5.12.12

Scuola "G. Modugno": una scelta sbagliata




Alla fine del 1983 Remigio Ferretti era un cittadino come tanti, impegnato, d'altronde, da sempre, nella cultura e nell'amore per la sua città. Il suo mestiere era girare per il paesello e guardarsi intorno: accarezzare con lo sguardo le piccole e le grandi cose, dal particolare al macrocosmo, con la lente e il cannocchiale. Se coglieva un alcunchè di sgarbato o offensivo per la sua visione di Monopoli (che indossava come un vestito sartoriale) reagiva con l'arma più sottile che la natura gli aveva elargito in dono: la penna. Mi piace quindi ricordare uno scambio epistolare con l'allora Sindaco Walter Laganà che, al di là dei toni rivelatori di un forte scontro di personalità (che però maschererà sempre un grande affetto reciproco), ci aiuta a capire che certi eventi affondano le radici in tempi lontani, e gli errori commessi ritornano con pazienza a ricordarci la loro improvvida esistenza.


LE OPERE PUBBLICHE DI LAGANÀ


Il sottoscritto, avv. prof. Remigio Ferretti, già sindaco della città di Monopoli, espone quanto appresso: è appena iniziata, nel centro abitato di Monopoli (zona Portavecchia), la costruzione di una Scuola Materna che si affaccia, ad ovest, su via Procaccia, è contigua, a nord con le Scuole elementari “G. Modugno”, mentre, ad est è vicinissima al mare.
La ubicazione del nuovo complesso è quanto mai infelice; infatti la zona scelta è battuta tutto l'anno da venti violenti ed è anche assai umida per essere a pochi metri dal mare, quindi inadatta e dannosa per la salute di bambini di così tenera età.
Nel lontano 1958 fu operata altra scelta errata, destinando la stessa zona alle erigende Scuole Elementari “G. Modugno", già citate. Allora, unica scusante poté considerarsi la scarsa sensibilità della pubblica opinione (e della classe dirigente) ai problemi dell'habitat e in particolare dell'urbanistica, ma oggi, a 25 anni di distanza, la cosa è addirittura assurda. Si cominciò allora a creare una massiccia barriera contro il mare, privando abitanti e cittadini dell'affaccio alla costa ed ora, imperterriti, senza soluzione di continuità, si prolunga tale barriera quando, fuori dell'abitato, è vietato costruire a meno di m. 300 dalla battigia!
Il posto è inidoneo anche per il traffico, già caotico, che ingorgherebbe ancora di piú l'unica strada di disimpegno, la via Procaccia; situazione tanto piú pesante, dato che il progetto non prevede il prolungamento di una delle più belle vie della città, via Europa Libera.
Per di più, il suolo in parola di proprietà degli eredi Russo ed altri, (contro cui è in corso procedura di esproprio) presenta natura carsica, geologicamente singolare, con grotte assai profonde, circostanza emersa in occasione della costruzione della ricordata Scuola elementare, che avrebbe dovuto sconsigliare un insediamento pubblico per il considerevole incremento di spese che l'opera certamente comporterà.
Va opportunamente ricordato che il vecchio Piano Regolatore (Capitanio), mentre aveva recepito il progetto di sistemazione della zona; approvato in occasione della costruzione delle Scuole elementari “G. Modugno”, che prevedeva il prolungamento di via Europa Libera, con sbocco a mare e attraversamento di un Lungomare che collegasse le Mura antiche e Cala Portavecchia con Porto Bianco e Porto Rosso, inopinatamente prevedeva anche, a sud della strada ad aprirsi, una zona residenziale a villette.
Col nuovo Piano Regolatore (Piccinato) in regime di salvaguardia, fu impedito a privati di costruire in detto suolo, anzi furono revocate le licenze già concesse, il ché non poteva significare altro che la opportuna non costruibilità del suolo Stesso.
Invece, con designazione contraddittoria certo censurabile, l'infausto Piano Piccinato prevedeva su detto terreno, il sorgere di…un'altra Scuola! Ciò che insomma non era lecito a semplici cittadini, era invece lecito alla Pubblica Ammínistrazione! Bell'esempio di logica, di coerenza e di…lungimiranza urbanistica!
Per le ragioni innanzi esposte, il sottoscritto chiede: in via principale, il trasferimento in altra zona della Scuola materna; in via subordinata, il riesame e la ristrutturazione del relativo progetto, sì da assicurare il prolungamento di via Europa Libera sino alla costa e la creazione dell'indicato Lungomare. Tale seconda soluzione è oltremodo facile e praticabile, dato che il suolo disponibile è ben mq. 7.000 e la superficie coperta solo mq. 700.
La prima soluzione è certo ottimale, dal punto di vista urbanistico, igienico-sanitario, socio-economico, geologico e panoramico, la seconda rappresenta il minimo che un paese civile e chi lo amministra deve fare, se si vuol conservare almeno l'ombra di quelle doti di intelligenza e buon senso, doti antiche e peculiari della nostra gente.

