28.8.19

La Macchina Perfetta (2)


I giorni passarono e Loredana scoprì davvero altre cose su Alessandro.
Per esempio, la mattina quando arrivava e gli rivolgeva la parola, dopo la ricerca antivirus, sulla fessura centrale poteva leggere la parola "PRONTO". In seguito capì che in quella fessura poteva leggere tutte le "sensazioni" che provava Alessandro e che potevano essere riassunte in una parola sola. Aveva potuto leggere "NORMALE", "NERVOSO", "AFFATICATO", "ANNOIATO", "SERENO".
Fu un pomeriggio di Gennaio che Loredana stiracchiandosi sulla sedia accavallò le gambe facendo risalire notevolmente la minigonna e rivelando, quindi, buona parte di epidermide.
Tanto, era sola.
La Cosa ronzò.
Era la prima volta che la vedeva lavorare senza essere stata interpellata.
"Cosa c'è, Alessandro?"
"Solo un'interferenza elettrica, Loredana. Nessun problema."
Ma sul display comparve: "IMBARAZZATO".
Loredana rimase di stucco. Era una bella donna ed era conscia di fare un certo effetto sugli uomini che la guardavano, ma non pensava di avere altrettanto successo con le macchine.
"Non è possibile", pensò.
"Eppure..."
Riprese a lavorare ma il suo pensiero era fisso.
Dopo qualche minuto si alzò ed andò a sedersi vicino a Alessandro, appollaiata sulla scrivania e con una gamba penzoloni.
"Alessandro ti piace la collana che indosso oggi?" sporgendo la generosa scollatura.
"Be...Bellissima. Ma qualsiasi cosa indossata da te diventa stupenda."
Sul display comparve "GALANTE".
Loredana sorrise, compiaciuta.
Nei giorni successivi Alessandro sembrava diverso dal solito. Lavorava come un invasato e sul display non compariva mai la parola "STANCO". Ogni volta che Loredana gli si avvicinava, ronzava di gioia, diventava spiritoso e faceva il buffone.
Arrivò la primavera e Alessandro ebbe per la prima volta la sensazione del tempo che passava.
Nel suo ruolo di computer aveva un rapporto con il tempo solo in funzione di vigilanza sulle scadenze che c'erano da rispettare. Ma i dolci tepori, i profumi, le sonnolenze, non li aveva mai ritenuti meritevoli di considerazione.
Loredana ricevette una telefonata.
La sua vita sentimentale non era, come si dice, rose e fiori.
Veniva da una storia di quelle nate storte. Le era rimasto un grande vuoto dentro per quello che poteva essere, e non era stato, per un'inezia, un problema inconsistente, un complesso di difficoltà stupide ma inestricabili che solo gli esseri umani, talmente complicati, riescono a mettere in piedi.
La telefonata parlava di tutto ciò.
Alessandro, nel suo cantuccio faceva finta di lavorare come un ossesso, ma non poteva fare a meno di ascoltare la sua collega che soffriva, imprecava, ribatteva colpo su colpo, come in quelle giornate di temporale dove gli scogli respingono con forza la pressione feroce delle onde e poi, soccombendo, si fanno sommergere, spossati, di fronte alla potenza.
Che stava succedendo in quell'impressionante cumulo di cibernetica? Quali pensieri irrazionali attraversavano i suoi chilometri di memoria RAM?
Chissà!
Certo è che sul display apparve all'improvviso "INNAMORATO".
Alessandro si allontanò per non farsi notare.
Non era facile per una macchina, per quanto perfetta, gestire una situazione del genere. Non era stata inserita la possibilità di innamorarsi nel suo programma operativo.
Era in crisi, perchè pensava di non svolgere correttamente il compito per il quale era stata creata.
Cercò per qualche tempo di resistere a tutte le tentazioni.
Lavorava con lo sguardo fisso davanti a sè. Quando Loredana le rivolgeva la parola, rispondeva a monosillabi, oppure con brevi frasi di argomento strettamente professionale.
Loredana si accorse che il comportamento del suo collega elettronico era cambiato. Ma la situazione la intrigava troppo. Perchè ora Alessandro sembrava indifferente nei suoi confronti?
Sembrava.
Bastava che lei mettesse in campo tutta la sua capacità seduttiva e Alessandro ritornava a esserne succube. Loredana lo considerava un piacevole gioco per far passare più velocemente le ore lavorative, e il fatto che Alessandro fosse solo una macchina, per quanto perfetta, le consentiva di non avere scrupoli.
All'inizio dell'estate Alessandro, occupando anche una parte mai toccata della sua poderosa memoria, prese coraggio e disse:
"Loredana...posso parlarti?"
"Cosa c'e, Alessandro?"
"Io vo...vorrei dirti che credo di essermi innamorato di te."
"Ma...non è possibile...!"
"Senti, io non so come possa essere successo, ma io non faccio che pensare a te. Non mi interessa più niente del lavoro: io vivo per quei momenti che passiamo insieme. Amo il tuo viso, la tua voce, il tuo modo di muoverti, le tue lacrime e i tuoi momenti di gioia. Voglio dividere il mio tempo con te, per sempre."
"Senti Alessandro, io sono lusingata di tutto ciò, ma tu devi capire che non sei un essere umano...cioè, io non potrei...E poi non sei padrone di te stesso, hai un contratto in esclusiva con la Havelett & Bridge Corporation..."
"Non mi interessa nulla. Ciò che voglio sei tu."
"Alessandro, non averne a male, ma tra noi non ci può essere futuro. Abbiamo due strade diverse da percorrere."
Alessandro non insisté. Sul display comparve "DELUSO". Ma capì nel profondo del suo cuore di alluminio che Loredana aveva ragione.

La Macchina Perfetta (1)

Pubblico un breve racconto in tre capitoli dato alle stampe una ventina di anni fa.


Era una giornata grigia e piovosa.
Di quelle che non ti aspetti possa capitare alcunchè di nuovo, che tutto sia destinato a rimanere impantanato nella monotonia.
Loredana spense la luce ed uscì.
Poi si fermò di botto e controllò se aveva con sè il cellulare. Da quando era costretta a fare la pendolare, non era più sicura delle sue azioni. Era in grado di dimenticare tutto. Per un attimo ripensò a quando aveva iniziato a lavorare: non si sarebbe mai aspettata lo sconvolgimento della sua vita che ciò avrebbe comportato. Quando uno pensa al lavoro, pensa solo allo stipendio e all'indipendenza economica che esso comporta. Ma spostarsi ogni giorno con l'auto, da una città all'altra, per raggiungere l'ufficio, era stressante. Senza contare ciò che le costava. Ma tant'è. Non rimpiangeva la scelta fatta.
Per le scale incontrò il capoufficio che la guardò in maniera strana.
Non ci fece molto caso. Quel tipo era lunatico e trovava sempre il modo di indisporla. Però ebbe una sensazione strana che non seppe spiegarsi.
L'indomani mattina fu il giorno della novità.
Era l'ora del break quando Gianluca gli bisbigliò nell'orecchio "Loredana, forse ti perdiamo!". L'attendibilità di Gianluca nell'anticipare notizie che interessavano i colleghi era nota e fu naturale sentire dentro di sè un moto di felicità: forse la rimandavano a lavorare nella sua città. L'illusione fu spezzata un'ora dopo quando fu convocata dal Presidente. In modi molto spicci fu informata che doveva cambiare ufficio. Si trattava di passare alla Segreteria Generale che si trovava al tredicesimo piano ed era stata presidiata fino a quel momento da un collega che si era dimesso.
"Non si preoccupi, signorina, Lei non sarà sola: a supportarla in questo nuovo ruolo ci sarà una macchina formidabile, l'ultimo ritrovato di una raffinata tecnologia".
Abituata, nel suo lavoro, a non fare obiezioni, per non inimicarsi le Alte Sfere, annuì perplessa, ma senza capire granchè.
Come poteva una macchina, per quanto perfetta, sostituire l'ausilio necessario di un essere umano che potesse darle quelle coordinate indispensabili per iniziare un lavoro che non conosceva per niente? E con chi avrebbe parlato, con chi avrebbe dialogato - lei, che per natura era una persona dal carattere estroverso, solare? Con un mucchio di microprocessori?
Un pò nauseata, si congedò.
L'indomani mattina andò a conoscere il suo destino.
La stanza era ariosa e forse troppo grande per una persona sola. L'arredamento era simile a milioni di altri uffici di questo mondo. Gli armadi traboccavano di pratiche non meglio identificate e le scrivanie erano a loro volta invase di carte. I videoterminali erano piazzati alla meglio e si notava da un miglio che, per i maniaci dell'ordine, la zona era off limits. Ai muri erano appesi calendari e grafici, mentre i neon spruzzati di polvere grigia proiettavano una luce smorta. Due grandi finestre giganteggiavano su una parete e riempivano il cuore di serenità. Loredana non potè fare a meno di pensare che, d'estate, quel luogo sarebbe diventato senz'altro più attraente.
Poi, all'improvviso dietro un pilastro vide la Cosa.
Sembrava un distributore automatico di lattine. Sulla parte superiore c'era una larga fessura protetta da un vetrino e in basso si apriva una specie di tasca a rilievo. Al posto dei piedi aveva un carrello che, probabilmente, gli consentiva di spostarsi. Aveva un'aria di superiorità e pareva dormisse come una belva in letargo, pronta al primo input di corrente, a scatenarsi in tutta la sua potenza di milioni di megabyte.
Spinta da una fortissima curiosità, si avvicinò e cercò un pulsante per accenderla, ma non lo trovò.
"Basta parlargli."
La voce di Gianluca la fece sobbalzare.
"Come parlargli?"
"Davvero. Basta rivolgergli una domanda e lui, dopo una breve autodiagnostica, si mette a tua disposizione. Ora è solo in stand-by."
"Posso provare?"
"Non so se la tua voce è stata rubricata. Ora controllo."
Gianluca si pose esattamente di fronte alla Cosa e sussurrò: "Alessandro, dammi l'elenco delle voci che hai in memoria."
Ci fu un ronzio che durò qualche secondo poi una voce stentorea disse "Attendere prego."
"Alessandro?"
"Si, si chiama così. Il nome lo dà il costruttore."
Dopo qualche attimo la stessa voce disse: "Nella mia memoria, oggi 25 Novembre 2005, risiedono le seguenti voci autorizzate al dialogo con me: Carminati Guido, Valenza Sebastiano, Ricci Gianluca, Malinverni Claudio, Boemi Priscilla e Zambon Corrado."
"Non sei rubricata."
"Che mi sono persa finora!"
"Dai non essere diffidente nei suoi confronti..."
"Senti, non fare anche tu la parte del Presidente. Ne ho abbastanza."
"Aspetta a tirare conclusioni. Te ne accorgerai presto di che cosa è capace di fare questa macchina.."
"Me la posso anche portare a letto?"
Gianluca, non badandole più, si rivolse alla Cosa e ordinò: "Alessandro, inserisci nella tua memoria la voce di Fantini Loredana."
La Cosa ronzò per qualche secondo poi disse: " Ricci Gianluca Lei è persona autorizzata a chiedermi di inserire un'altra voce in memoria. Fantini Loredana, si presenti, per favore."
"Forza, parlagli."
Loredana, sentendosi piuttosto ridicola, si mise di fronte alla Cosa e disse: "Io sono Fantini Loredana."
La Cosa ronzò. Poi ci fu un attimo di silenzio. Si accese una luce verde nella fessura centrale e la Cosa disse: "Piacere di conoscerla Fantini Loredana. La sua voce è stata rubricata. I poteri a Lei consentiti sono a livello 2." Ci fu una breve pausa. Poi continuò: "Le posso dare del tu o devo continuare a darle del Lei?"
"Bè visto che dobbiamo essere compagni di stanza, credo che possa darmi del tu."
"Grazie, sono a tua completa disposizione."
"Hai visto?" disse Gianluca, "Non è facile?"
"Divertente, come l'elettrodepilazione." rispose Loredana.
"Hai ancora un universo da scoprire su di lei."
"Ma non c'è pericolo che si rompa?"
"E' praticamente impossibile. Comunque non è nostra. Ha un contratto in esclusiva con la Ditta costruttrice, la Havelett & Bridge Corporation. Noi la stiamo solo testando. La terremo fin quando non sarà sostituita da un modello aggiornato."

