tremavano, sfregolando nel buio. Si rivolse a loro pensando ad alta voce: "Il mio percorso è giunto alla fine. Mi avete guidato, amato, istruito. Ora sono pronto. Il mio desiderio è comprendere il senso della mia esistenza. Il mio destino è guidare altre anime alla fonte della vita. Eccomi a voi, eccomi papà, abbracciami!"
Lo attesero per tutta la notte. Il mattino dopo lo cercarono invano e qualcuno pensò che fosse fuggito, lontano dalle sue responsabilità: "E' stato sempre un ingenuo sognatore".
Quel giorno stesso arrivarono al villaggio tre cavalieri. Il loro aspetto era stanco e sofferente. Ma le loro vesti e il loro portamento indicavano che si trattava di personaggi di alto lignaggio. "Ci siamo perduti" - dissero - "Avete cibo e giacigli per farci riposare? Possiamo ricompensarvi".
Il membro più anziano della comunità rispose che per loro l'ospite era sacro e che nonostante la loro povertà avrebbero avuto ciò che desideravano.
Qualcuno chiese loro dove fossero diretti. "Ci hanno detto di seguire un evento meraviglioso che si compirà nei prossimi giorni, verso ovest. Sapevamo di dover fare molta strada, ma ora non sappiamo quando nè dove arrivare." Si fermarono a mangiare e riposare e furono grati a tutti gli abitanti del villaggio.
Qualcuno raccontò loro la storia di Najm. Vollero visitare il luogo della sua scomparsa. La sera stessa erano sul posto. D'improvviso un grande fuoco apparve in cielo. Una luce immensa con una scia abbagliante. 
Si mosse e i tre cavalieri capirono.
Dovevano seguire la stella. Najm gli avrebbe guidati.
I loro nomi erano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

*Najm in arabo significa "stella"

2.2.11

Sottobraccio (Un vecchio e una ragazza down)

La ragazza era forte
Forte il braccio
Deciso il passo
Al braccio un altro braccio
Esile incerto
Un vecchio incanutito
Lento opaco
Forte sottobraccio
Fragile alla deriva
Intorno voci
Risate bestemmie
La vita che scorre
Indifferente atona
Il braccio si stacca
La ragazza si volta
Sorride
Ridono i suoi occhi
Mandorle amare
Piomba il silenzio
Scava nel fondo
Squarcia la pietra
S’allontana dal braccio
Attende distante
Attende che torni
Quel braccio agognato
Il vecchio barcolla
Cerca il suo braccio
E’ lì a due passi
Distanza infinita
“Forza!” gli grido
Il tuo braccio attende
Fedele per sempre
Ecco si stringe
Il cerchio d’amore
Vanno felici
La vita spietata
Belli nel sole

27.1.11

Lento


Lento
sciorinare le ore
piene
vaste
acute.

Lento
galleggiare la storia
torva
impervia
negletta.

Lento
sorvolare la pianura
grigia
umida
estranea.

Lento
strappare il sipario
spesso
nero
crudo.

Lento
assaporare l'alba
rosea
gravida
provvida.

31.12.10

Penso

Penso alle anime lontane
Deboli indifese
Penso a chi non pensa
E pensa una volta sola
Penso ai giudici facili
E alle persone difficili
Penso ai sogni stracciati
E a quelli che non sogniamo
Penso ai volti noti
E quelli che vorremmo conoscere
Penso agli estranei
E quelli che vorremmo amare
Penso ai volti inutili
Quelli che vorremmo cancellare
Ma che scolpiti ci segnano
Penso alla follia di donarsi
Penso alla ragione di negarsi

Penso a te
A quelli come te
Che hanno un posto riservato
Che hanno un volto disegnato
Che hanno un mare circoscritto
Che hanno un volo genuflesso
Penso di planare
Su una terra rizollata
Abbracciato all'infinito.

14.5.10

Il trapezista



La corda oscilla nell'aria vibrante
l'afferro rapito, deciso
coriandoli di luci festanti
cantano algidi e proni
salgo, m'avvito, mi ergo pugnante
voglio l'alba, l'acme, l'estatica fine
la musica impazza,
ridono i fuochi sui palchi
sciamano sublimi le volpi
sfuggono e nascondono le lame
sotto i bruniti mantelli.

Sono su, li guardo.
Penzola il mio destino beffardo
ho voglia di sfida
ho voglia d'eterno
ho voglia di volo
ho voglia di sogno.

Vienimi incontro amico mio trapezio
vienimi incontro e chiama il mio nome
adorami e incrociami lo sguardo
vienimi incontro sprezzante
io tenderò la mano
ti stringerò le sbarre
vieni e salvami
amico mio ultima spiaggia
geometrica forma
del mio ultimo volo.

Ecco sono pronto
la musica gracchia sovrana
la folla vaneggia ondeggia pullula
sono pronto teso grondante
gli arti fremono impazienti
sono pronto mi lancio

abbracciami trapezio
portami con te nel cielo
bucami il sole il nulla
travolgimi di stelle
con te nell'infinito
amico trapezio ignaro
del mio folle desiderio.

27.4.10

La notte




La notte è bianca
sole di mille soli.
torva
umile, gravida.

La notte urla
nel sonno dei padri
beve
il sangue dall'urna.

Prego nella notte
un cielo senza dei
complice la notte
vorace firmamento.

Vorrei questa notte
bere il calice del male
ungere il corpo degli eletti
sfilare l'anima dal guscio.

Cosa porterà la notte?
Grembo acerbo dell'aurora
o fragile aroma del mattino?

Rintocchi angusti della notte
segnano il passo del destino
corvi attendono il verdetto
gracchiano futili singulti.

La notte sorseggia avidamente
domande cieche di terrore.
apre dolcemente
saggi fauci dell'ignoto.

23.4.10

Ho fatto l'amore con un sogno














E'accaduto all'improvviso
come un tuono
in una notte di silenzi
come un sorriso
in un bosco di lacrime

sto correndo
e il sangue pulsa
urla nelle vene
implorando libertà

corro corro
e il corpo rimane corpo
e l'anima si separa
e mi guardo dall'alto
e si fa luce il tuo viso
orizzonte, cielo,
universo.

Ho fatto l'amore con un sogno
ho fatto visita al paradiso
ho ballato la danza dei soli
sono entrato nella stanza del tempo.

Ho fatto l'amore con un sogno
e ho fatto di un sogno la vita.

Vorrei restare rinchiuso
per sempre abbracciato al mio sogno
vorrei guardare il mio corpo
inutile involucro finito
restare per sempre nel sogno
albergo infinito di noi.

19.4.10

La tua guancia


Vorrei la tua guancia
Amore mio
Solo la tua guancia
Da sfiorare da baciare
Nelle notti insonni
Nelle fughe volanti
Fra lacrime cadenti

Vorrei la tua guancia
Nuda sul mio petto
Nudo sulla tua guancia
Il mio cuore vibrante
Scandente urlante
Nudo pulsante

Solo la tua guancia
Anticamera di te
Splendida infinita
Entropica atavica
Culmine e fulmine

La tua guancia
Parte di un corpo
Incastonato in me.