Monopoli, 16.12.1983



REMIGIO FERRETTI


In riferimento al Suo esposto, concernente l’edificio della Scuola Materna in località Portavecchia, mi premuro rimetterLe copia della relazione dell’Ufficio Tecnico Comunale in proposito, da cui può evincersi facilmente che l’eventuale accoglimento delle Sue argomentazioni ritarderebbe enormemente la realizzazione dell’opera pubblica in questione, con possibile notevole aggravio di spese e con sicuro danno della collettività locale, che vedrebbe ancora una volta frustrate le proprie legittime aspettative.

Con l’occasione Le porgo i più cordiali saluti.

Il Sindaco


WALTER LAGANA’


In riferimento alla sua risposta relativa al mio esposto, tendente ad ottenere lo spostamento della Scuola materna in costruzione in Monopoli, zona Portavecchia, o almeno, una ristrutturazione del progetto, sì da consentire lo sbocco a mare della Via Europa Libera, mi premuro precisare quanto segue: L'eventuale e comunque non eccessivo aumento di spesa e il lieve ritardo nella realizzazione dell'opera pubblica non possono in alcun modo giustificare il gravissimo scempio perpetrato ai danni di un'intera cittadinanza, che vedrebbe chiuso uno sbocco a mare di grande rilevanza urbanista, panoramica ed igienica, e distrutto uno dei pochi polmoni della costa urbana. In ciò, sig. Sindaco, consiste “la legittima e davvero frustrata aspettativa della collettività locale".
Né a tale infausta decisione fa da supporto la infelice e scarna relazione del suo Ufficio tecnico. La tipizzazione della zona secondo il P.R.G., quanto mai errata, non poteva impedire, all'atto della redazione ed approvazione del progetto, la ricerca e la scelta di una soluzione (il minor male) che almeno salvasse lo sbocco a mare di via Europa libera e il disimpegno viario della zona. Né può importare la intervenuta approvazione o l'appalto già espletato. Il rimedio è semplice, universalmente praticato: una semplice “Variante in corso d'opera”! Quindi, niente revoca del progetto (!) e dell'aggiudicazione dei lavori (!). Tanto, ovviamente almeno ai fini dell'accoglimento della “subordinata" da me prospettata. Nella tesi del suo Ufficio tecnico mi pare affiori, tra le righe, una visione preconcettualmente ostile ad ogni e qualsiasi possibilità di soluzione diversa, anche se migliorativa. Si tratta, ancora una volta di una visione feticistica e cieca del Piano Piccinato!
Nella vana speranza di un miracoloso suo ripensamento che, al di là del suo “efficientismo", colga con intelligenza e sensibilità, la vera essenza del problema che mi son premurato di sottoporle, spinto da nessun altro interesse, se non il bene della nostra Monopoli, le invio ossequi.


REMIGIO FERRETTI


Pubblicata su “Meridiano Sud” del 15/1/1984.