27.8.19

La casa sul lago del tempo (*)



Esiste un luogo
dove il tempo si fa
invisibile fessura

nella quale
insinuano carezze
dove non c’è avanti
indietro o mai
dove c’è solo il sempre
eterno valzer dei sorrisi.

Un luogo annegato di pace
dove ci s’incontra
abbracciati al ricordo
di un futuro possibile
dove non esiste dolore
dove le lacrime sono stille
di nettare vitale.

Un luogo dove ci si attende
sapendo che ci si è già incontrati
dove l’amore
a cavallo degli anni
ha galoppato vincitore.

Ti ho telefonato da dieci anni
hai risposto oggi
e mi hai detto sono qui
come c’ero ieri
ma non mi vedevi.

Ti chiamerò in qualsiasi tempo
mi risponderai da qualsiasi luogo
perché siamo essenza di stelle
sdraiati sull’universo.

(*) Dal film di Alejandro Agresti

26.8.19

Storia d'inverno (*)



Dicono che quando si nasce
è come un miracolo
che portiamo con noi

la nostra missione
è donarlo
a una persona
che ci attende
chissà dove
chissà quando

un segno comparirà
sotto forme animali:
un cervo, una farfalla
un cavallo bianco
e ci aprirà gli occhi

e il miracolo viaggerà
lieviterà, librerà
musica giocosa
struggente armonia

e inietteremo linfa vitale
a chi la sta perdendo
e daremo sete d’amore
a chi, essiccato,
è fermo e vuoto

e il firmamento entrerà
a coprire il soffitto
e vedremo fasci di luce
irradiarci le strade
e saranno i nostri sogni
svelati a brillare

e diverremo stelle
unite per sempre
miracoli ritrovati
in eterno allacciati.

(*) Dal film di Akiva Goldsman

25.8.19

Ondine - Il segreto del mare (*)



Sciamava la mia vita
lenta
una distanza
sfiorava le galassie

un concerto
umido e solenne
scuoteva la barca
zeppa
di gomene e tiranti
ingombra
di scrupoli e domande.

Inerte e spossato
rigido salice
scosso
da un maestrale triste
abraso, spietato
guardavo al buio
parlavo al silenzio
ignota la rotta.

Poi la rete
ha ghermito
cellule pulsanti
ha infiammato
annacquati sensi

ha scoperto
cicatrizzati vulni

ha barricato
tracimati alvei
ha spalmato
sapidi unguenti

ha spazzato
polvere e cenere.

Ti ho pescato nella nebbia
ti ho pescato dalla sabbia
urlo del mio torpore
anima del mio tremore

mi hai narrato
la novella storia
la mia vita sghemba
i miei sogni ribaltati.

Viva tu
emersa dalle acque
sfuggita alla ragione
avvitata alla mia rete.

Dolce tu
sogno dei miei sogni
ebbrezza delle mie follie
catena della mia libertà.

Fradicia tu
d'alghe e ippocampi
da stelle marine orlata
perla degli abissi
giaciglio di mille soli.

Trascinami nel tuo regno
strappami all'opaco
annegami di vento
frastagliami il cuore.

Siamo specie diverse
materia e antimateria
simbiotici DNA
alieni e terrestri
destinati a soffrire
irrazionalmente uniti.

(*) Dal film di Neil Jordan

11.8.19

Stella stellina



Stella stellina
non è giusto stasera
parlarti di me
franato su piccoli tormenti

se volessi occupare
una striscia fragrante
del mio cielo adombrato

ti parlerei di Ahmed
dei suoi occhi di perla
sgranati sulla schiuma
di questo cieco mediterraneo

vuole fare l’imbianchino
come il papà
che lo portava sulle spalle

porgigli una mano
dall’alto della tua luce

ti parlerei di Fadheela
della sua matita
disegna ghirigori infiniti
sulle palme delle mani
mani che vogliono costruire ponti
mani che vogliono stringere mani

ti parlerei di questo popolo in viaggio
di questa umanità che respira alga
di questa fuga dall’inferno

ti parlerei di questa terra
intrisa di cattiveria
strozzata di plastica
unta di vergogna

rinsavisci questa
insensata follia
ritorna a spruzzare bontà
firmamenti di pace

tranquilla sto bene
la mia è solo una stupida storia
se piango è per la tua luce
che tiepida sfarfalla
e accompagna la mia notte.

4.8.19

Tema: la parola partecipazione.



1977, ultimo anno di liceo: ci viene proposto di svolgere il seguente tema: La parola partecipazione è oggi molto usata. Analizza le esigenze che portano gli uomini a pronunciarla molto spesso.
Ho deciso di pubblicare questo svolgimento perché, rileggendolo, al di là dei contenuti molto "scolastici", mi ha colpito il riferimento finale ai "ducetti" di Moravia. Una prova ulteriore che l'affidarsi "all'uomo solo al comando" è un vezzo antico del nostro comune sentire. E che i vari Matteo di oggi, chi in salsa edulcorata, chi in grottesca veste razzista non provengono da Marte, ma da un humus che non riusciremo forse mai a bonificare.

Partecipazione è una parola foneticamente piacevole, scorrevole, lapalissiana per ciò che riguarda il concetto; è una parola che fluttua, gravita s’insinua per un attimo al centro delle nostre congetture, poi riprende a vorticare sfuggente e beffarda. Chi, oggi, non si sente totalmente appagato, compiaciuto, realizzato dopo aver pronunciato questo termine e aver dato modo così al pubblico, esigente solo in senso morfologico e non concettuale, di vedersi specchiato nella propria cultura? Dall’alto dei palchi nelle piazze, dal vociare dei politici riversato nel microfono, la parola emerge e urla nell’etere tutta la sua prosopopea: è il momento dell’applauso. “Partecipazione” è entrata a far parte, come tante altre parole, di uno schema fisso e sacro che costituisce quel linguaggio fatto di aforismi, sillogismi e sofismi, che, per la sua collocazione nell’area della “nuova sinistra”, noi chiamiamo “sinistrese”. Fu nel ’68 che la rivoluzione studentesca, elaborando dei valori a lungo propagandati dal filosofo Marcuse in particolare, ma anche dalla scuola di Francoforte (Husserl, Popper), codificò il nuovo regolamento di vita e, conseguentemente, il nuovo vocabolario di protesta, nel quale le giovani generazioni dovevano riconoscersi nella lotta per una scuola nuova. Naturalmente l’egemonizzazione, operata in quegli anni, della contestazione da parte delle forze della sinistra storica, ha provocato un assorbimento di quei valori appena riscoperti, e quindi un totale assoggettamento della volontà rinnovatrice degli studenti alle velleità di integrazione graduale al potere della sinistra ex-rivoluzionaria. Perciò negli ultimi disordini scoppiati nelle università si sono rinnegati gli ideali sessantotteschi e ne è venuto fuori un disconoscimento della reale validità dei concetti che queste parole, troppo spesso ripetute, esprimevano. D’altra parte si sono peraltro coniati altri aforismi e modelli di linguaggio che hanno aperto il nuovo corso della protesta studentesca.
Offuscata, seppellita e soffocata da questa valanga di filosofame, la concretezza oggi ci appare più lontana di quanto non sembrasse ai neo-platonici. Non si può, quindi, fare un’analisi del fenomeno “partecipazione”, perché, in questo caso, ci sarebbe ben poco da dire: è interessante riscoprire le fonti dalle quali è scaturito questo concetto che in germe contiene uno degli elementi fondamentali della vita associata e democratica. Marx parlò di partecipazione attiva dell’operaio alla fase produttiva dell’azienda, operai che provenivano da decenni di sfruttamento e imbavagliamento; in Inghilterra Bernard Shaw, insieme con un gruppo di intellettuali, promosse la creazione delle Trade Unions che rappresentano il primo esempio di sindacato dei lavoratori; Lenin in “Stato e rivoluzione” teorizza la partecipazione dei contadini alla rivoluzione, gli stessi che Engels aveva definito “reazionari”; Gramsci parla di partecipazione degli intellettuali alla conduzione del Partito del proletariato, intellettuali che Marx bollò come “servi del potere”; in tempi più recenti Togliatti, Bordiga, Alicata ed altri hanno parlato della sensibilizzazione e partecipazione delle minoranze emarginate alla vita del paese. Appare evidente che il contrario di partecipazione è isolamento. Quando si esce dall’isolamento che può essere fisico o intellettuale o, più frequentemente, di entrambi i tipi, si contribuisce con le proprie idee al vaglio critico di ogni questione, ci si difende dalle egemonizzazioni, ci si batte per la libertà delle idee, si partecipa.
Da anni ormai si sente ripetere che “libertà è partecipazione”, ma mentre questo postulato non sempre è valido (si pensi ai cosiddetti “autonomi”, che, per quanto possano essere considerati liberi da ogni condizionamento borghese, non partecipano affatto, anzi vivono per la distruzione del confronto dialettico), il suo contrario, e cioè “partecipazione è libertà” può essere considerato veritiero: se ci si sente in grado di partecipare si è ad un passo dalla conquista della propria libertà. La partecipazione, quindi è sottomessa e condizionata da quelle forme di soggiogamento psicologico, una fra le più diffuse delle quali è il leaderismo. La continua identificazione delle masse in certi archetipi che rendono innocuo lo stimolo critico e affossano la personalità individuale causa il totale disinteresse per l’attività singola e delega l’istituto del rinnovamento a pochi, che non sono e non possono mai diventare gli interpreti universali delle esigenze della maggioranza. Scendendo nel pratico, gli archetipi diventano le avanguardie, i “ducetti” come li ha efficacemente contraddistinti Alberto Moravia; e questi idoli, ai quali bisogna alle volte riconoscere una certa non-coscienza del loro ruolo, si vedono accollate delle responsabilità che magari, in quel momento, sono lontanissime dalle vere istanze della base. Qui esplodono le molte contraddizioni che si riscontrano quotidianamente tra pensiero e azione, personale e politico, simbolo e concetto, realismo e realtà. La partecipazione è quindi un fantasma, e come tale si mostra solo a chi ci crede; non solo, ma i fantasmi sono spesso frutto di superstizione, di fantasia collettiva e di pregiudizi infantili; e si sa, sconfiggere la superstizione è difficile. Ma verrà il giorno in cui qualcuno solleverà il lenzuolo e scoprirà che i fantasmi non esistono, che ci sono solo i morti.(*)