La cometa


Rattrappito vagavo
spiaggia sferzata
da scrupoli e dubbi
disperati silenzi
ammorbavano l'aria.

Ignote fiammelle
punteggiavano il tramonto
vacui appigli
ad un cuore disperso.

Da lungi una scia
ha scosso l'orizzonte
fiera, maestosa
sfidando il nero
infinito del nulla.

Hai dipinto l'universo
monocromo, inerte
hai scatenato un'orchestra
di angelici cori.

Voglio perdermi in te
magnifica cometa.

20.11.09

Brenda


Hai pagato il prezzo
Ad un mondo che ti ha scartato
Incidente biologico
Nuda, sola, disfatta
Bruciata dai tizzoni
Del potere screanzato
Putrido e becero
Brenda, sola
Hai pagato il prezzo
Allo spettacolo bestiale
Dei leccapiedi prezzolati
Immondezzai di regime
Brenda archiviata
Giocattolo per annoiati
Anima dannata
Hai pagato il prezzo
Per gli scheletri negli armadi
Amori infami
Consumati e nascosti
Sotto i tappeti della vergogna
Perdona il nostro disprezzo
I nostri poveri luoghi comuni
I nostri miseri intrallazzi
Il tuo spirito è libero
Rincorre la libertà
In un mondo più giusto.

10.11.09

Una fiaba: Ferdinand il falegname

C’era una volta un vecchio falegname che si chiamava Ferdinand e viveva in un piccolo paese della Linguadoca francese a circa 200 chilometri da Marsiglia. Il paese si chiamava Florac ed era immerso in un parco naturale. Ferdinand fin da bambino aveva imparato il mestiere dal papà e aveva fatto il falegname tutta la vita, non spostandosi mai dalla sua piccola botteguccia che si trovava a fianco della sua casetta, in pieno bosco, alla periferia del paese. Però Ferdinand il falegname aveva una particolarità: quando era bambino i suoi genitori, poveri, non avevano mai potuto comperargli un giocattolo e la sua infanzia era stata molto triste. Perciò ben presto specializzò la sua arte nell’aggiustare tutti i giocattoli che i bimbi del paese gli portavano. Ovviamente da questo mestiere non guadagnava molto, giusto il necessario per vivere, ma grande era la sua soddisfazione nel vedere gli occhi brillanti di quei pargoletti che uscivano dalla sua botteguccia felici per aver ritrovato come nuovo il loro passatempo preferito. Poi passando gli anni i suoi clienti purtroppo erano diventati sempre di meno. La tecnologia aveva spodestato i vecchi giocattoli anche nelle preferenze dei bambini del piccolo paese montano di Florac e lui, ormai anziano, aveva chiuso la sua botteguccia e viveva di una modesta pensione sociale, aggrappato ai suoi ricordi. Un giorno si era alzato presto, come al solito e si era affacciato alla porta cigolante della sua botteguccia e aveva osservato a lungo i suoi attrezzi lucidi e ordinati come tanti soldatini in riga, ma tristi nella penombra creata dalle imposte sbarrate. “Eh si!” – sospirò – “Vi sentite soli, vero? Ormai tutti vogliono computer e tutte quelle diavolerie elettroniche! Nessuno aggiusta più niente, si butta via tutto!” Si chiuse la porta alle spalle e si avviò verso il paesello per acquistare un po’ di pane e salame. Arrivato vicino alla fermata dell’autobus notò un certo trambusto, Vide una signora vestita molto bene che chiedeva informazioni. Il cappellano del paese lo vide arrivare sulla piazza e lo indicò con il dito alla signora. Sembrava che cercasse proprio lui, ma che aveva a che fare con quella signora così elegante? La donna gli si avvicinò e gli chiese: “E’ lei il signor Ferdinand? – Si, sono io. – Sono qui per chiederle un grande favore. – Mi dica, se posso aiutarla?” Ferdinand non capiva che cosa potesse volere da lui quella gran signora. “Venga entriamo nel bar”. Si sedettero ad un tavolo e la signora cominciò. “Mi chiamo Justine, ho una figlia di 8 anni si chiama Dominique ed è tanto malata, - Mi dispiace - disse Ferdinand - ma io non sono un dottore. “Lo so, lo so. Io so che Lei però è bravissimo a riparare i giocattoli, ed è di questo che ho bisogno”. “Guardi – cominciò Ferdinand – ormai sono tanti anni che non riparo più nulla ed i giocattoli moderni non li capisco.” No non si tratta di computer – disse Justine – mia figlia aveva un orsacchiotto che si chiamava Barbablù e quando è dovuta andare in ospedale il nostro gatto se ne è impossessato e lo ha praticamente distrutto. La mia Dominique non dorme più e piange continuamente. Sa, non ne avrà per molto, il suo male è spietato e non mi chiede altro che il suo Barbablù.” Ferdinand rimase turbato da quella richiesta. In effetti era tanto tempo che non lavorava più, ma di fronte a quella richiesta cedette. “Dove si trova Barbablù? – chiese. Justine aprì il borsone e prese un pacchetto. Ferdinand lo scartò e vide Barbablù. O meglio quello che restava di Barbablù. Gli artigli del gatto avevano avuto un effetto devastante. Non c’erano più gli occhi e le zampette e il ventre era squarciato e tutta la lana di vetro dell’interno era fuoriuscita. “Ecco – disse Justine porgendogli una foto – come era prima.” Sulla foto si vedeva Dominique, una bella bimba bionda, stringere al petto un simpatico orsacchiotto. Ferdinand notò che Barbablù indossava un cappellino e guanti di lana, aveva delle babbucce e una pipa. Poi capì l’origine del suo nome: sul mento si intravedeva un bel pizzetto blu. “Accipicchia – disse Ferdinand – è un lavoro complicato.” “La prego – disse Justine. lo faccia per Dominique. Ferdinand la accompagnò all’autobus, la salutò e le chiese: “Dove vi trovo? – “Siamo al Saint Michel Hospital, a Grenoble.