4.12.12

ILVA: Una proposta indecente


Quello che pesa soprattutto nel modo di fare politica in questo tempo immorale è il fiato corto, lo sguardo miope, il vezzo di volare sempre bassi e rasentare la sudditanza e l'acquiescenza. Si è smarrita la tensione verso traguardi non dettati dal mero utilitarismo edonistico, ma dalla parte alta del torace, dalla forza che muove gli astri, dal desiderio di uguaglianza e di giustizia per tutti. Il caso dell'ILVA macera solo le coscienze di chi non ha mai avuto voce, di chi sa ancora inforcare il binocolo e guardare lontano e, come gli operai con quello materiale, sopravvive al proprio sfruttamento intellettuale. Tommaso Moro nel 1516 immagina un modello di società ideale che denomina Utopia. Non avrebbe mai immaginato però che questo modello, seduto accademicamente sul futuribile, sarebbe stato sconfitto e sbeffeggiato proprio da quel tempo futuro nel quale avrebbe avuto più possibilità di avvicinare la sua realizzazione. Noi inguaribili sognatori, sosteniamo ancora la volontà di mantenere accesa la candela della speranza al di fuori dell'accampamento dove padre Balducci collocava gli esclusi e gli sconfitti. E vengo alla proposta: il gruppo RIVA ha incamerato negli anni miliardi di euro indifferente alla morte che aleggiava intorno alle sue fabbriche. Ma fermiamoci ai 3,5 miliardi che occorrono alla bonifica. La produzione si deve fermare. Anche un altro solo tarantino che si ammali, un altro bambino che nasca con problemi genetici, una sola vita che ancora venga immolata sull'altare della produzione globale è un dazio insostenibile. Allora 3 miliardi e mezzo di euro bastano per garantire uno stipendio medio di 1300 euro per più di tre anni a 50.000 dipendenti. Nel frattempo il gruppo RIVA deve essere obbligato a risanare e quanto meno tempo ci impiegherà a farlo meno reddito di solidarietà dovrà erogare. Utopia? Forse. Ma ne abbiamo tanto bisogno.

29.5.12

Il gioco del calcio


1968. Un anno che di solito viene citato solo con le ultime due cifre, perché non può confondersi con nessun altro secolo. Avevo da qualche tempo iniziato a seguire il calcio. Come fanno tutti i bambini: i colori del gagliardetto, gli amichetti, le figurine, le belle giocate. Non era lo sport che praticavo ma, prima o poi ti ci trovi immerso e coinvolto. Coltivavo la mia passione da solo in casa, contro tutti, in ossequio al mio carattere ribelle, un papà interista e democristiano (che sfiga!) e mamma e fratello juventini: che brutta compagnia! Il calcio era la Radio. Quella a transistor, portatile, che stressava le pile e gracchiava le voci. Oppure il Radiogrammofono gigante, a valvole, che impiegava dieci minuti per accendersi e, dovevi calcolare bene, altrimenti ti perdevi l’inizio di “Tutto il calcio, minuto per minuto”. La Tv aveva due canali e due colori e faceva stare in linea, perchè dovevi percorrere tanti metri al giorno per commutare. La tivvù dei ragazzi e poi, all’interno del Telegiornale (quello col mappamondo), notizie di sport, ma solo quali partite si sarebbero giocate e la classifica. Niente commenti, gossip, telecamere nei bagni dello stadio e quant’altro. La Domenica era il clou. Partita in differita alle 19. Poi la Sportiva alle 21, che dribblava anche il Carosello, per noi destinati inderogabilmente al letto. Gianni Rivera il mio mito. L’abatino di Brera, quello che sembrava stesse su un parquet con la stecca da biliardo ai piedi. Quello che parlava alla palla come ad un essere vivente, indicandogli la strada giusta. Quello che nessun difensore osava toccare perché temevano di essere colpiti da una stregoneria. Quello che apriva la strada a Pierino PratiLaPeste, e il pallone di cuoio cucito a mano, non una sfera perfetta, andava dove andava, dove doveva andare. Il Milan di Nereo Rocco, il “paron”, ogni intervista a rintracciare l’Italiano smarrito, in mezzo ad un gergo misto dialetto-calcese. Era frequente per tutti snocciolare la formazione preferita a memoria come fosse San Martino di Carducci. Gli altri giocatori? Semisconosciuti, se non fosse per le figurine Panini. Iniziai a giocare una schedina del Totocalcio. Due colonne costavano 50 lire quanto un cono gelato con (poca) panna, di quelli che ti si squagliavano tra le mani e poi lo finivi leccandoti le dita. Una volta, avevo undici sulla scheda e aspettavo il risultato di Milan-Fiorentina che si doveva vedere alla TV, in differita. Il mitico Enrico Ameri (che poesia!) non diceva il risultato finale alla fine della trasmissione radiofonica per lasciare il brivido della suspence. Ovviamente avevo l’1, manco a dirlo. Il Milan vinse 2-0 e feci dodici. Vinsi 35.000 lire e le misi nel salvadanaio, quello blu della Banca dell’Agricoltura, con maniglia e chiave su cassetto a ribalta. Come Pulcinella, non ricordo più cosa ne feci. Il Gioco era gioco. Nudo e crudo, puro e azzimo, come il pane che ti nutre e non ti gonfia, zolloso e non ampolloso come il campo degli stadi del 1968, dove garretti e terreno erano tutt’uno, dove si prendeva a calci la palla e non la vita.