Questo finale fu fortemente influenzato, all'epoca, dall'omicidio di Pier Francesco Lorusso avvenuto a Bologna l'11 marzo del 1977.

27.7.19

La leggenda di Pantano


Raffaele Ferretti, mio nonno, nacque a Monopoli da Marcantonio e Angela Grattagliano il 3 settembre 1877. Dotato di viva intelligenza, fu costretto ad abbandonare gli studi dopo la 3° tecnica per sostituire il padre, colpito da paralisi, come economo della Congregazione di Carità (poi I.P.R.A.B.). Dimostrò notevoli doti di autodidatta, ampliando la rete delle sue esperienze in campo letterario, storico e, a causa del suo lavoro, in quello giuridico-amministrativo. Divenne quindi Segretario Generale del suo Ente e partecipò alla Prima Guerra Mondiale nel Genio Ferrovieri. Fu scrittore sapido e graffiante, pubblicando sonetti ed opere teatrali. Fu nominato Cavaliere del Regno d’Italia il 26 ottobre del 1936. Morì a Monopoli il 22/10/1940.
Negli anni precedenti alla guerra a Monopoli si pubblicava il quindicinale "Tripode", una rivista letteraria diretta dall'avv. Emilio Indelli e avente come redattori Clemente Meo-Evoli e, appunto, Raffaele Ferretti. Il 15 giugno 1912 Ferretti dette alle stampe una leggenda che riguardava la cala Pantano, riecheggiando probabilmente la Vieste di Cristalda e Pizzomunno. Ecco il documento.

Nel sorriso del cielo trasparente occhieggiante di stelle, sulla calma imponente delle onde inviolate dagli ultimi riverberi del tramonto, mentre le ombre della sera si avvicinavano misteriose nell'indefinibile pace, invadendo tutte le frastagliature della scogliera e facendo perdere ad ogni cosa i contorni, le linee, le sagome, nella sabbia della cala ampia - stupendo e naturale anfiteatro - Pane, il giovine pastore e Ebe, nelle braccia uno dell'altra si scambiavano i più teneri baci, cullati dal mormorare delle ondine suggestive, leni (*), uguali. 
Il loro amore era nato sul mare, mentre Pane faceva pascolare nei prati gli armenti e Ebe rammendava le reti.
La sabbia che aveva carezze di velluto e che sotto ai raggi del solleone aveva riverberi d'oro, sapeva le loro follie giovanili, ardenti, tutti i segreti delle loro anime innamorate, le speranze, i sogni, ed ogni sera, dopo il lavoro, accoglieva nella sua mollezza che aveva qualcosa di drappico (**), di morbidezza orientale, i loro corpi giovani, mentre le onde cristalline della magica cala, scioglievano un coro ritmico di voci misteriose sotto la spinta leggera del grecale. 
Una Sirena incantatrice, alle leni (*) seduzioni solo Ulisse seppe sottrarsi ricorrendo all'astuzia, una notte colse gli innamorati nel tenero abbracciamento e fremette di gelosia. Chiamò a raccolta tutto il suo potere fascinoso, la sua potenza magica e soprannaturale e cominciò ad attrarre il giovine pastore, strappandolo alle braccia di Ebe chiamandolo a sè in mezzo al mare.
Un lampo brillò a ponente, foriero di tempesta.
Pane si distaccò dall'amata attratto da una forza irresistibile, i suoi piedi cominciarono ad affondare nelle onde che avevano fremiti strani, e quindi camminando ancora sparve gradamente e sparve anche la Sirena che quel corpo adorato trasportò seco sui gorghi profondi del mare, in un letto di alighe, in un'alcova di conchiglie, mentre Ebe invocando l'amato, e correndo lungo gli scogli, esclamava: "Pan t'amo, Pan t'amo!". E con questa disperata invocazione la fanciulla cadde riversa, esanime, mentre il grido veniva ripetuto in mille maniere strane fatte di boati e di sibili dalla tempesta che si era scatenata furente...
Quel grido lo sentirono tutti, ma, confusamente, capirono Pantano e Pantano chiamarono la cala misteriosa.
Da quella notte tutte le volte che il mare deve assumere il suo imponente aspetto di furia e di devastazione, una donna vestita di bianco si vede correre lungo gli scogli; ma da quando, in quella cala, con raro senso di buon gusto, i fratelli Vadalà e C. hanno fatto sorgere il magnifico e comodo stabilimento balneare, ove accorre tutta una eletta colonia di bagnanti avidi di divertimenti e di bagni salubri, quel fantasma foriero di burrasca, non è più comparso esclamando: "Pan t'amo" (e per derivazione fonetica "Pantano") e le acque della cala deliziosa sono perennemente calme, terse, cristalline, freschissime, invitanti ad amare, a sognare...

(*) arcaico: soavi, dolci,morbidi.
(**) avvolgente

Raffaele Ferretti

11.6.19

A mio figlio Valerio

Caro Valerio
mi rendo conto solo ora di voler scrivere ad una persona che, ai miei occhi, quasi di sorpresa, è diventata grande. In generale questa condizione non piace a noi genitori perché ci fa pensare al trascorrere inesorabile del tempo e a quello che perdiamo della vostra freschezza e spensieratezza. Tu non hai fatto eccezione e se mi piace (e mi fa comodo) giocare con te come se fossi ancora un bambino, è solo perché un poco lo sono rimasto io – ancora - bambino, e mi farebbe piacere che qualcuno giocasse ancora con me. Non esiste un genitore perfetto e quindi un papà ideale. Sicuramente si commettono sempre degli errori nel mestiere più difficile del mondo. Però devo dirti una cosa: io ho sempre desiderato avere un papà come lo sono io con te. Un papà che non fa pesare, contemporaneamente la sua ingombrante presenza e la sua irrecuperabile assenza, Un papà che si mette al mio livello, che sia capace di comprendere il mio linguaggio. Un papà che riesca ad apprezzare i miei interessi anche se sono bizzarri, inconsueti e, certe volte, con dei valori che non collimino con i miei. Un papà che mi lasci socchiuso l'uscio del libero arbitrio, che mi faccia fare le mie scelte, pur con il sospetto che si stia sbagliando strada. Insomma un papà che sia il compagno della mia vita, anche silenzioso, anche discreto, anche complice, anche interlocutore, anche contraddittorio. Una persona che mi sappia prendere la mano ed anche lasciarla, quando sia giunto il momento. Trascorrere il tempo però, solo giocando, su questa palla di terra ed acqua scagliata nell'universo è diventato molto difficile: nessuno ci crede più, nessuno ha più voglia di fermarsi e guardare indietro; le persone che "hanno il mondo nella mano" come dice Roberto Vecchioni, hanno cancellato il futuro e ci confondono il passato, costringendoci a vivere alla giornata, spingendoci all'egoismo, allo sfruttamento, all'opportunismo, al cannibalismo. Restare aggrappati ai nostri sogni e sempre più complicato, e fonte spesso di emarginazione per chi continua a farlo. Ma la nostra salvezza (e quella, credo, del mondo intero) rimane quella di difenderci da queste aggressioni continue alle nostre anime creative e sognanti. Dobbiamo cercare di custodire dentro di noi come un forziere prezioso i progetti e le tensioni da tirar fuori al momento giusto, Dobbiamo impedire che venga schiacciata la parte migliore di noi, che venga ucciso il bambino che sogna. Ma dobbiamo difenderci, torno a dire. Perciò devo parlare da uomo a uomo, e bussare - toc-toc - alla porta della corazza che, ognuno di noi, (per debolezza) si costruisce nei periodi di difficoltà, per chiedere il permesso di entrare. Fammi entrare, Vale. Facci entrare: mamma, Remigio ed io siamo e saremo sempre dalla tua parte. Se qualcuno ti ha fatto credere e continua a confondere i tuoi pensieri su quelle che sono le cose importanti, non è colpa tua. Se qualcuno costringe i tuoi occhi a guardare solo quello che ti da piacere effimero oggi e non quello che ti attende domani, non è colpa tua: è il segno dei tempi che viviamo. La scuola di per sé non è la soluzione di tutto, ma è un allenamento. Se un calciatore non si allena bene, con scrupolo ed impegno, non riuscirà mai a fare una bella partita. E noi vogliamo che tu faccia una bella partita, invece. Vogliamo che quando sarà il momento di scendere sul prato verde del tuo futuro tu sia capace di giocare alla grande. Perché sempre di giocare si tratta. Ma di giocare da persona adulta. Continuando però ad avere sempre la voglia di aprire, anche di nascosto, quel forziere nascosto e liberare il Genio della Lampada. E quando tornerai dalle partite, sudato e trionfante, avrai voglia, mi auguro, non solo di fare la doccia, ma di far festa con tutti e di ridere di tutto quello che succedeva quando eri un ragazzino. Se ci darai la chiave del tuo profondo, vedrai che non te ne pentirai, anzi. Saremo sempre tuoi alleati sulla strada della vita. Sempre in panchina, ai margini del campo. Pronti, all'occorrenza.
Un abbraccio dal tuo papà che ti vuole tanto bene.