Ferdinand si mise subito al lavoro, spalancò le imposte della sua botteguccia e seduto al suo tavolo esaminò la foto. “Il problema principale sono gli occhi” – pensò. Babbucce, guanti e cappellino li avrebbe cuciti all’uncinetto. La lana di vetro e la pipa non erano un problema. Il pelo finto lo avrebbe ricavato e colorato dai residui che aveva nel suo laboratorio. Il naso, bocca e orecchie li avrebbe solo ritoccati. E le zampe? Uhmmmmmm….Forse aveva qualche manina di bambola, le avrebbe ricoperte ed incollate agli avambracci, Il problema erano gli occhi. Dove andava a trovare quelle pietre azzurre con i pochi soldi che aveva? “Vabbè diamoci da fare.” In pochi giorni aveva quasi completato la sua riparazione e mancavano gli occhi e il pizzetto. “Il pizzetto lo faccio per ultimo – pensò – così sceglierò la tonalità di azzurro in base agli occhi.” Una volta, si ricordò, aveva letto una rivista dove c’era una pubblicità di un posto dove vendevano delle pietre adatte a creare gli occhi di bambola con riflessi che simulavano le cornee e le pupille. Lo cercò ansiosamente in una vecchia cassapanca e alla fine lo trovò. “Marsiglia? No e come faccio ad andare a Marsiglia?” Ferdinand non aveva la macchina e neanche la patente. Non si era mai mosso da Florac. Andò a rovistare nel cassetto del comodino e poi nella vecchia caffettiera a carbone della nonna dove nascondeva qualche soldo. 50 euro e 27 centesimi, Andò di corsa alla fermata dell’autobus e chiese come si faceva ad andare a Marsiglia. L’autista disse: “Noi arriviamo fino a Briancon poi deve prendere il treno.” “Quanto costa?” “30 euro in tutto”. “E poi come torno?” – pensò. Vabbè la Provvidenza mi aiuterà. Prese i suoi risparmi, una borsa con dentro Barbablù e qualche indumento ed attrezzo e partì. Arrivò a Marsiglia e pioveva che Dio la mandava. Andò all’indirizzo dell’orefice e vi arrivò bagnato fradicio, Si sedette a riposare un po’ poi entrò e trovò le pietre che gli servivano. Erano proprio due occhioni azzurri bellissimi, Pagò e gli rimasero in tasca solo 5 euro. Come sarebbe tornato a Florac? No, decise, sarebbe andato direttamente a Grenoble per consegnare Barbablù alla sua padroncina. Nella sua borsa aveva portato la colla necessaria per dare a Barbablù i suoi occhi, Si rimise in marcia e avrebbe chiesto un passaggio fino a Grenoble, c’era una strada molto importante che univa le due città. Sempre sotto la pioggia si fermò sul ciglio della strada finchè un camionista non ebbe compassione di quel vecchio che agitava la borsa disperato. Lo portò fino a Grenoble pensando che gli mancasse qualche rotella perché parlava di un orsacchiotto, di una certa Dominique e di un certo Barbablù. A Grenoble chiese dell’ospedale Saint Michel che si trovava al termine di una lunga scalinata. La percorse a passo di carica mentre il cuore gli saltava nel petto e il respiro si faceva sempre più affannoso. Infine arrivò all’ospedale e chiese dove si trovasse Dominique. “E’ in quella stanza” – disse un’infermiera, ma non si può entrare. Ferdinand si avvicinò alla stanza poi si ricordò che doveva fare un’ultima cosa. Prese un pennarello speciale dalla borsa e dipinse un bel pizzetto blu sul mento dell’orsacchiotto. Bussò alla porta e sentì la voce di Justine dire: “Avanti.” “Ferdinand! Sei venuto, non ci speravo più!! Ferdinand si chinò sul letto dove giaceva una bambina, bionda, pallida e con gli occhi chiusi. “Non mi risponde più” – disse Justine. Ferdinand le mise accanto Barbablù e dolcemente le disse: “ Dominique, sono qui, sono tornato, sono il tuo Barbablù.” La bambina mosse le ciglia e accarezzò il pelo dell’orsacchiotto. Subito riprese colore, spalancò gli occhi e tirò a sé Barbablù. “Finalmente, ti ho aspettato tanto! E tu chi sei? “Sono il dottore di Barbablù, l’ho curato e guarito per te”. “Grazie, vi voglio bene” “Mamma per favore lasciaci soli”. “Ma io non posso….” Ferdinand tranquillizzò Justine sussurrando “Ci penso io”. Justine prima di uscire vide che Dominique aveva iniziato una animata conversazione con Ferdinand. Justine si sedette su una panca e crollò dal sonno che non faceva da diverse notti. La mattina si svegliò, andò nella stanza di Dominique e vide che lei e Ferdinand erano entrambi abbracciati con Barbablù e sembrava dormissero. Si avvicinò e vide che Dominique aveva ripreso il suo colore normale e dormiva serenamente. Ferdinand aveva il capo chino e Justine capì. Il suo grande cuore aveva ceduto. Le fatiche fatte per portare il suo dono a Dominique erano state fatali. I dottori dell’ospedale dissero che Dominique era guarita e che c’era qualcosa di miracoloso in quello che era successo. Ora se doveste capitare per caso nel piccolo cimitero di Florac, c’è una tomba bianca e semplice con una piccola lapide. Sulla lapide c’è scritto “Grazie Ferdinand, ci hai dimostrato quanto forte è la potenza dell’Amore.”