21.5.12

Ex Italcementi: rifacciamo Villa De Martino!


Nelle tiepide serate d’agosto dopo che gli ultimi filamenti di sole rossastro avevano disegnato l’aria si preparavano i tavolini e gli scranni dell’orchestrina. Fra poco sarebbe stata musica e folla, fra poco le coppie avrebbero danzato sulle note dei più famosi “chansonnier”, fra poco l’atmosfera sarebbe stata intrisa di festa e di magia. I nostri padri, le nostre zie, gli amici di famiglia, i notabili e i borghesi più semplici, tutti avrebbero provato l’inebriante volteggiare nel verde, immersi tra palme e pineti, tra bouganville e ciclamino. Sarebbero sbocciati amori, ne sarebbero tramontati altri, si sarebbe discusso di progresso e civiltà, di ideali e di sogni di grandezza, si sarebbero gustate le tele e i colori dei pittori di Puglia. Questa era Villa De Martino negli anni ’50. Un’oasi di verde e seduzione. Poi il cemento sovrano e cieco, ebbe il sopravvento. E Villa De Martino sopravvive nei ricordi, e in un triste giardinetto soffocato sotto via Barnaba.
La Villa De Martino con annesso palazzo signorile fu realizzata da Carlo De Martino, armatore monopolitano, su suggerimento della moglie di origini torinesi, Bice Gazzo. L’area verde di oltre un ettaro, con affaccio sul porto, era impreziosita da una statua di Diana cacciatrice e offriva spazio a serate danzanti e varie manifestazioni. Dopo il trasferimento di proprietà ai Giannulo, all’inizio degli anni ’60, venne quasi completamente distrutta per fare posto ad un gruppo di fabbricati. Nel sottosuolo vi è una cripta con alcuni affreschi. Casualmente anche a Posillipo esisteva una “Villa De Martino” che, nel 1962, venne distrutta per far posto ad un palazzo di cinque piani, dando impulso anche ad una interrogazione parlamentare.
Leggo del progetto di “riqualificazione urbana” (sotto questo attributo può nascondersi di tutto), dell’area Italcementi. Leggo di cubature e volumetrie. Leggo di cemento ancora sovrano e cieco. Abbiamo un’occasione per chiedere perdono alla Storia: restituiamo Villa De Martino ai monopolitani. In quei luoghi quasi confinanti alla sua posizione originaria. Restituiamo alla città un polmone sul mare, un balcone verde sull’azzurro. Ritroviamo il gusto della convivialità sobria e civile in un contesto unico e imperdibile. Ce ne sarebbero grate le generazioni a venire.