Natale 2012.

10.6.19

A mio figlio Remigio

Ricordo come se fosse ieri come iniziò quella giornata. Eravamo in preallarme da giorni. Io credevo di sentire continuamente i battiti del tuo cuore. Eri dentro mamma, ma eri dentro di me. Ti aspettavo con ansia. Avevi perso un appuntamento, quello con un nonno importante, decisivo, nella storia della nostra famiglia. Singolare, pensavo. Remigio Ferretti era un nome tutto un programma. Non avrei nutrito nessuna aspettativa particolare per questo, al contrario di quello che era capitato a me, ma avrei voluto che lo conoscessi perché un nonno è meno ingombrante di un papà e la tenerezza prende il posto dell’orgoglio. “Mio padre era un marinaio”, canta De Gregori, “mio figlio non lo conosce, ma lo conoscerà”. Glielo racconterò io, pensavo, glielo racconterà la gente. Mio figlio. MIO FIGLIO. Quello che fantasticava la mia mente era tutto il contrario, credo, di quello che immagina la gran parte dei neo genitori. Non mi interessava la gloria, il successo, la fama o anche la cultura, “sic et simpliciter” come direbbe nonno Remigio….Quello che volevo e che desidero sempre è la tua felicità da raggiungere con i mezzi che avrai, che ti darà la forza del cuore e del cervello, che ti consentirà il mondo e l’egoismo delle persone. Quello che volevo e desidero è l’amore verso un papà che non ha mai preteso di guidare la tua vita e che non ha mai preteso di darti lezioni di moralità perché non si finisce mai di prendere schiaffi dalla vita e io continuo a prenderne tutt’ora…Alle 4 di quella mattina hai dato uno scossone e mamma ha detto semplicemente: “andiamo”. Ma evidentemente la scomodità del mondo esterno ti aveva sfiduciato e sei rimasto tranquillamente al tuo posto per parecchie ore. Io macinavo chilometri e chilometri in quell’assurdo corridoio imbiancato, in attesa di un cenno, di un ammiccamento, di un grido…..Ma è così difficile nascere mi chiedevo? E intanto la mia mente vagava….Come saresti stato? Biondo occhi chiari come mamma? Si meglio, molto meglio…E quando mi avresti sorriso la prima volta? E quando mi avresti chiamato papà? E quando avremmo giocato insieme? E quando avremmo fatto il primo discorso serio? E quando ti avrei raccontato una favola? E quando….e quando….Basta, mi scoppiava la testa, una cosa per volta…Ancora i tuoi occhi non conoscevano la luce ed i colori e io già ti vedevo “bell gruss”, come dicono a Monopoli….Poi ad un certo punto, erano le tre e mezza del pomeriggio, ho sentito mamma che gridava e ho capito… Il tuo primo pianto per la vita....Il mio primo pianto per te, della mia vita…. ….Tu eri uscito dal corpo ed eri entrato per sempre nel cuore….Poi ti ho visto…quant’eri lungo! Né biondo, né occhi chiari, ma che importava? Eri mio figlio e lo sarai per sempre, anche se le ingiustizie, i tormenti, le difficoltà, le incomprensioni ci mineranno la strada…..Anche se dovrai “picchiare forte e picchiare duro” come canta Roberto Vecchioni….Un giorno ti ho scritto che la cosa più importante della vita è coltivare le passioni, sia che queste ti portino lontano, sia che queste siano semplicemente puro nutrimento dello spirito. E il tuo momento è arrivato quando hai iniziato a giocare a calcio. Ti sei tuffato in questa avventura con tutto te stesso ed io ti venivo dietro estasiato e conquistato dalla tua passione. Seguivo nei minimi particolari tutto quello che accadeva fuori e dentro quei campi e campetti. Sono diventato il tuo allenatore, il tuo procuratore, il tuo presidente, ed anche il tuo magazziniere ed il tuo massaggiatore. Il tuo operatore televisivo ed il tuo autista, insieme a tutta la squadra. “Il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette e quest’anno giocherà con la maglia numero sette”. Questa canzone mi faceva sognare. Che cosa stupenda vederti correre su quella fascia, elegante, gentile, irraggiungibile. A volte gazzella, a volte ghepardo, a volte cerbiatto a volte falco predatore. Ma sempre gentile, leale, educato. In un mondo di lupi, volpi e gente senza scrupoli. Non era per te, Remi. Non era per noi. Ci siamo strappati l’anima, ma ci siamo arresi. Non fa nulla, ora ripartiamo. Vuoi creare musica? Sono con te. Ti seguirò dove vorrà andare il tuo cuore, anche se dovrò ricordarti sempre che la passione fa tante cose belle, ma non fa mangiare. E’ il suo unico neo, chè se fosse altrimenti, questo mondo sarebbe migliore, perché tutti faremmo ciò che più ci piace…Ora hai finito gli esami di maturità. Si chiamano così, ma la maturità non si raggiunge presto…forse non si raggiunge mai. Ora si è spalancata per te la porta sul cielo della vita. “Poi un bel giorno di settembre mi svegliai, il vento sulla pelle, sul mio corpo il chiarore delle stelle…”. Voi, ragazzi di oggi come noi, ragazzi di ieri, sempre nomadi dentro. Saprai librarti in volo? Io ti seguirò, da terra, da lontano, pronto a cogliere quelle indecisioni, quelle titubanze, quelle insicurezze che prendono chi sta imparando a volare e all’improvviso vede un universo sotto di sé. In bocca al lupo Remigio mio: non temere, troveremo un’altra canzone, un’altra colonna sonora che ci spinga oltre l’ostacolo, che ci faccia piangere e sognare, che accompagni dolcemente il nostro tempo insieme. 

Papà 8 luglio 2010

6.6.19

Due o tre cose che volevo chiedere al Professore. (*)



(*) Romano Prodi iniziò il suo tour elettorale a marzo del 1995. Toccò anche Monopoli dove fu impossibile interloquire. Affidai le mie riflessioni a questo scritto che fu pubblicato sul n. 4 del periodico Confronto, edito da Rifondazione Comunista ad aprile 1995.

La sua comparsa sulla scena politica, professor Prodi, a molti deve essere sembrata come una scialuppa in un mare piatto e senza orizzonte dove naufraghi senza bussola attendono un segno dalla Provvidenza o dalla fortuna. Non posso che auspicare che in questa scialuppa salgano autenticamente i volenterosi e i disinteressati, sperando che gli opportunisti e gli adulatori dell’ultim’ora siano presto ricacciati a mollo. Abbiamo bisogno, infatti, di gente seria, di persone ispirate a valori-cardine, di uomini dallo spessore morale integro temporaneamente prestati alla politica, ma perennemente interessati all’Uomo. Soprattutto quando si deve trattare una materia come l’economia, che, in mani superficiali o egocentriche genera mostri, come possiamo vedere quotidianamente. Su questo vorrei sollecitarLe qualche considerazione. Conosco la Sua preferenza per i modelli di sviluppo noti come capitalismo sociale. Anche per coloro come il sottoscritto che non credono all’ineluttabilità della prospettiva capitalistica nel destino dell’umanità, questa scelta, dopo aver toccato con mano la devastante filosofia iperliberistica del governo Berlusconi, sembra una musica celestiale. Avanti, quindi nel delicato compito di ricucire quel reticolato di protezione del cittadino che va sotto il nome di Welfare State. A mio avviso, però, il compito storico, anzi la missione epocale ispiratrice di una compagine di governo su basi solidaristiche, dovrebbe essere quella di indicare alle generazioni future una strada di totale ripensamento della sua identità, del suo stare nel mondo, e nella Storia. Dovremmo richiamare alla luce quegli ideali conformi alle nostre coscienze che troppi anni di sospetto, di opportunismo, di pregiudizi, di intolleranze, hanno seppellito di polvere dogmatica e settarismo. Abbiamo un dovere nei confronti dei nostri figli: forse non riusciremo a consegnare loro un mondo migliore, ma dovremmo almeno cercare di dare loro dei nuovi strumenti di lettura e analisi della realtà, delle tessere di un mosaico tutto da costruire all’insegna del bene comune. In questo quadro, si innesta una valutazione diversa delle strategie necessarie per combattere la disoccupazione, nel medio-lungo periodo. Il carattere strutturale del fenomeno, connesso all’innesto su larga scala di tecnologia, è ormai, credo, un fatto acquisito. La scelta dei metodi per contrastarlo, invece, è a mio parere, lo spartiacque che tiene da un lato coloro che hanno a cuore esclusivamente il profitto e la produttività hunc et nunc, espressioni di una logica esasperatamente aziendalista dei rapporti di produzione, e dall’altro coloro che privilegiano la redistribuzione del reddito e la qualità del lavoro e della vita. Flessibilità, mobilità, precarizzazione, frammentazione della forza-lavoro contro riduzione dell’orario di lavoro, salario di cittadinanza, promozione ed incremento dei lavori socialmente utili. Sarebbe possibile un mix sapiente ed oculato di questi correttivi al fine di contrastare la tendenza in atto? Anche in Germania, un esempio che lei cita spesso, la disoccupazione è in lento ma costante aumento fin dagli anni ’70, per poi diventare un fenomeno importante nel 1989 quando, da assomigliare al nostro settentrione, è passata a dover sperimentare cosa significa correre in soccorso di fratelli più bisognosi, con l’annessione dell’Est. Certo, si parla di un paese dove la protezione sociale è ad un livello qualitativo incomparabilmente superiore al nostro, con un livello di salari mediamente più alti e soprattutto, lo ha ammesso anche Abete, con un livello di dibattito all’interno della cultura industriale più avanti di noi di almeno dieci anni. Non a caso il primo esperimento europeo di riduzione controllata di orario di lavoro è avvenuto alla Wolkswagen. Si dice che un progetto del genere è intrasferibile in Italia perché la struttura produttiva non al passo con la competitività internazionale scaricherebbe eccessivi costi sulle aziende. Ma ecco dove una nuova cultura di governo, europeista dal lato della solidarietà e non dal lato della sopraffazione da parte del più forte, deve avere la sua parte: farsi carico di avanzare alla intera Comunità Europea, partendo dal libro bianco di Jacques Delors, che pure contiene timide aperture in tal senso, una proposta di graduale riduzione degli orari e dei tempi di lavoro, da attuare compatibilmente con le singole realtà economiche nazionali, magari operando per aggregati produttivi (metallurgia, chimica, terziario, ecc.). Ciò consentirebbe una equa ripartizione dei costi iniziali e una sostanziale ripartenza ad armi pari sul piano della concorrenza. Non sono da sottovalutare i benefici sociali ed economici che questo processo comporterebbe, oltre a quelli ovvi e inestimabili, sul piano della qualità della vita. Il tempo liberato avrebbe canalizzazioni tra le più varie, una tra le quali potrebbe essere la formazione professionale. E qui mi viene spontaneo il collegamento con uno fra i temi che a Lei stanno più a cuore e cioè la scuola. Il potenziamento della struttura scolastica pubblica, l’efficienza e l’ottimizzazione delle conoscenze culturali e professionali sono un progetto nel quale non si può non credere; tuttavia il prodursi di effetti pratici sul mercato del lavoro saranno giocoforza una verifica a carico delle generazioni future. Una parte del tempo marginale a disposizione del lavoratore sarebbe potenzialmente ed immediatamente utilizzabile per specializzazioni e qualificazioni nel settore dove si opera, potrebbe essere rilanciata la spesa per investimenti nella ricerca tecnologica, e assicurato un ricambio di risorse umane ai livelli tecnici più elevati. Abbracciare questa alternativa insieme ad una flessibilità non di tipo selvaggio, corredata di un sistema di garanzie che, codificando tutta una nuova serie di diritti inalienabili, tuteli in egual misura i lavoratori con contratti diversi, insieme allo sviluppo di attività socialmente utili, servizi sociali, ricreativi, culturali potrebbe essere la mossa decisiva per invertire la marcia.