12.10.09

Inaspettata





Non mi aspettavo te
oltre la soglia del comune
oltre il limite del desiderio
oltre il confine dell’immaginario.

Non mi aspettavo te
diafana, volatile, fuggente
assolutamente concreta
vigile sui passi della vita.

Non mi aspettavo te
sinuosa, ricamata di sole,
scarmigliata, brillante
segnare il tempo in un battito
un’elettrica carezza.

Non mi aspettavo te
ma hai invaso l’orizzonte
hai plasmato le nuvole
hai cantato il risveglio
del popolo notturno
stucchevole, inerte.

Non mi aspettavo te
ma ci sei
ed è stupendo così
aspettare il giorno dopo.

11.10.09

Se un giorno ti ricorderai di me


Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei essere la mano
che ti ha accompagnato alla luce
il sorriso
che ti ha ridato la speranza.

Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei essere l’orologio
che ti ha cambiato il tempo
il fuoco
che ti ha scaldato il cuore.

Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei che fossi l’acqua
che è piovuta nel deserto
la carezza
che ha raccolto il tuo pianto

Se un giorno ti ricorderai di me
Sarò lontano mille giorni
Sarò stanco mille anni
Sarò nebbia all’orizzonte
Ma mi ricorderò di te.

28.5.09

Il video di "Striscia"


Lunedì 25 maggio nella puntata di “Striscia La Notizia” è stato trasmesso un video di Mingo e Fabio, realizzato a Monopoli, nel quale venivano evidenziati alcuni comportamenti di cittadini non osservanti delle norme del codice della strada, quali guida senza cinture e senza casco, uso del telefonino alla guida ecc. In un paese normale in cui la coscienza civica e quella personale siano allo stesso livello, si sarebbe preso semplicemente atto di un fatto scontato, senza che il video in questione scatenasse chissà quali reazioni. Invece nel nostro paese il Comandante della Polizia Municipale ha reagito guaendo e uggiolando, come un cagnolino al quale sia stata schiacciata la coda. Ha indossato la divisa da sfilata e ha esibito le medaglie costituite da multe e contravvenzioni volendo comprovare così un’efficienza dell’operato della sua compagnia che nel video non era assolutamente stata messa in discussione. Nessun suo sottoposto infatti è stato filmato mentre abbandonava la motocicletta in dotazione e si recava a prendere il sole in qualcuna delle nostre splendide calette. Anzi il Comandante si è anche dato una zappetta sui piedi perché è come se avesse detto: “Il fenomeno esiste. Però è sanzionato!” Ma la cosa che mi fa più specie è che non solo il responsabile della guardia municipale ma anche alcuni miei concittadini ed amici hanno rispolverato il vecchio vizio provincial-campanareccio obiettando: “Perché colpire Monopoli quando altri paesi sono più incivili del nostro?” Innanzitutto a me non interessa ciò che succede a San Giovanni a Teduccio o a Giarre, a me interessa la vivibilità della mia città e qualsiasi strumento serva a migliorarla mi sta a pennello. E, al proposito, voglio porre qualche spunto di discussione inerente il comportamento degli utenti della strada a Monopoli:
1) A nessuno è mai capitato, una volta faticosamente reperito un parcheggio, di effettuare una manovra attenta e scrupolosa per posizionarsi nella maniera più corretta possibile, di ritrovarsi poi al ritorno un bel macchinone (magari un SUV) di sghembo davanti o dietro con le ruote sul marciapiede ad impedirvi l’uscita?
2) A nessuno è mai capitato di vedere l’amico disabile fare il giro di tutto l’isolato per trovare una salita sul marciapiede che fosse libera da autoveicoli?
3) A nessuno è mai capitato di riscontrare che la precedenza a destra è facoltativa, mentre il cartello con il rombo giallo viene riconosciuto solo da coloro che pensano che significhi “Attenzione su questo isolato è presente un bar che vende le granite di limone”?
4) A nessuno è mai capitato di rimanere come Fantozzi con i capelli diritti quando una vecchina attraversa la strada ed il terzo in fila immancabilmente strombazza senza sapere che succede? Oppure, quando l’autobus non riesce ad effettuare la svolta per automezzi vari parcheggiati nei posti più strani, passi che il clacson lo suoni l’autista del mezzo pesante, ma la serie di rincoglioniti che sta dietro pensa forse che l’onda sonora possa da sola spostare l’ingombro?
5) Le strisce pedonali? Cosa sono? Ah pensavo che erano addobbi per festeggiare il ritorno della Juve in Champions League!
6) A nessuno è mai capitato di pensare di trovarsi al Mugello vedendosi piombare contro dei prototipi di Moto Gp lanciati a folle velocità non appena la carreggiata si allarga un pò oppure sulla nostra strada panoramica verso Alberobello?
7) E poi da ultimo perchè su questo non si può scherzare. Nessuno ha notato come nella nostra città dove vige il limite di velocità ridotto a 20 Km orari, non passa anno se non piangiamo tre quattro morti sulle strade all’interno della cinta urbana?
A queste domande penso debba rispondere chi pensa che la nostra città abbia un soddisfacente livello di cultura stradale.

28.4.09

Manifesti criptici


Una delle critiche avanzate al centro-sinistra dopo l'ultima sconfitta elettorale era relativa alla difficoltà nel comunicare le proprie ragioni agli elettori e quindi nel "farsi capire", nello "spiegarsi" con concetti semplici, concreti e pregnanti. Dopo una approfondita analisi il PD ha recepito tali suggerimenti e ha prodotto una comunicazione pubblicitaria che va finalmente nel senso giusto...

8.9.08

C'è un punto

C’è un punto oltre il quale
non riusciamo ad arrivare.
C’è un punto oltre il quale
vorremmo guardare.
C’è un punto oltre il quale
il tempo è ieri
e restiamo aggrappati.

C’è un punto oltre il quale
un amico ci manca.
C’è un punto oltre il quale
un amore si perde.
C’è un punto oltre il quale
un viso ci rincorre
e restiamo delusi.

C’è un punto oltre il quale
abbiamo paura.
C’è un punto oltre il quale
il vento si placa.
C’è un punto oltre il quale
una voce nel nulla
e restiamo impotenti.

C’è un punto,
un confine,
un orizzonte,
uno sfocato lapillo
che ci canzona le notti
di questo arido settembre.

12.8.08

Una Monopoli che scompare (*)

“Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude...”. L’”animus poetandi” è pervaso dal trasporto verso i “suoi” luoghi e non rimpiange esserci un “caro” ostacolo che cela spaccati d’infinito allo splendido paesaggio. Malinconiche lanugini di simile “pathos” colgono forse il monopolitano che volge “il guardo” verso quell’area desolata, un tempo fieramente occupata dallo stabilimento “Ceramica delle Puglie”. Allo scorrere del crepuscolo, baluginano ora le luci della ferrovia e delle case rurali, puntelli argentei disseminati nella campagna. Su questo ed altro riflettevo mentre, leopardianamente, cercavo di afferrare l’“oltre”, stranito, in quella piana sconvolta. Riflettevo non tanto sulla pochezza e sulla temporalità delle vicende umane, ma sulla velocità che ad esse il piglio cinico e nodoso della Storia può imprimervi. E mi pareva di rivedere la tenacia di mio padre che, insieme ad altri benpensanti, gioiva e soffriva dei provvisori successi e dei subitanei rallentamenti che, allora, nel pieno di quegli anni ’60 straordinari e controversi, il progetto Ceramica subiva, figlio dei miraggi e dei compromessi che hanno fatto la storia del Meridione d’Italia. Il mitico Pieropan, che talvolta faceva capolino a casa mia, era forse un omone alto e pelato (ma io avevo solo 4 o 5 anni, potrei confondere le proporzioni), e le sue visite erano sempre foriere di buone nuove: si capiva dall’umore di papà che volgeva al meglio. Una volta mi portò dal ricco settentrione le costruzioni Lego: da allora non le abbandonai più e per me divenne una specie di eroe (il suo nome riecheggiava Peter Pan). Papà in quel periodo si recava spesso a Roma e quando ci andava: “era per la Ceramica”. Un brutto giorno pensò che tutto dovesse saltare “per colpa del gas”: era annichilito. Poi tutto fu superato e la pietra, con annesse centinaia di provvide speranze, venne calata. Chissà sotto quale monticello di macerie giace ora, inerte testimone, cinta ancora di quelle speranze, prima fattesi realtà e poi rantolate fra i detriti. Se, d’incanto, avesse lingua e favella quella pietra! Epicamente rievocherebbe lacrime e dolore, fatica e sudore, giovani braccia tumide, abrase, di smalto imperlate, di fumo intrise, infine invecchiate, abbarbicate al vero senso che l’esistenza e la dignità dell’uomo reclama: il lavoro. Il lavoro mortificato, deluso, derubato, bruciato, in questi tempi bui dove l’uomo-merce è immolato sull’altare del profitto. C’è una simbiosi innegabile che lega l’opera dell’uomo alle mura dove si compie; e questo vincolo va al di là e sorpassa la relazione effimera che ci può essere tra esse e l’imprenditore, il quale ne ha facile premura per ragioni patrimoniali: la storia della Ceramica negli anni ci parla anche di questo. Le associazioni ideali trascinano il flusso dei miei pensieri verso quello che fu l’Istituto S.Giuseppe: anche lì un pugno, violento, nel petto di chi in quelle aule ha acciuffato barbagli di sapere e di chi teneva saldi nella memoria echi della propria missione educativa, ancora vaganti fra le volte scrostate. Odiavo il “solfeggio” e quella suora che mi relegava sempre dietro la lavagna con il libro aperto sulla testa! Quanta emozione per le recite delle mascherine nel commovente teatrino. Che sapore strano e diverso aveva l’uovo fritto della “refezione”. E che sballo il tirocinio, quando sgambettavano le ragazze del magistrale! La scuola è un grande mattone della nostra personalità, e nessuna ruspa riuscirà a scalfirlo. Poi un giorno, penso, verrà giù la Cementeria: l’ecomostro. Niente paura, come dice Ligabue, riusciranno alla fine a costruirne un altro un pò più in là. Non so se quella, pur auspicabile, bonifica, lascerà solidali o semplicemente indifferenti chi ci ha respirato per anni polveri e sabbia, chi ci ha perso un padre od un nonno, chi ci ha contratto l’asbestosi o la silicosi. E i nostri balconi invasi da lenzuola grondanti cenere, ma benedetta perché “dava lavoro”. Le mura, quelle mura, le “fabbriche”, sono un’altra grande parte della vita, di una vita orgogliosa, granitica, pettoruta: una vita da operaio. Migliore senza dubbio di quella da vivere oggi, nel segno della non-appartenenza, uguale nel disuguale, a caccia di identità travolte dal precariato (dal latino prex quindi ottenuto per preghiera, e di breve (???) durata). Finalmente “torneremo a riveder il mare” (ma fino a quando? Non ho dimestichezza e quindi temo le capriole impazzite del PUG e dei suoi esegeti, e le percentuali che ci quantizzano gli spazi). Ho sentito tante voci glorificare il mare: le stesse che poi nulla fanno per invertire la spiacevole tendenza a recintarlo e nasconderlo, “bunkerizzandolo”. Lentamente scompare una Monopoli orgogliosa e garbata, umile e generosa, ottimista e sapida: ricordo le sirene che squarciavano l’aria scandendo i turni lavorativi e noi, liceali goliardi, che aspettavamo al varco il “lento” di turno che, tardando a introitare un concetto, poi, all’improvviso, lo afferrava con una esclamazione - AHHAAAAA! - e subito lo canzonavamo: “Ecco che escono gli operai della Ceramica/Cementeria!” Una Monopoli nella quale si agitavano spiriti liberi, intelletti raffinati, autodidatti tenaci e spregiudicati, un paese dove i circoli letterari e politici erano da Rodolfo, da Peppino Di Bello o da Ciro Genualdo o, semplicemente, nei crocicchi al borgo. Una Monopoli che amava sé stessa, onorava la bandiera, di qualsivoglia colore, parlava un idioma comprensibile e rispettava l’avversario. E perciò ci stringe il cuore vedere quella landa rasa e brulla e ci pare udire le voci levarsi da quelle macerie che vorrebbero tornare a vivere in comunione con gli uomini, con il lavoro manuale, di chi “sapeva fare” ed ora non sa più, non c’è più. Incombe l’Ipermercato. E’ ancora la Storia che pigia, sperticata, sul pedale. La prevalenza (e talvolta la prevaricazione) del terziario. Niente più amore, passione, arte e dolore nelle cose “create” (non “prodotte”). Nulla dura più nel tempo, solo orpelli da competizione. Velocità e consumo. Precarietà e fragilità. Sul ciglio della strada, idealmente agitiamo il bianco bastone del non vedente, trattenendo il respiro: oltre il margine il vuoto ci fa soli.
(*) Pubblicato su L'Eco Del Sud-Est del 8/8/2008

3.6.08

Quando ti bacio


Quando ti bacio
sbreccio l’uscio del tempo
graffio l’alveo celeste
è frusta la carne
è lava il mio sangue.

Quando ti bacio
è intrigante naufragio
è picchiata fra i venti
è folgore e tuono
è crepa nella roccia.

Quando ti bacio
è Nirvana suadente
è Caronte che giacula
non mi fermerei
fino al sole ti bacerei.

Quando ti bacio
sorridono le fate
danzano gli elfi
ho il mondo nella mano
ho la mano sul mondo.

Quando ti bacio
hai la mia vita nella mano
hai la mano sulla mia vita
sei sola nello spazio
sei unica nell’universo.

12.5.08

La fine delle parole

Quando accade una tragedia scatenata apparentemente da cause naturali ciò che sconvolge non è la distanza fisica che ci separa da quelle vittime innocenti, ma la distanza spirituale: la nostra vita di occidentali imbevuti di falsa opulenza, di egoismi bipartisan, di complessi di vergognosa sazietà, scorre sempre uguale, in un universo che si è disconnesso dalla morale, in un melmoso panta rei fatto di pensiero flaccido, di pentitismi d'occasione, di barricate in torri d'avorio protette da una informazione drogata e pilotata ad arte. Se poi azzardiamo un approccio a chi fa della fede una missione di vita cercando delle risposte, anche irrazionali, ma che siano risposte, ci sentiamo presentare il "disegno imperscrutabile del divino". Non ci basta più. La fede come la politica sono ormai strumenti inservibili. Dobbiamo solo accogliere nel nostro cuore questo immenso dolore, fare in modo che tracimi, che sommerga altri cuori, altre sensibilità, coscienti che solo l'uomo può guarire sè stesso, può perforare la sua corazza di indifferenza, altrimenti sarà la fine dei tempi e delle parole.

4.5.08

Qual è il problema?

La dimostrazione che il nostro è davvero un paese strano è il polverone che si sta alzando in questi giorni per la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi. In un paese normale ciò che farebbe scandalo sarebbero i disagi di coloro che le dichiarazioni dei redditi non le possono fare, di chi un lavoro, una casa, una pensione non ce l'hanno, di chi lavora tuti i giorni in condizioni di sicurezza precarie e non sa se riuscirà a tornare a casa sano e salvo, di chi sopravvive tra stenti e sopraffazioni, tra angherie e emarginazione, tra oblio e vergogna. Chi onestamente porta a casa la pagnotta non ha niente da temere e che i sequestratori si portino allegramente via tutti i falsi, i bugiardi, gli evasori e gli sfruttatori di questo mondo!