13.3.12

Ciao Lucio


Ciao Lucio
ci hai lasciato
in un soffio di primavera.

Eravamo tutti in Piazza Grande
avevamo ancora bisogno
di carezze e di sogni
di lenzuola bianche e di briganti

eravamo tutti lì
c’era Tazio, Ayrton,
l’Avvocato e Bonetti
c’erano Anna e Marco
che si tenevano per mano
c’era tua figlia Futura
e il Ballerino stanco
c’era tua mamma geniale
ti chiamò Signore
Gesù fra i pescatori.

Due ragazzi nascosti
innamorati in un rottame
per loro ci sarà sempre
una sera dei miracoli
per loro sfreccerà
il motore del 2000
invecchiato senza età
perché non è riuscito
a disegnare
il cuore del ragazzo.

Ti parleremo ancora
telefonando tra vent’anni
raccontandoti la vita
il sole
la stella di mare
le tue isole vergini
l’ultima luna
il suo parco
e l’anno che verrà.

Ciao Lucio
guarderemo ancora in alto
dove le rondini
si fermano
sul naso dei vecchi
dove leggono nel cuore
da dove arriva
questo strano dolore
e cosa sarà
che fa crescere gli alberi
e la felicità
che ti porta a cercare giustizia
dove giustizia non c’è.

Ancora più in alto
dove canta Caruso
dove ballano gli angeli
due dita sopra il cielo.

16.12.11

Feste da rottamare.


Vogliono cancellare il giorno di festa della Madonna della Madia.
Le riflessioni che sono scaturite ad un agnostico
che ha sempre lavorato quel giorno, sono apparentemente contraddittorie.
E' una tendenza di moda, un trend come si dice.
Cancellare le festività, che siano civili, religiose o patriottiche.
Il primo maggio, la liberazione, le feste patronali.
Tutte in un vecchio scatolone, tutte al macero senza riciclo.
Tutte sacrificate sull'altare della produttività, della crescita.
Per andare dove, nessuno lo sa. 
Per produrre cosa e per chi, nessuno ce lo dice, neanche i professori al governo.
E centelliniamo allora con avidità quel profumo fragrante, quell'aria sottile e invitante
che ci avvolge quando passeggiamo le mattine imbrunite di queste ultime giornate di festa.
Quanto sarebbe bello investire in cultura, arte, poesia, ambiente.
Quanto sarebbe bello capitalizzare una giornata di festa 
anzichè il grigio patrimonio di un Istituto di Credito.
Quanto sarebbe bello rivitalizzare la storia, le tradizioni, le ombre maestre del passato.
Ci aiuterebbero a vivere meglio, a rispettarci, ad apprezzare la vita e le sue grandezze interiori.
Cresceremmo si, e pagheremmo i nostri debiti con la grandezza delle nostre anime.

21.10.11

Se questo è un uomo

Ancora una volta accade che l'uomo si appropria delle credenziali del carnefice, sottraendole a chi le ha esercitate fino al giorno prima...Homo homini lupus...La forza della giustizia soccombe alla debolezza della violenza.

E le sterotipate verità globali lavano il cervello dei giusti e degli onesti.
Quando accade ciò mi ritorna sempre alla mente questa poesia sempreverde di Primo Levi.


Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

19.9.11

I fuochi di Najm*



La prima volta che Najm alzò gli occhi verso il cielo aveva quattro anni. Il papà lo aveva condotto al limitare del recinto dove il sole rosso inondava la pianura dei suoi ultimi rami sanguinanti.
E dietro quegli ultimi raggi, nella nera metà del cielo che tracimava imponente, si accesero dei fuochi...
Almeno Najm pensava che fossero fuochi. E lo chiese al papà.
"Sono segni della presenza divina, Najm. Noi li adoriamo e li rispettiamo perchè vigilano severi su di noi. Se ci comportiamo bene con loro la nostra vita sarà propizia e le messi rigoglieranno e gli armenti ingrasseranno". Najm, incantato, li fissò per molto tempo, fino a che la voce del padre lo scosse e il collo gli fece male.
La famiglia di Najm viveva in una sperduta landa dell'Asia Minore, agli albori della civiltà. Il papà faceva il pastore, così come il nonno, così come tutti gli antenati, così come tutto il mondo conosciuto, che non era poi grandissimo. Najm sapeva che anche lui avrebbe fatto il pastore e fino al momento in cui guardò per la prima volta il cielo nessun dubbio a tale riguardo aprì una breccia nelle sue certezze.
Da quella sera in poi non andava a dormire senza prima sedersi a cavalcioni sulla recinzione a guardare "i fuochi". Seguiva, spingeva, dolcemente, il sole giù, giù, dietro le colline, e rapidamente abbracciava le altre presenze che incombevano. E così per tante sere, come fosse un dovere. Quando il tempo era inclemente e la notte era nera e spaventosa si accucciava nel suo giaciglio e si concentrava...Immaginava i "suoi" fuochi che solcavano il nero della vita....
Passò il tempo e Najm diventò esperto nell'arte del pascolo. La mattina precedeva di qualche ora il sole e accompagnava il papà nei lunghi percorsi sulle pianure desolate ma ricche di foraggi e sementi. Questi, gli aveva insegnato tutto quello che serviva a condurre le greggi in modo sicuro, autoritario, ma insieme dolce e comprensivo. Quegli animali erano la sua famiglia allargata. "Ricordati che se non ci fossero loro non avremmo ragione di esistere neanche noi", lo ammoniva la voce calda e rasposa del genitore.
Le voci dei pastori hanno questa caratteristica: per anni governano il gregge con comandi vocali la cui intonazione è recepita e riconosciuta al volo dalle orecchie delle bestie; pare che si stabilisca un idioma sconosciuto fatto di gesti e invocazioni, un vocabolario sui generis. Ma alla lunga le corde vocali umane subiscono variazioni morfologiche: esse non vibrano più con la stessa intensità, ma pare si adagino nella culla embrionale del tempo perduto, si schierano in retroguardia, sagge e pazienti.
Le giornate trascorrevano sempre uguali e monotone, ma Najm aveva il suo appuntamento fisso al quale non mancava mai. I fuochi lo attendevano pazienti e il suo arrivo pareva eccitarli: sfavillavano come fiaccole inestinguibili rischiarando la notte silente e tiepida di quelle latitudini.
La sua era una splendida ossessione. Passava da un vertice all'altro del recinto, saliva come un furetto sugli alberi più alti, sporgendosi per cercare di toccarli. Lanciava loro delle pietre, ma piano piano, per paura di spaventarli. Si chiedeva continuamente se fosse vero che decidessero il destino delle persone. Alcuni vecchi del villaggio avevano dato dei nomi di animali ad alcuni di essi, come se incarnassero le loro caratteristiche.
Lentamente si convinse che fosse così. Dentro di lui maturò una decisione. Avrebbe agevolato il loro compito. Nella vita si sarebbe comportato in maniera coerente e leale e li avrebbe amati come se fossero stati dei Grandi Maestri.
Il suo appuntamento serale era così divenuto un'occasione di riflessione e dialogo: con sè stesso e con i suoi Maestri. Rifletteva e spaziava su tutto. Sulla sua famiglia, sul gregge, sul raccolto, sulle stagioni che si susseguivano foriere di buoni o cattivi presagi. E poi ancora più dentro di se: le ragioni della sua esistenza, cosa lo guidava, perchè sentiva dentro di sè sempre una strana sensazione di indomabile anarchia, di orizzonti mai raggiunti....