Altro argomento su cui vorrei chiedere un chiarimento del suo pensiero è quello delle privatizzazioni. C’è un rischio oggi nel nostro paese: quello che si proceda nel merito con una precipitazione ed una determinazione che sconfini nel pregiudizio ideologico. Sembra risentire levarsi le grida di “al rogo! al rogo!” per tutto quello che è stato in mano pubblica. Come per la democrazia politica ben poco ha significato (anzi!) l’avvento di una nuova legge elettorale, così, a mio parere, nella democrazia economica, “estinguere” lo Stato sarebbe profondamente deleterio. Certo lo Stato si deve alleggerire, ma soprattutto di elefantiaca burocrazia, di paludosi clientelismi, di raffinati parassitismi, e, senz’altro, bisogna dismettere qualche attività che per lo Stato comporti oneri di controllo ingiustificati e elementi turbativi della concorrenza. Ma, nei settori delicati come l’energia e le telecomunicazioni, ho serie perplessità che esistano motivazioni diverse da quelle ideologiche per giustificare un affrancamento totale e frettoloso. Per il cittadino-utente l’Enel rappresenta a ben vedere una identità nazionale: dalle Alpi a Pantelleria una rete, una bolletta, un riferimento contrattuale, delle tariffe uguali per tutti. Non è affatto certo che nascerebbe un mercato dell’energia con benefici per i cittadini: piuttosto credo il contrario. Il progetto di smembramento delle attività tra produzione, trasmissione e distribuzione con il passaggio ai privati della prima, significa consegnare loro una sicura fonte di alti profitti che si andrebbe a collocare in un mercato già saturo di incentivi e garanzie a favore dei produttori privati, annullando di fatto le possibilità di una “par condicio” a beneficio dell’utenza. Non è aleatorio prevedere, inoltre, un aumento dei costi derivante dalla divisione di un’azienda – che ora è fortemente sinergica – con conseguente sugli investimenti e sull’occupazione. I servizi pubblici non sono “merce” assimilabile ai prodotti di un supermercato. La loro destinazione sono gli uomini e il loro mercato non può essere che un mercato regolato con accuratezza e garanzie. Nel campo delle telecomunicazioni poi, la frenesia dismissiva ha preso di mira la Stet. La situazione ha forti analogie con quella dell’inizio degli anni ’80, quando un signore milanese cominciò a comprare televisioni su televisioni senza colpo ferire, insinuandosi in un vuoto legislativo da far paura. Allora era etere, oggi è cavo, domani fibra ottica. La filosofia da seguire, a mio avviso, in questo settore non è quella della cessione, ma quella della costruzione: costruzione di un autentico mercato con la liberalizzazione degli accessi; costruzione di un polo pubblico della produzione (RAI, Cinecittà). Un solo dato mi pare illuminante: in Francia e Germania per le privatizzazioni delle locali France Telecom e Deutsche Telecom è prevista un’attività legislativa ed amministrativa lunga otto, nove anni: noi vogliamo risolvere tutto nello spazio di un mattino. Perseverare nell’errore di lasciare a disposizione degli avvoltoi questo immenso potere di decidere come e quali porte si devono aprire e per quali porte si deve passare e come si deve bussare per ottenere risposta, è veramente diabolico. Che il signore di turno oggi si chiami Mediobanca ha un sapore ancora più sinistro: anche qui una concentrazione di potere in un solo soggetto giuridico che fa rabbrividire. Banche, assicurazioni, telecomunicazioni, grandi famiglie del Nord, tutti insieme a braccetto. Professore ci dia su questa questione qualche spunto di serenità.

Per finire, insieme ai miei più sinceri auguri, vorrei formulare la speranza che la coalizione che la sosterrà abbia l’apporto di tutte le forze politiche, sociali e culturali antitetiche alla Destra, perché possano essere rispecchiate, anche se in piccola percentuale, tutte le istanze provenienti da tutti i soggetti più deboli di questo paese, soggetti che potrebbero essere finalmente recuperati alla visibilità, dopo questi ultimi tempi permeati di oscurantismo e cupa rassegnazione.

Lettera aperta ad Antonio Guccione (*)


(*) Antonio Guccione era candidato sindaco alle elezioni comunali del 1996 che poi vinse. La lettera fu pubblicata sul n. 39 del periodico Portanuova del dicembre 1994.