30.4.08

Ballerino di legno (Carillon)

Il tempo esploso
in un buio rattrappito
la vita percettibile
defluiva nell’attesa

cercavo affabulanti
passi di speranza
in questo universo
quadrato senza stelle.

Poi hai aperto
la scatola della mia vita
schiacciata
sul senso dell’inutile,

reso plasticità
alle mie depresse forme
e slancio finalmente.

Inebriata abbacinata
di luce folgorata
la musica incalza

carica la corda
dell’anima tesa

fremono lamelle
guizzano palpitano

e infine ballo per te
piroette sinuose

il mio dono per te
finchè lo vorrai

ballo per te
finchè terrai
dischiuso il mio cielo

fino alla fine
del tempo sfilante
sui denti del tamburo

ballo, m’avvito
m’inchino e m’inarco

solo per te
vibrante, il mio ballo

ritmati ghirigori
alte le braccia
fendono l’aria:

mentre osservi
divertita sirena

aggancio il tuo sorriso
scalo le tue guance
mi tuffo nell’iride

....e non mi fermo più!

14.4.08

Tramonto


Il tramonto è lo scoccare di un tempo in cui declina l'illusione di avere il potere di dominare gli eventi con la forza delle idee, con la certezza di essere nel giusto, sulla metà buona del mondo; ma l'aggressione delle tenebre insinua il dubbio che nello sforzo di tenere la barra del timone perennemente in bilico tra opportunità e coerenza, tra autoreferenzialità e sacralità della piazza, la diritta via sia stata smarrita e sfuggito il polso e il battito della realtà. Noi siamo e saremo quelli che vogliono cambiare il mondo: dobbiamo ritornare a saperlo spiegare. Dobbiamo sapere usare con dimestichezza e velocità il canocchiale dello stratega e il microscopio dell'analista, perchè le speranze del futuro non ci nascondano le povertà del presente. Siamo zero, oggi, ripartiamo, strisciamo ventre a terra, la notte sarà lunga, ma più vi ci addentreremo più sentiremo, pungente, il profumo dell'alba.

6.3.08

Un'idea: Monopoli a Sinistra!

Mutuando un noto motto dei monaci benedettini “memento mori” – ricordati che devi morire – sono abituato, ormai da tempo, a ripetermi quotidianamente “ricordati che sei comunista!”. Questo perchè, galleggiare in questa palude in cui imperversano mercato ad oltranza, guerre giuste, oppressione legalizzata, razzismo strisciante, mortificazioni dell’ecosistema, accantonamento ed indifferenza verso il lavoro che uccide, è diventato difficile. Soprattutto è diventato più difficile da quando qualcuno ha cominciato a pensare che questi sono spiacevoli incidenti di percorso, ineluttabili effetti collaterali, dazi da pagare alla crescita, acme adolescenziale del neo-riformismo del terzo millennio. E’ divenuto difficile perchè ti senti un pò fuori posto su questo rutilante pianeta che ti ospita, perchè sei perennemente off-line su una chat ultra-veloce, perchè vedi le stesse facce che vent’anni fa dicevano di essere il nuovo ed oggi invece pure, perchè ti senti visitato con curiosità come al museo e ti senti deriso con perfidia come allo zoo. Perchè non vedi neanche più i quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo, perchè non c’è più il bar ed il mondo sta bene così, chissenefrega. Ma poi ti accorgi che dentro di te c’è ancora la luce: è fioca e asfittica ma c’è, ed è rossa come piace a noi. E ti ritorna prepotente la speranza, perchè essere comunista oggi è come camminare sul lago di Tiberiade: se ci credi ce la fai. Perciò alitiamo ancora su questo sacro fuoco che ci scoppietta dentro. Mi piace questa speranza che si chiama Cecilia Matera. Mi piace il suo coraggio, la sua dedizione, la sua testardaggine. Mi piace la sua vicenda politica che parte dal basso e affianca i nostri compagni ed il nostro più alto riferimento: gli operai e i bisognosi. E’ perciò nello spirito di assoluta e disinteressata volontà di collaborazione che mi permetto di sintetizzare qualche riga di contributo (non risparmiando qualche critica alla corrente gestione della cosa pubblica cittadina), a quello che sicuramente è un progetto politico di largo respiro che Cecilia ha approntato per amministrare la nostra città.

LAVORO: Sul tema del lavoro credo che, anche in relazione alle ultime vicende, vada intensificata l’attività di sorveglianza, per ciò che compete, ovviamente al Comune, sul rispetto delle norme della sicurezza nei cantieri e nelle realtà produttive. A questo proposito, credo che potenziando le attività di consulenza dello Sportello delle imprese e snellendo ulteriormente la burocrazia, il Comune possa dare impulso alla progressiva messa a norma delle attività. Nel contempo andrebbe a mio parere individuato e sviluppato l’avviamento di attività socialmente utili con le quali offrire servizi ora carenti alla cittadinanza ed un reddito di sostegno a giovani in attesa di occupazione ed anziani volenterosi. Un volano importante forse trascurato a mio giudizio potrebbe essere il rilancio dell’artigianato. Agevolazioni e facilitazioni sui permessi e le licenze potrebbero anche in questo caso dare un impulso importante al settore.

PORTO: Capitolo a parte merita l’argomento della riqualificazione e valorizzazione del porto nei suoi tre aspetti: commerciale, peschereccio e turistico. Va definito una volta per tutte che cosa si vuol fare, se vale la pena puntare su tutti e tre gli obiettivi, (cosa che finora ha paralizzato tutte le scelte) o se constatato che non si ha la forza per farlo, rinunciare all’aspetto turistico per rivitalizzare quelli che per vocazione e tradizione sono stati i settori chiave del nostro porto.

AMBIENTE: Una priorità indifferibile è diventata la questione delle antenne all’Impalata. E’ uno scandalo che si sia consentita quella che definirei una “agopuntura micidiale” del dono più impareggiabile che ha fatto la natura alla città di Monopoli. E’ una vergogna che tutto ciò sia avvenuto nell’indifferenza generale di tutte le amministrazioni precedenti ed in presenza di una legge Galasso che dal 1985 considera la collina come la spiaggia del mare! Un governo della città degno di questo nome deve avere nella sua agenda lo spostamento delle antenne in altro sito senza “se” e senza “ma”. Fondamentale è a mio giudizio anche la istituzione del parco marino a Nord di Monopoli con una ispezione e divieto (con denunce per i violatori) degli scarichi chimici a mare. Necessaria anche una forte opera di sostegno alla realizzazione del parco della Lama Belvedere, rimasto colpevolmente in sospeso. Infine è da mantenere alta e costante la vigilanza sulla applicazione delle direttive regionali sugli accessi liberi alle spiagge. Su questo tema e sul turismo in particolare va detto che la sinistra deve farsi carico a mio parere della presentazione di un vero e proprio progetto alternativo di promozione e sviluppo. Va definitivamente chiarito che l’improvvisazione e l’aggressione selvaggia del litorale ai fini di uno sfruttamento incontrollato delle risorse naturali non va bene, non è civile e non è neanche utile. E’ necessario studiare un piano di sviluppo compatibile con la realtà geo-morfologica del nostro territorio che contemperi il rispetto dell’ecosistema, la valorizzazione del turismo e la libertà di accesso al mare senza nessun vincolo.