Una sera si fermò il tempo. Lo chiamarono a gran voce ragazzini giunti stremati al limitare della pianura, dove le greggi riunivano le fila e si preparavano al ritorno. "Corri Najm!" Bastarono queste parole. Mentre divorava la distanza che lo separava da casa percepì che la sua vita era ad una svolta.
Era steso su un giaciglio di povere vesti. Respirava a fatica. La fronte bruciava. Vide Najm, il suo piccolo Najm. "Caro" - ebbe la forza di dire - "Sii forte e fai sempre quello che senti, quello che trovi giusto per te e per chi ti ama". E gli strinse forte le mani.
Non pianse Najm. Scolpì all'interno del suo cuore queste parole e lentamente, allontanando tutti, si recò al suo appuntamento.
Erano lì, come sempre, i suoi fuochi, i suoi Maestri. Parvero ondeggiare e brillare più vivi al suo arrivo. Si mise a cavalcioni, come sempre. Mentre sentiva ancora forti e chiare le parole del papà una brezza improvvisa venuta su da chissà dove, spazzò la pianura e si insinuò lungo la sua spina dorsale. Si accese un altro fuoco in cielo. Una luce brillante si affiancò alle altre. E una lacrima viva scese sulle guance di Najm. Il suo papà era lì con lui.
Da quella sera riconosceva quel fuoco dovunque si trovasse...gli pareva che la sua luce brillasse più viva e le pulsioni del suo cuore corrispondevano alle intermittenze nel cielo. I suoi stati d'animo, la sua collera, la sua tristezza, la sua serenità erano riflessi multicolori nell'immensità. Sapeva di non essere solo e questa consapevolezza lo sosteneva e gli dava forza per affrontare la vita e non perdere mai la voglia di sognare e di volare alto.
La voglia di sognare l’accompagnava da bambino. Si sentiva "diverso", ma nello stesso tempo non voleva sentirsi tale. Anzi il suo desiderio più grande era condividere queste sensazioni con gli altri. Non riusciva ad immaginare come l'umanità fosse totalmente impegnata a rinchiudersi in piccole incombenze materiali. Aprire il cuore alla natura, al cielo, conversare con i "fuochi", non sapevano che cosa si perdevano!
E ogni sera cercava un dialogo più forte, più denso, più intimo con i suoi Maestri. Ora che il suo papà era con loro voleva raggiungerli, toccarli, amarli, voleva fondersi con la loro essenza sovrumana, voleva CAPIRE, finalmente.
Accadde una sera, in autunno avanzato. Raggiunse come sempre il luogo del suo raccoglimento. Salì sull'albero più alto che dominava la pianura. I fuochi tremavano, sfregolando nel buio. Si rivolse a loro pensando ad alta voce: "Il mio percorso è giunto alla fine. Mi avete guidato, amato, istruito. Ora sono pronto. Il mio desiderio è comprendere il senso della mia esistenza. Il mio destino è guidare altre anime alla fonte della vita. Eccomi a voi, eccomi papà, abbracciami!"
Lo attesero per tutta la notte. Il mattino dopo lo cercarono invano e qualcuno pensò che fosse fuggito, lontano dalle sue responsabilità: "E' stato sempre un ingenuo sognatore".
Quel giorno stesso arrivarono al villaggio tre cavalieri. Il loro aspetto era stanco e sofferente. Ma le loro vesti e il loro portamento indicavano che si trattava di personaggi di alto lignaggio. "Ci siamo perduti" - dissero - "Avete cibo e giacigli per farci riposare? Possiamo ricompensarvi".
Il membro più anziano della comunità rispose che per loro l'ospite era sacro e che nonostante la loro povertà avrebbero avuto ciò che desideravano.
Qualcuno chiese loro dove fossero diretti. "Ci hanno detto di seguire un evento meraviglioso che si compirà nei prossimi giorni, verso ovest. Sapevamo di dover fare molta strada, ma ora non sappiamo quando nè dove arrivare." Si fermarono a mangiare e riposare e furono grati a tutti gli abitanti del villaggio.
Qualcuno raccontò loro la storia di Najm. Vollero visitare il luogo della sua scomparsa. La sera stessa erano sul posto. D'improvviso un grande fuoco apparve in cielo. Una luce immensa con una scia abbagliante. 
Si mosse e i tre cavalieri capirono.
Dovevano seguire la stella. Najm gli avrebbe guidati.
I loro nomi erano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