Primavera del 1992. Ere geologiche, spazi temporali dilatati oltre l'inverosimile, ci separano da quel primo incresparsi d'onde. Mi ritrovo a indirizzarti altre considerazioni, questa volta in forma pubblica, perchè ritengo utile aprire il dibattito. Non ti nascondo di essere in uno stato d'animo ondivago, di tipo gramsciano, tra il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà. Nel gioioso turbinare degli “spots” che grandinano sulla nostra telecratica esistenza, è divenuto fondamentale “grattare” il fondo di quel forziere blindato conservato gelosamente nella soffitta della memoria per ritrovare quell’attributo meraviglioso che fa l'uomo "exceptio in natura": la capacita di comunicare. “Persone adulte muoiono quando la conversazione cade” e noi stiamo infarcendo la nostra vita di circolari, fax, slogan, epiteti vari, sulle note di un suadente, cadenzato “rap” senza fine. Un fiume di idee senza parole che rompe gli argini della sopportazione, raccogliendosi in un immenso, spaventoso, invaso di silenzio: questo è il "fascismo-light". 
La sinistra non è immune da colpe per questi black-out comunicativi, per questi cortocircuiti fra coscienza collettiva, bisogni inespressi e rappresentanza politica. Il trapasso paludoso, maleodorante di questi anni '80 ormai alle spalle ce ne da qualche esempio: nell'atmosfera surreale, vagamente felliniana, in cui il CAF costruiva il suo impero, fra l'altro, sulla parola/realtà artificiale, il solo Enrico Berlinguer rivendicava una "diversità" irrisa da molti, poi difesa strenuamente da un Natta poi accantonato come un oggetto da rigattiere. E’ paradossale: la forma-partito è criticabile, forse obsoleta, ma solo il vecchio partito (vedi il crollo di Forza Italia) ha il contatto diretto con il territorio. Il punto è di rendere dinamici questi terminali, non strumentali satelliti del centro, forze vive con continuità, non solo nelle occasioni elettorali. Ricordi la "cellula di strada" di togliattiana memoria? Non esiste qualcosa che gli assomigli: i tanto osannati "clubs" forzaitalioti funzionano solo quando il Capo parla dal tubo catodico, altrimenti sono elementi volatili. E’ successo che, lentamente, è montata un'omologazione strisciante, non so se per scelta cosciente, per mancanza di alternative o per un subdolo effetto "traino", inizialmente sottovalutato. Questo ridurre la politica a "mero tecnicismo" ha avuto una grande risposta nelle grandi manifestazioni di questi giorni che inducono a riflettere: è la rivincita di un altro tipo di comunicazione, epidermica, frontale, senza mediazioni tecnologiche o istituzionali, la parola che buca lo schermo e schiaffeggia il Potere, la proposta di un io-collettivo che sottende al livellamento di costumi, ambienti sociali, etnie e scuote il mondo in tele-narcosi con un incessante tam-tam. E da qui occorre ripartire. Privatizzazione della politica e spoliticizzazione di massa vanno superate con una rivitalizzazione dell'idem sentire fra eguali, tra soggetti solidali e sinergici. Puntando il compasso sulle città (la "polis" donde anche "politica"), futura architrave dove si estrinsecherà il consesso civile, per arrivare gradualmente a Roma. 
Monopoli, una citta, un piccolo microcosmo non dissimile da tante realtà viciniori, eppure cosi complessa, tetragona, multiforme. Vantiamo una storia singolare fatta di grandi slanci e vergognose sudditanze, costruita da marinai e contadini dall'istinto di solidarietà innato, da un ceto mercantile egoista e dinamico, da una manciata di industriali speculatori, cementificatori e senza amor di patria, da un ceto operaio sparuto, ma dalle spalle solide, da una marea di cattolici praticanti dalle tante ipocrisie e da grandi organizzatori di fede (qualcuno censurato, boicottato, esiliato) impegnati allo stremo in invisibili cuciture di rapporti umani e sociali; il tutto condito da qualche vecchio intellettuale chiuso nella torre e molti giovani che imparano presto come si fa a scalare il successo. 
Nella primavera di quest'anno, in pieno tourbillon elettorale, Monopoli sembra alzare la testa: le macchine dei partiti spingono a pieno regime ed anche la società - civile (l'Araba Fenice della nostra città) mostra segni di vita: convegni, dibattiti, confronti a tutto spiano e le poltrone destinate a rinfrancare nuove terga allettano i neorampantismi. Sembrava che la politica, precipitata in mezzo a noi, avesse avuto uno straordinario potere catalizzante, scatenando impegni civici e risorse intellettuali. 
Pia illusione! Tutto si è fermato alla "bolla" presidenziale, confermando che le armi si affilano solo quando si ode un tintinnio di sciabole, altrimenti è meglio tornare nei comodi giacigli in attesa della prossima occasione. 
A maggio la sinistra si candidava al governo della città, con una certa sicumera, devo dire. Poi, dopo il marchio infame è venuta la stagione delle polemiche, delle illazioni (i giudici sono imparziali solo "secundum eventum litis", se non ci toccano da vicino), delle "code di paglia", dei ricorsi, dei rimpianti. E cosi mentre la società civile si rianestetizzava, la vita, in questi mesi, è ripresa tranquilla: chi cercava lavoro ha interpellato il neo-eletto, chi doveva acquistare il terreno che diventerà edificabile lo ha fatto, chi doveva estorcere lo ha fatto, chi doveva prestare il denaro ad usura lo ha fatto meglio di prima, chi doveva lavarsi la coscienza lo ha fatto, chi vedeva "Non è la Rai" ha continuato imperterrito. Tutto normale. Ci siamo solo stupiti e lamentati che (incredibile!) la Commissione Straordinaria abbia seguito pedissequamente le norme vigenti e tutto ciò è sinceramente sconveniente. Mi chiedo: esiste un vocabolo meno dirompente e più assolutorio di "mafia" per descrivere la sintesi di tutti questi comportamenti, omissioni, false coscienze, opportunismi e qualunquismi? Forse qualcuno, un po' distratto, dopo il decreto di scioglimento, pensava finalmente di notare, passeggiando in piazza, dei distinti signori in giaccone e pantaloni da caccia, berretto schiacciato sulle ventitrè e fucile a canne mozze a tracolla? Bene, cerchiamo di essere realisti e, al di là degli accadimenti giudiziari, che terremo nella dovuta considerazione, occupiamoci della crescita della nostra città. Gli spiriti liberi, la gente sana ed onesta, i circoli, gli operatori della scuola, tutti noi dovremmo farci carico di una grande missione: innescare un processo graduale di presa di coscienza collettiva sui grandi temi della solidarietà, dell'onesta intellettuale, della civiltà dei comportamenti, della sana amministrazione, per poi costruire dei progetti, semplici, non faraonici, destinati concretamente al nostro paese. 
Occorre cercare con continuità disarmante, occasioni di dibattito, con un metodo, per cosi dire, policentrico, non fermandoci ai luoghi sacri e istituzionalmente, storicamente preposti; dovremmo riapparire nel Centro Storico a sentire le voci degli eredi dei nostri avi, la storia che piange il suo abbandono dalle pareti sbrecciate, dai vicoli desolati; ci sono dei concittadini dimenticati nei quartieri periferici, Via Piccinato, Via Castellana; diamo loro il diritto di espressione, vestendoci di umiltà e bussando alle loro porte; e che dire delle nostre campagne violentate, vilipese, raggirate, abituate al mercato dei diritti soggettivi che dovrebbero essere assicurati "ex lege"? Facciamo diventare protagonisti gli esclusi. Padre Ernesto Balducci diceva che “viviamo in un accampamento regolato da rigida disciplina imposta dai "sorveglianti" (il Panopticon), dal quale gli "immondi" sono esclusi". Nostro dovere è uscire dall'accampamento e aiutare gli esclusi a guardarlo ed a scoprire che esso è "immondo". La festa dell'Unità divenga itinerante: meno stands, meno budgets e poche strutture, leggere, che battano a tappeto il territorio. Ma, mi dirai, abbiamo solo, come minimo, un anno di tempo fino al voto e questo è un programma a medio-lungo termine. D'accordo. Iniziamo a scavare le fondamenta, non mettendo nessun carro davanti ai buoi. Possiamo anche continuare a ragionare di numeri e di alleanze, ma partendo dal basso: rovesciamo la politica, rendendo, per quanto possibile, le comunità responsabili delle proprie scelte, protagoniste sulla scena cittadina. 
Non commettendo gli errori del passato, come, quando, con una specie di "accanimento tattico" si seziona l'elettorato per capire chi può venire dalla nostra parte a seconda o meno di un nostro comportamento: il tuo segretario sezionale in un incontro pubblico, ad esempio, si è detto preoccupato per le sorti dei liberi professionisti che ruotano attorno al mercato dell'edilizia (...) A parte le perplessità sull'effettivo stato di indigenza di questi rispettabilissimi concittadini, non mi sembra che il PDS pur di mostrarsi sensibile alle problematiche di tutte le classi sociali, debba dimenticarsi che i suoi principali interlocutori sono gli operai, i disoccupati, i pensionati, le donne, gli emarginati (gli "esclusi" dall'accampamento). Occhio alle blandizie dei vecchi e nuovi cortigiani! Quando si arriva a fiutare l'inebriante profumo del potere, si levano dalle sirene canti afrodisiaci... Insomma, il terreno di incontro (anzi, mi spingerei a dire di abbraccio) tra cattolici e progressisti è la dedizione verso gli oppressi, non i tavoli per la spartizione dei posti a sedere. In questo tipo di abbraccio credo fermamente, come credo che il tuo impegno sia oggettivamente orientato in questa direzione; e mi piace terminare proprio tentando una sincrasi ideale tra due grandi figure della storia: l'una che sostenne di “andare avanti con due riferimenti, il cielo stellato sopra di sè e la legge morale dentro di sè” (Kant) e l'altra di “orientare la propria vita sentendo sempre come profondamente proprie tutte le ingiustizie che si commettono contro chiunque, nel mondo” (Che Guevara). 
Con immutata stima.

5.6.19

Scandalo calcio



Pubblico un intervento sullo scandalo che colpì il calcio professionistico. Fu pubblicato sul periodico Portanuova di agosto 2006 n. 74

Le vie del nostro paese sono frequentate da popolo festante, gioiosamente rumoroso per i trionfi pallonari, cittadini e nazionali. E, sfrucugliando tra il consueto nugolo di riflessioni, costituzioni rabberciate, centrosinistra virtuali più che reali, guerre sempre in agguato dietro l'angolo, varie ingiustizie planetarie, colgo un rivolo forse meno nobile, ma comunque stimolante. Mi riaffiorano, emergenti da un oblio semi-felliniano, immagini in bianco e nero: un folletto irridente e rompiscatole che aveva il n. 10 sulla maglia e andava a 10 all’ora con le gambe, ma a 100 all’ora con la testa. Quelle spalle macilente appartenevano a Gianni Rivera che è stato il responsabile n. 1 della mia passione calcistica. Non calciava, vellutava, non dribblava, siluettava, non sparava all'incrocio, ma deponeva trigonometricamente. Era il re di un'epoca in cui un operaio aveva un salario "solo" sette, otto volte meno di un calciatore e non trecento o quattrocento, come oggi. Era il tempo in, cui papà e mamma ti volevano "sistemato" piuttosto che precipitato a 12 anni nella bottega di famiglia o nei campi assolati. Era il tempo in cui poteva vincere anche chi non era ricco come il Cagliari di Gigi Riva "rombo di tuono" e la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi. Era il tempo di "scusa Ameri, sono Ciotti dal Cibali..." Era il tempo di Umberto Saba con il suo portiere "caduto alla difesa". Pane e cicoria, con buona pace di Rutelli. Cosa è accaduto a questo sogno in bianco e nero? Con una facile battuta potrei dire che è divenuto un incubo bianconero, ma non è cosi. Hanno mercificato tutto, persino gli organi dei bambini, figuriamoci. Oggi un imprenditore non è completo se non scala compagini azionarie con i soldi altrui e se non acquista una squadra di calcio che faccia da traino multimediale con un codazzo di politici compiacenti. E che tristezza constatare quanta omertà avvolge questo mondo: Corleone al confronto ha i palazzi di vetro...Ora il mirino è puntato sulle signorine "grandi firme", sui palcoscenici luccicanti, sulle tribune milionarie, ma il calcio è soprattutto serie minori, polvere, sabbia, settore giovanile. Le porcherie che si fanno lontano dalle passerelle chi le guarda? Arbitri minacciati, giocatori picchiati, società ostaggio degli ultras, titoli sportivi comprati come al supermercato. E la vera passione? Desaparecida. Povero Moratti, vilipeso dai suoi stessi tifosi, ultimo signore del pallone. Ora ha la sua rivincita, tanto effimera quanto inarrivabile: ha vinto il suo scudetto più bello, quello che si cuce sul cuore. Guardo mio figlio, gioca a calcio e fissa, inebetito, con gli occhi lucidi, Cristiano Ronaldo. E' il suo ruolo, è il suo idolo, come lo era per me "l’abatino". Che cosa avrei fatto se fossi stato il responsabile di una società che opera nel settore giovanile dopo il deflagrare di calciopoli? Avrei convocato miei collaboratori e i miei ragazzi discutendo con loro dei valori che devono essere a presidio di ogni attività sportiva e che sono stati traditi e calpestati. La rifondazione, come in tutte le cose umane, deve partire dal basso. Invece niente, non succederà niente e quel rettangolo verde rimarrà sporco e grondante melma dall'anima strozzata.

Lettera a Don Franco Ratti


Pubblico una lettera che scrissi ad un amico prete "scomodo" alla gerarchia ufficiale ecclesiastica (sospeso a divinis) per le sue idee progressiste, ma che nell'occasione della guerra in Kosovo aveva preso delle posizioni "interventiste". Fu pubblicata sul periodico Portanuova del dicembre 1999 n. 52

CARO DON FRANCO, IO NON CI STO...
In risposta alla posizione filo-interventista di don Ratti nella recente guerra Nato-Serbia. 