EDILIZIA: Sotto questo capitolo dovrei parlare del PUG, ma non lo faccio per un motivo: non sono tra quelli che hanno fatto del PUG un totem. Sono convinto che un moderno progetto di sviluppo edilizio corredato di normative all’avanguardia sia uno strumento utile e forse fondamentale per il futuro di una città. Ma la definizione sufficiente è: strumento. Come se ad un contadino avessero improvvisamente sostituito l’aratro con il trattore. Avrà un grande risparmio di tempo ed energia nel suo lavoro, ma è sempre la sua mano che indirizzerà le sementi, sceglierà le stagioni ed i periodi giusti per la raccolta, la potatura ecc.ecc. I problemi principali da affrontare riguardano la garanzia di assicurare un tetto a tutte le famiglie. Il mercato immobiliare in Italia e non solo, come dimostrano le vicende d’oltreoceano, è un mercato fortemente drogato che rende difficile l’acquisto o costringe a contrarre mutui onerosi e a lunghissima scadenza che tagliano considerevolmente i redditi dei lavoratori. Nella nostra città da decenni il mercato è bloccato da un oligopolio di imprese abituate a corsie preferenziali nei corridoi di Palazzo S. Francesco alle quali non si riesce ad affiancare una vera concorrenza perchè le piccole imprese edili sono strozzate dagli oneri fiscali e contributivi e non possono assumere lavori di grossa mole. Per inciso, assistiamo esterrefatti all’occupazione che sarà messa in atto sul litorale con il progetto SICIE: anche Monopoli avrà il suo ecomostro che per l’occasione potremmo denominare “Punta Laganà” ad imperitura deferenza del suo principale sponsor politico. Sento dire che il nuovo strumento urbanistico consentirà alle cooperative di incrementare e velocizzare le concessioni a loro destinate. Spero che ciò sia verosimile. Ad integrazione io credo che sarebbe possibile, porre in atto un progetto di profonda riqualificazione delle nostre stupende contrade, dotandole di servizi, illuminandole, portando acqua, gas metano e trasporti pubblici, di modo che esse possano ripopolarsi per tutti e dodici mesi l’anno, supplendo in parte alla carenza di aree abitative nel centro urbano. Quello che mi preme evidenziare però è soprattutto un’altra cosa. Nei dibattiti che ho ascoltato, negli articoli che ho letto, nelle opinioni che ho scambiato, c’è un grande assente: il sottosuolo. Possibile che nessuno abbia riflettuto che prima di progettare la Monopoli dei prossimi 30 anni, dovremmo concentrarci su quello che succede o potrebbe succedere sotto di noi? Non sarebbe il caso di fare uno studio serio ed approfondito che affronti il rischio idro-geologico del nostro territorio? Me lo chiedo da profano visti gli sconquassi che il maltempo provoca sempre più frequentemente e la tendenza nel futuro al cambiamento del clima e della piovosità.

LAVORI PUBBLICI: Insufficiente e confusionario, dal mio punto di vista, il bilancio della amministrazione in carica. Sembra che il gran desiderio di disegnare una iperbole nel suo percorso abbia distratto da esigenze primarie della cittadinanza e capovolto priorità che sono sotto gli occhi di tutti. Non si riesce a capire perchè si è dovuti arrivare alla fine della legislatura per vedere strade riasfaltate e solo nel centro città. Non si capisce perchè tutti i lavori pubblici vengano effettuati senza rispetto e attenzione per i disagi dei cittadini che sono costretti a circumnavigazioni assurde e senza indicazioni corrette. Non si capisce perchè sia imprescindibile rifare Piazza Vittorio Emanuele e perchè non costituisca urgenza un progetto di un grande parcheggio sotterraneo o ubicato in silos. Non si capisce perchè non si incentivi l’utilizzo di mezzi alternativi alle vetture per arrivare in centro come minibus elettrici e parcheggi riservati e custoditi per cicli e motocicli. Da stigmatizzare la povertà di piste ciclabili e servizi deambulativi per disabili su tutto il territorio. Su questo comparto c’è da lavorare molto ed in maniera totalmente diversa dal passato.

SPORT: Altro punto dolens. Orribile è l’aggettivo meno pesante che si può usare per definire il servilismo e la subalternità nei confronti della dirigenza della squadra di calcio. L’assessorato allo sport ha stabilito la sua sede nei locali della ditta Ladisa che ha catalizzato tutte le risorse logistiche e finanziarie di cui avesse avuto bisogno in tutte le forme occulte o palesi che fossero, mentre la città, i nostri ragazzi, i tanti praticanti le attività sportive minori e giovanili continuavano ad utilizzare impianti insufficienti, pericolosi se non inesistenti e costretti ad emigrare. Ricordiamoci che educare allo sport significa arricchire una grande parte della personalità e, personalmente credo che incentivare la pratica di attività più popolari e meno milionari come l’atletica o il rugby mediante impiantistica adeguata possa aumentare il livello generale di civiltà di un paese.

CULTURA: Un plauso va fatto al grande lavoro fatto sotto l’egida di Michele Suma. Bisogna continuare su questa linea individuando quei grandi e piccoli “contenitori” che mancano a questa città per fruire di tutte le opzioni a disposizione: penso oltre al teatro, alla musica lirica, al cinema all’aperto, e per i nostri ragazzi costretti a fare pericoloso pendolarismo notturno, anche a spazi di raccolta urbani per ballare, ascoltare musica dal vivo ecc. Un primo passo urgente credo che l’amministrazione debba fare per evitare la chiusura del Visconti e mediare possibilmente tra le parti in lite. Un progetto di riqualificazione dell’Estate Monopolitana, già in parte avviato con la Ghironda sarebbe un bel fiore all’occhiello.

BILANCIO: So che molto è stato fatto sul piano della ristrutturazione del debito, però bisogna fare molto anche su quello della ristrutturazione delle entrate e intendo il censimento dei beni comunali la cernita degli affitti, l’evasione delle tasse comunali ecc. Credo che molto ancora vada fatto sul controllo della qualità della spesa. A questo proposito vorrei che si rilanciasse l’idea del “finanziamento mirato” che sta alla base del funzionamento dei B.O.C. (Buoni Ordinari Comunali) con i quali si propone ai cittadini di investire una somma che viene remunerata a tassi “politici” più convenienti per l’Ente di quelli dei mutui, con l’impegno preciso e formalizzato di utilizzare tali depositi per il finanziamento di opere o servizi di pubblica utilità ben individuati e circostanziati. Tali risorse sarebbero una boccata salutare di ossigeno in fasi di recessione e stretta monetaria come l’attuale.

In conclusione voglio dire che al di là di quello che sarà possibile o augurabile realizzare resta fermo il proposito che dobbiamo dimostrare che la sinistra è capace di governare e di farlo bene: Nichi Vendola ha fatto da battistrada. Non abbiamo bisogno di mèntori o di cocchieri presi a prestito, siamo capaci ed orgogliosi di andare da soli. Comunque meglio soli, visto che qualcuno ha scelto di accompagnarsi a rappresentanti di confindustria e generali a quattro stellette: peccato che sia sfuggito Luciano Moggi, ma per candidare Camillo Ruini per fortuna, c’è ancora tempo. I sorrisini ed i commenti aciduli di chi ci chiama “conservatori di sinistra” ci lasciano da una parte indifferenti e dall’altra orgogliosi. Orgogliosi di avere conservato dentro di noi quella fiammella che alimenta un sogno. Un sogno che a Monopoli si chiama Cecilia Matera, una donna fra le tante, perchè noi non abbiamo bisogno di stabilire quote rosa con improbabili e faticose proporzioni da calcolare. Noi comunisti abbiamo da tempo imparato a batterci perchè la Storia risarcisca totalmente il suo debito secolare nei confronti delle donne, come nei confronti degli oppressi e degli umili ad ogni latitudine del mondo. Grazie Cecilia ed in bocca al lupo!

23.2.08

Il Campo Dei Merli


Mi sembra opportuno pubblicare una poesia scritta in occasione dei bombardamenti della NATO sulla ex Jugoslavia (marzo 1999), tornata, purtroppo, prepotentemente d'attualità. Il 28 giugno 1389 si combatte la battaglia del "Kosovo Polje" (Campo dei Merli) tra il regno dei Serbi, guidati dal principe Lazzaro Hrebeljanovič, e i turchi al comando del sultano Murad I, che muore in battaglia. I Turchi infliggono ai Serbi una dura sconfitta, che ha per conseguenza la dissoluzione del loro regno. Il cosiddetto "spirito del 1389" è centrale nella comprensione che i serbi, specie a livello popolare, hanno della questione del Kosovo anche ai giorni nostri. Questo spirito è inteso come la resistenza serba all'annientamento, secondo categorie non tanto storiche quanto mistiche. Si tratta di salvare il popolo serbo quale "popolo celeste", in forza della sua fede e della sua tragica storia di martirio. La tradizione popolare vuole che il re Lazar, prima di trovare la morte nella "Piana dei Merli", abbia avuto una visione della "Gerusalemme celeste" e, posto innanzi all'interrogativo su quale regno scegliere, il terreno o il divino, abbia scelto il regno celeste, ottenendo così insieme al suo esercito il martirio e la vittoria eterna. Questa scelta di Lazar è stata considerata dalla Chiesa ortodossa come il momento decisivo della storia serba. Questo accostamento, ovviamente, prescinde dalle responsabilità sul genocidio dei bosniaci perpetrato dal macellaio Milosevic, ma vuole solo raccontare il martirio dei civili, vittime come sempre incolpevoli delle follie della guerra. (*)



Angeli d'argento
sibilano nella notte,
nuovi soli precipitano,
lingue profane
nella terra
di Cirillo e Metodio,
bestemmiano sterminio

quaggiù nel Campo dei Merli
dove i merli non fischiano più.

Lo sguardo teso
mamma Jugovic
percorre la pianura
scialle nero sulle spalle fiere
cuore di madre martellante.

Dove sei Zoran
dalla bionda criniera?
Dove sei Zoran?
Agile puledro
sfidavi la folgore.
Dove sei,
umile e buono?
Dove sei Zoran?
Il mio dolce bambino,
il tuo capo da cullare

quaggiù nel Campo dei Merli
dove i merli non fischiano più

Dove sei Zoran?
Di sicuro
giocheremo ancora
quando il sole sguscerà
nell'estate dei Balcani
fra Antivari e Cattaro.

Aiutami Signore,
in questa notte del peccato,
diaspora delle coscienze,
nella chiesa di San Sava
imploro il tuo perdono.

Dammi Signore
gli occhi del falco
perché possa scrutare
questo orizzonte
spazzato dal vento
disciolto nel dubbio.

Dammi Signore
le ali del sogno
perché possa librarmi
senza ostacoli,
annegare nel futuro.

Libera
questo cielo sanguigno
che vomita fuoco
e morte

quaggiù nel Campo dei Merli
dove i merli non fischiano più.

Dove sei Zoran?
Di sicuro
andremo ancora
a passeggiare
fra i mercanti di Raska.

Deferenti
vedremo ancora sfilare
il nobile Marko
col suo costume di zaffiro.
Ci vanteremo ancora
nei vicoli di Pristina
delle gesta eroiche
di aiduchi ed uscocchi
al seguito di re Lazzaro.

Dove sei Zoran?
Uniti sino in fondo
non avremo paura
del Turco blasfemo,
che spezza il mondo intero
ma non piega le nostre vite

quaggiù nel Campo dei Merli
dove i merli non fischiano più.

Dove sei Zoran?
Le mani sul mio cuore
cavalchi un'altra storia:
un grido sul tuo viso
LIBERTA'!

laggiù nel Campo dei Merli
dove i merli fischiano in eterno.

(*) Pubblicata sul periodico Portanuova n. 50 giugno 1999

27.1.08

Vorrei


Vorrei cercare
tizzoni di sole
da snocciolare
e scaldarmi dentro
vorrei trovare
i tuoi grappoli sinuosi
da centellinare
e bruciarmi dentro

vorrei cercare
marosi dirompenti
da sfidare
e farmi trascinare
vorrei trovare
i tuoi coralli adamantini
carezzare da lungi
e farmi dilaniare

vorrei cercare
inesausti sciroccali
da invocare
e spazzarmi l’ombre
vorrei trovare
i tuoi fianchi anelanti
comodi anfratti
a porgermi rifugio

vorrei cercare
nettari tropicali
da mescere
e nutrirmi delirando
vorrei trovare
le tue labbra sanguigne
e schiuderne il segreto

vorrei cercare
note altisonanti
da urlare
e vincere la rabbia
vorrei trovare
la tua voce musicale
per cullare il silenzio

vorrei cercare
i perfidi rintocchi
da soffocare
e lanciarmi nell’azzurro
vorrei trovare
i tuoi laghi profondi
e perdere la strada

vorrei cercare
le complici tenebre
da ghermire
e nascondere il volto
vorrei trovare
le tue mani protese
in fondo alla prigione

vorrei cercare
una corda disperata
e legare
quel momento infinito
vorrei trovare
il tuo sguardo luminoso
che mi sciolga le catene

vorrei cercare
un cenacolo di saggi
e seguire
il ritorno in superficie
vorrei trovare
la tua canzone d’amore
che rincorra la mia vita.