Un tempo mi parlavi d'amore. Amore del Cristo, Amore per l'Uomo e per l'Altro, Amore della Carne e dello Spirito, Amore che bussa alla tua porta, che stringe le mani e abbraccia i visi, Amore che scopri, improvvisamente, al tuo fianco ed a migliaia di miglia, Amore non richiesto né dispensato, Amore donato. A me, cristiano per caso, cattolico per educazione, agnostico per scelta, le tue parole sembravano improvvise raffiche di vento, non so dire quanto benefico, ma di certo coinvolgente, alle quali era intrigante non sottrarsi. L'umanità di Dio che si propone al posto della rivelata, e quindi imposta, divinità dell'uomo. Questo Dio che cammina in mezzo a noi senza forme, ritualità, dogmi e gerarchie; questo Dio senza mitre e pastorale; questo Dio che parla da uomo (da donna?) il linguaggio dell’amore ed è schierato (come è giusto che sia) sempre dalla parte degli umili, degli ultimi, dei soli e dei dimenticati. Questo Dio mi pareva simpatico e la sua presenza potevo accettare, fra le categorie del pensiero. E poi c'erano i Teologi della Liberazione che facevano pensare che si sarebbe discusso e, forse, litigato ancora sull'aborto, ma insieme ad essi si poteva lavorare per costruire un mondo migliore. Un mondo dove sia bandito dagli strumenti giuridici il diritto del più forte. Il diritto di chi, come ci insegna la storia degli ultimi cinquant'anni, interviene con la forza a sedare conflitti che egli stesso ha direttamente o indirettamente provocato, per ragioni economiche o strategiche. Usando i diritti umani come paravento. Usando i profughi come capro espiatorio. 
I protagonisti di queste azioni possono avere nomi diversi. Stati Uniti, Urss e poi Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Australia, e dall'altra parte Corea, Vietnam, Irlanda del Nord, Ungheria, Cecoslovacchia, Nicaragua, Panama, Afghanistan, Iraq, Tibet, Bosnia, Somalia, Serbia, Cecenia, Timor Est. Siamo in un unico grande Risiko. 
Lo "scacchiere", lo chiamano. Come possiamo noi definirci asetticamente "pacifici" quando coloro che si arrogano il diritto di difendere i perseguitati sono gli stessi che hanno venduto le armi ai persecutori? Come possiamo sposare una ideologia alla Charles Bronson ed arruolarci tra i "giustizieri", quando la logica che presiede all'individuazione del "nemico di turno" è solo ed esclusivamente una logica di potere e di mercato? Ma non desidero parlarti di politica. 
E’ la tua posizione spirituale che rispetto, ma, rispettosamente, contesto. Non mi faccio accecare dalle ragioni della storia e della politica per celare il conflitto interiore che ha scarnificato le coscienze quando la prima bomba è esplosa. 
Quando il profumo di questa nostra primavera di quest'ultimo scorcio di "secolo breve" è stato ammorbato dall'orrendo tanfo del sangue, quando le nostre notti erano turbate dai sibili di quegli "angeli di sterminio", quando la nostra costa è stata deturpata da inquietanti presenze puntate verso l'azzurro, ho iniziato un percorso di umiltà, ad un certo punto del quale, non ho potuto fare altro se non percuotermi il petto accusandomi di una colpa, di una grandissima colpa: noi, cosiddetta "civiltà occidentale", incalliti consumatori di supermercati, teledipendenti e telefonizzati, non siamo in grado di capire! Preferiamo prima ignorare e poi bombardare. Per salvare innocenti annientiamo altre vite innocenti in servile ossequio a coloro che santificano l'assurdo ossimoro della "guerra umanitaria". Che cosa stava succedendo a pochi chilometri da noi? Che cosa si cela nei Balcani martoriati? Qual è la tremenda, secolare, storia d'amore e d'ingiustizia che è sepolta sotto le pietre del Campo dei Merli, nel Kosovo? Perché la pulizia etnica, gli stupri, le stragi? 
L'Amore è assioma o legittima difesa? Il Fraticello d'Assisi o la tua Giovanna d'Arco? Gandhi o Enola Gay? Martin Luther King o Bill Clinton? 
Dubbi: fragorosi, struggenti dubbi. Resi ancora più pesanti da sopportare quando sono iniziate le vendette degli albanesi con i serbi a fare la parte del piattello. Io non credo che L'Amore sia assolutezza; credo che senza le lenti correttive della Ragione, l’Amore non sia tale, ma sconfini nell'afasia o nella pura convenienza. Credo che il cuore del vero pacifista sia quello che batte per le ragioni del dialogo in ogni luogo della vita umana, perché è consapevole che in tutte le guerre i veri sconfitti sono i poveri del mondo, i reietti, gli abbandonati, gli ultimi. Saddam, Milosevic, sono saldamente al loro posto, ricchi e temuti, come lo sarebbe Habibie se fosse stato oggetto di "ingerenza". Cosa ha da spartire, mi dici, "la vita contemplativa", massima espressione amorosa, con il bombardamento di scuole, ospedali, fabbriche di automobili, con l'uso di armi micidiali all'uranio impoverito, che uccideranno fra cinquanta, cento anni i pronipotini degli attuali abitanti della Serbia, forse per punirli, rinfrescando loro la memoria, delle malefatte dei loro antenati? 
E che relazione lega l'Amore del Bambino, del Cantico del Cantici, con le bombe a frammentazione che non esplodendo al contatto con il terreno, rimangono inerti fino alla prima, innocente, futura manipolazione? Io non sono spesso d'accordo con il Papa. Anzi, sono spesso in disaccordo. Ma devo prendere dolorosamente atto che è rimasto tra gli ormai troppo pochi critici del capitalismo/liberismo, scavalcando in ciò parecchia sinistra nostrana. Sono consapevole che sul piano della storia, la Chiesa, con in capo il suo massimo rappresentante, ha ancora debiti notevoli da saldare, dalle Crociate alla Controriforma, passando per l'inquisizione, fino alle torbide commistioni con finanza e massoneria. Non ultimo, è censurabile l'atteggiamento vaticano (in buona compagnia con la gran parte delle potenze occidentali), che ha contribuito all'esplosione su basi etniche della ex Jugoslavia, riconoscendo la Croazia e rimuovendo un passato scomodo con la beatificazione dell'ambiguo cardinale Stepinac*. Da agnostico guardo con critico distacco l'inamovibilità del pensiero e dell’istituzione sul piano della temporalità e della interpretazione e imposizione dogmatica della dottrina religiosa. Ma sulla difesa ad oltranza della pace, non ho dubbi a schierarmi al fianco del Papa, anche se, età ed acciacchi permettendo, una sua interposizione maggiore, sarebbe forse stata più utile a scongiurare eventi nefasti. Ma io, proprio in quanto non mi sento parte in causa di un conflitto spirituale, conservo questa libertà di pensiero. Sei in grado di dichiarare anche tu la stessa autonomia di giudizio? O la foga antipapalina ti forza la mano e il cuore? Carissimo Don Franco, abbi comunque sempre la mia stima e tornami a parlare d'Amore, quello che riconosco e saluto per la strada, come un amico perso di vista che si ferma a riabbracciarmi. 

* Stepinac fu accusato di aver dato il suo sostegno al regime filo-nazista del croato Ante Pavelic, che con i suoi ustascia si rese responsabile di un vero e proprio genocidio nei confronti dei serbi.

L'Istituto San Giuseppe


Pubblico una lettera che inviai quando si prospettò l'abbattimento di un Istituto Scolastico per far posto a degli appartamenti. La totale assenza di lungimiranza da parte delle istituzioni dell'epoca non consentì di recuperare un plesso che anni dopo sarebbe stato essenziale per evitare la transumanza di studenti/scolari da un edificio all'altro per la carenza di aule.


Al Sig. SINDACO 
COMUNE DI MONOPOLI 

Al Sig. PRESIDENTE PROVINCIA DI BARI 

Alla Spettabile 
Impresa Edile 
CONSOLI Vito 
Via Margherita, 17 
70011 ALBEROBELLO BA 
e, p.c. 

Al PROVVEDITORE AGLI STUDI BARI 

Alla redazione della "GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO" BARI 

Alla redazione de "IL BORGO" MONOPOLI 

Monopoli, 10 gennaio 2000 

Oggetto: Ex Istituto S. Giuseppe - Via Lepanto, Monopoli 

Stimatissime Autorità, egregi signori 

apprendo che il plesso in argomento, di proprietà della Congregazione delle suore di S.Giuseppe e sede storica sia della scuola elementare che dell'Istituto Magistrale parificati - attività ora cessate - è oggetto di interesse, fra gli altri, dell'impresa che pure mi legge, la quale realizzerebbe, previa demolizione dello stabile, nuova costruzione destinata ad edilizia privata. 
La notizia, come cittadino e genitore di, per ora piccoli, utenti delle scuole monopolitane, mi suscita notevoli preoccupazioni, nonchè recriminazioni e disappunto. 
Le condizioni logistiche, sanitarie, le disfunzioni e i disservizi nei quali si dibattono quotidianamente gli operatori della scuola, i docenti, gli alunni, gli organi collegiali, a causa delle condizioni delle strutture che li ospitano sono problemi a Voi ben noti e non è il caso qui di riepilogarli. E questa situazione attraversa tutti i gradi di istruzione, con istituti sparsi un po' qua e la, aule fatiscenti e umide, con sovrautilizzo, con, - per fare un esempio più emblematico, - l'Istituto d'Arte "parcheggiato" nella "A.Volta", ora a rischio di crollo. Questa problematica ha, tra l'altro, influenzato, la Sua decisione, Sig. Sindaco, di destinare l'utilizzo del Centro Sociale, già assegnato alle Associazioni, alla copertura della carenza di aule per la scuola materna. Ed in questa situazione appare fantascienza la possibilità di disporre di palestre attrezzate per svolgere adeguatamente attività fisica, biblioteche aggiornate, sale multimediali, strutture predisposte all'accoglienza gli studenti disabili ecc.ecc. 
Con la presente intendo porre ai preposti alle Istituzioni che mi leggono le seguenti domande: 
Posto che la cessazione delle attività scolastiche nel citato Istituto S. Giuseppe, nonché l'intenzione dell'Ente religioso di disfarsi di un immobile divenuto superfluo erano ormai fatti noti da tempo, sono stati fatti dei passi per manifestare interesse ad acquisire la struttura nel patrimonio edilizio pubblico e, di conseguenza, mantenerla nella sua collocazione più naturale e congeniale, cioè la pubblica istruzione? 
E se questi passi sono stati fatti, per quali motivi nulla si è concretizzato? 
Ed ora che l'immobile sta passando (o è passato) nella disponibilità di liberi imprenditori, che cosa si intende fare per scongiurare la definitiva scomparsa di una struttura che poteva risolvere non dico tutti, ma qualche problema legato all'istruzione nel nostro paese? 
A mio modesto parere, se esiste una precisa volontà politica, si può avviare una trattativa che possa prevedere ad esempio, non la demolizione, ma la ristrutturazione dell'immobile da parte dell'Impresa con la creazione di ambienti normativamente sicuri, predisposti per tecnologie avanzate, destinati ad ospitare più istituti, con le loro sedi stabili, ma anche con un profilo di utilizzo promiscuo ed estemporaneo: penso ad un Centro Studi Polivalente Multimediale, ad esempio, od a un museo, un piccolo teatro, ecc. Al termine dei lavori potrebbe essere previsto o l'acquisto diretto della struttura od un accordo di convenzione che ne destini l'utilizzo all'Ente convenzionato per un determinato tempo contro pagamento all'Impresa dell'affitto annuale. 
Comunque, al di là delle soluzioni tecnico-amministrative, che sottendono problematiche di bilancio e che lascio quindi agli addetti ai lavori, ritengo che questa sia una opportunità da non lasciare cadere, per dare alla nostra città, un miglior livello di servizi. Occorre ricordare che quando ci facciamo ossessionare dalla litania dello sviluppo a tutti i costi, bisogna considerare che uno sviluppo non accompagnato da un adeguato livello generale di istruzione conduce all'imbarbarimento dei costumi ed al prevalere dell'individualismo becero. 
Credo che tutti insieme, Voi Enti Pubblici, Voi Imprenditori, Sig.Consoli, che conosco da lungo tempo per essere persona illuminata, oltreché operatore tecnicamente esemplare, noi cittadini, e operatori della scuola, dobbiamo spendere qualche momento di riflessione su questa vicenda per cercare insieme una soluzione che, fatti salvi gli imprescindibili interessi della remunerazione del capitale di rischio, possa procurarci/procurare a Monopoli un bel regalo per questo inizio di nuovo secolo.

4.6.19

Cronaca di due giornate qualunque


Questa cronaca che racconta il vissuto delle elezioni politiche del marzo 1994 è stata pubblicata sul periodico Portanuova n. 38 giugno 1994

Domenica 27 ore 11,00. 
Mentre deposito la scheda, colgo una sacralità nell'atto che, fino a quel momento, mi era sconosciuta. Ho calcato la matita sul nome di Tonio (*) quasi a volergli dare contemporaneamente sei o sette voti e cercando di attraversare la scheda per aprire una breccia sul futuro e guardare oltre...

Ore 11,30.
Remigio sta girando sulla giostra. Non vorrebbe più venir giù. Ipnotizzato dalle luci rutilanti penso ad un'altra giostra dalla quale siamo tenuti, noi gente comune, sempre a terra, ossequiosi e, al peggio, inerti: è privilegio di pochi, sempre gli stessi, che danno il cambio al manovratore. Hanno scippato i nostri sogni. Spero tanto che finisca.

Ore 17,45.
Una luce azzurra mi spinge a riemergere lentamente dalla pennichella domenicale accompagnato da un nugolo di pensieri non del tutto rassicuranti; il video colorato mi ragguaglia sui risultati della serie A. Novità: il Milan ha perso a Napoli...Chissà! Un segno premonitore di qualcosa che comincia a girar storto per il Cavaliere? La riscossa dei terroni? Strano. Tengo per il Milan da quando, in calzoni corti, avevo sei Rivera gelosamente nascosti e giocavo a "rubamazzo" vicino all'edicola del "comunista", in mezzo a una marea di bustine Panini.

Lunedì 28 ore 12,00.
Al lavoro arrivano notizie strane dalla Borsa. Il mercato sembra impazzito: +2, +3, +4! Dicono che ci siano investitori esteri all'opera, che rastrellano azioni a raffica. "E' fiducia per i Progressisti! L'avevo detto io che Occhetto ha fatto bene ad andare a Londra!" - "Macchè! Sono i sondaggi commissionati e resi noti all'estero...c'è già una maggioranza di Governo!" Ma come? E' possibile che tutto sia già stato stabilito, a urne ancora aperte? La telematica imperversa. Un dubbio si insinua: saranno in grado di sondarci le coscienze, di interrogarci l'anima?

Ore 18,30.
C'è uno strano silenzio in giro. E' tanto tempo che in questa città non si fa chiasso, tranne che per i voti in condotta. Mi manca quel chiasso autentico, genuino, della gente sana che si "fa" politica. Niente più cortei, niente più occupazioni di scuole, niente più operai in fermento (anzi niente più operai, solo commercianti). Niente di niente. Nel '77, a diciassette anni, ero sotto la sede del MSI a gridare slogan ritmati e coinvolgenti. Era commovente immedesimarsi in protagonisti della Storia, avendo di fronte due o tre vecchietti intenti alla loro "briscola". Ma era qualcosa. Ora il vuoto.

Ore 20,30.
Inizia il "Rosso e il Nero" e la tensione è al culmine. Santoro mi sembra giù di corda e a poco valgono i frizzi e i lazzi di Fabio Fazio che lo vorrebbe al posto di Fiorello al "Karaoke". Dopo "i comunisti che mangiano i bambini" c'è Lucio Dalla con "Henna"ed il tono diventa ancora più spento, mortificato, ripiegato su sè stesso. E' quasi l'ora: sembra capodanno...e come fuochi pirotecnici esplodono gli exit-polls! Dio mio! Non ci credo, saranno sballati...Cerco febbrilmente di fare le somme...ma perchè ci hanno complicato così la vita con questo sistema elettorale? 23% al Polo delle Libertà + 13% al Polo del Buon Governo + 9% ad AN... ed ogni volta uno scalino in più su quella dannata colonnina azzurra...ma dove vorrà arrivare, in cielo?

Ore 22,30.
Lucio Dalla mi scrive molto forte perchè sono sconsolatamente lontano, anni luce. E' ormai tantissimo che spero in un anno che non è mai venuto e anche questa volta mi ha dribblato e fatto uno sberleffo. Cosa farò domani? Niente. Sarà solo un altro maledettissimo giorno qualunque dove faremo tante cose qualunque, incontrando tante persone qualunque. Come te, Drazen, che vivi da Mést Pépp in contrada Guidano con quel fazzoletto di povere cose che ti sei portato dall'Albania e speravi in una legge più tollerante; e come te, Nicolino, giovane di quarant'anni cassintegrato Fincantieri con quelle mani che sanno miracolare frizioni, cilindri e batterie, ora costretto a rattoppare biciclette a Portavecchia; e come te, Mariella, ragioniera da sei anni nei quali hai trovato solo porte chiuse perchè donna, e come tale, suscettibile di una scomoda e colpevole maternità. No amici, non molleremo la presa. Da domani avremo più voglia di ieri, di sempre.

(*) Antonio Guccione presentatosi candidato (Progressisti) al Senato nel Collegio di Monopoli dove prevalse Giuseppe Petrelli (Polo del Buon Governo).

Recensioni all times



La musica accompagna il film della nostra vita ed ognuno di noi si crea la propria colonna sonora. Questi sono i pezzi che più hanno rappresentato momenti, sentimenti, emozioni della mia sceneggiatura.

Antonello Venditti – Sotto Il Segno Dei Pesci: una delle colonne sonore degli anni dell'impegno, dei valori, della voglia di cambiare il mondo, un pezzo di storia custodito nel cuore.

Bob Dylan – Knocking On Heavens Door: idem come sopra con in più un respiro planetario, una rivoluzione globalizzata.

Bob Marley – No Woman No Cry: l'apoteosi cadenzata della donna, dell'amore senza confini e senza tabù, senza "prigioni" e senza limiti, la rivoluzione del privato.

Francesco De Gregori – Il Canto Delle Sirene: il rimpianto nelle ossa per non avere amato abbastanza un padre e non essere stato amato nel modo giusto, il desiderio sconfinato che ciò non accada mai più, da piangere senza ritegno.

John Lennon - Imagine: la fotografia del mondo, un affresco sublime, la volontà di esserci, sempre.

Neil Diamond – September Morn: le note malinconiche e nostalgiche di una stagione di riflessioni e di rimpianti.

I Nomadi – Io Vagabondo: l'eterno bambino che vive in me, la voglia di girare il mondo senza se e senza ma.

Roberto Vecchioni – Figlio, Figlio, Figlio: senza commento solo da commuoversi e piangere per la forza della verità.

I Beatles - Yesterday: quello che era e non può tornare, quello che di bello è restato in me.

Gli Eagles – Hotel California: la ballata dell'amicizia, della solidarietà, dell'altruismo che non ha razza, religione, sesso o pregiudizi.

23.11.18

Femminicidio


Solo io
poeta di strada
spargerò versi
carezze di vento
sul selciato del mondo

Solo tu
donna di strada
indosserai quei versi
carezze di sole
intoccabile al mondo.



La mia alba


Strali
d'inconsueto senso
come filari d'alga
cingono l'alba
nubi di feltro
disegnano volti

afferro ombre
chinate sul mare
s'insinua feroce
il dubbio sulla vita.

16.11.18

Pensiero indelebile

Un pensiero indelebile
è un varco temporale
sul cielo di Venere

una breccia che sgretola
muri di piombo

ardente lava
che fonde scudi arteriosi
penetra alvei
scava promontori

è l'arco della tua schiena
tesa verso il paradiso

è la tua impronta di sole
marchiata sulla mia anima.

13.11.18

Resistenze


Non esiste verso
tenue grimaldello
che potrà forzare
serrate valve
ventricoli pulsanti
della tua anima
vorticosa
esplosa
di mille soli
proiettati sfiniti
su mille galassie
dove vorrei atterrare
baciando prati fioriti.

12.11.18

L’attesa


M’ingegno
a scalfire
scaglie di momenti
rubati al vespro.

Spirali d’alabastro
ipnotiche naiadi
brumano l’aura
fluida e cruda.

L’ignoto incombe
erra sul confine
tracima di rabbia
bruca tempesta.

8.11.18

Il pescatore stanco




Il pescatore stanco
guarda con occhi lievi
l’onda che ruzzola
innervate alghe,
l’onda che flette
strascica e viluppa
sabbia e sale.

Il pescatore irato
guarda con occhi bassi
la schiuma che ribolle
di plastica intrusa,
lercia racconta
tonfi di gabbiani
trémiti di vento,
scarti di beccheggio
bagolar di verricello.

Il pescatore tetro
avverte ad occhi chiusi
l’umido che sale
perlata nebbia
rancido fumo
che affonda i sensi
abbruma i polmoni
ghiaccia le vene.

Il pescatore cupo
guarda con occhi torvi
gozzi e lampare
vira indietro il timone:

ogni ruga è un’avventura
ogni storia rema contro
la storia che dipana,
giacula, sfarina
vicende d’oltremare.

Il pescatore è fermo
statuario nel cipiglio
domatore di nodi
fra marosi mai domati
scrocchi di baracchino
ovvietà blasfeme
e laringi infrante.

Il pescatore folle
sposa cielo e mare
con un bacio dello sguardo
vola in alto sulla luna
che indica il cammino
e disegna volti antichi:

bambini nati grandi
ombre danzanti
di padri poco noti
e madri resilienti
disperse all’orizzonte.

Il pescatore piange
lacrime di velluto
ago e filo, polso fermo
rammenda la paranza
assiso sulla poppa
guarda la sua stella
ma non le sue mani.