*Najm in arabo significa "stella"

2.2.11

Sottobraccio (Un vecchio e una ragazza down)

La ragazza era forte
Forte il braccio
Deciso il passo
Al braccio un altro braccio
Esile incerto
Un vecchio incanutito
Lento opaco
Forte sottobraccio
Fragile alla deriva
Intorno voci
Risate bestemmie
La vita che scorre
Indifferente atona
Il braccio si stacca
La ragazza si volta
Sorride
Ridono i suoi occhi
Mandorle amare
Piomba il silenzio
Scava nel fondo
Squarcia la pietra
S’allontana dal braccio
Attende distante
Attende che torni
Quel braccio agognato
Il vecchio barcolla
Cerca il suo braccio
E’ lì a due passi
Distanza infinita
“Forza!” gli grido
Il tuo braccio attende
Fedele per sempre
Ecco si stringe
Il cerchio d’amore
Vanno felici
La vita spietata
Belli nel sole

27.1.11

Lento


Lento
sciorinare le ore
piene
vaste
acute.

Lento
galleggiare la storia
torva
impervia
negletta.

Lento
sorvolare la pianura
grigia
umida
estranea.

Lento
strappare il sipario
spesso
nero
crudo.

Lento
assaporare l'alba
rosea
gravida
provvida.

31.12.10

Penso

Penso alle anime lontane
Deboli indifese
Penso a chi non pensa
E pensa una volta sola
Penso ai giudici facili
E alle persone difficili
Penso ai sogni stracciati
E a quelli che non sogniamo
Penso ai volti noti
E quelli che vorremmo conoscere
Penso agli estranei
E quelli che vorremmo amare
Penso ai volti inutili
Quelli che vorremmo cancellare
Ma che scolpiti ci segnano
Penso alla follia di donarsi
Penso alla ragione di negarsi

Penso a te
A quelli come te
Che hanno un posto riservato
Che hanno un volto disegnato
Che hanno un mare circoscritto
Che hanno un volo genuflesso
Penso di planare
Su una terra rizollata
Abbracciato all'infinito.

14.5.10

Il trapezista



La corda oscilla nell'aria vibrante
l'afferro rapito, deciso
coriandoli di luci festanti
cantano algidi e proni
salgo, m'avvito, mi ergo pugnante
voglio l'alba, l'acme, l'estatica fine
la musica impazza,
ridono i fuochi sui palchi
sciamano sublimi le volpi
sfuggono e nascondono le lame
sotto i bruniti mantelli.

Sono su, li guardo.
Penzola il mio destino beffardo
ho voglia di sfida
ho voglia d'eterno
ho voglia di volo
ho voglia di sogno.

Vienimi incontro amico mio trapezio
vienimi incontro e chiama il mio nome
adorami e incrociami lo sguardo
vienimi incontro sprezzante
io tenderò la mano
ti stringerò le sbarre
vieni e salvami
amico mio ultima spiaggia
geometrica forma
del mio ultimo volo.

Ecco sono pronto
la musica gracchia sovrana
la folla vaneggia ondeggia pullula
sono pronto teso grondante
gli arti fremono impazienti
sono pronto mi lancio

abbracciami trapezio
portami con te nel cielo
bucami il sole il nulla
travolgimi di stelle
con te nell'infinito
amico trapezio ignaro
del mio folle desiderio.

27.4.10

La notte




La notte è bianca
sole di mille soli.
torva
umile, gravida.

La notte urla
nel sonno dei padri
beve
il sangue dall'urna.

Prego nella notte
un cielo senza dei
complice la notte
vorace firmamento.

Vorrei questa notte
bere il calice del male
ungere il corpo degli eletti
sfilare l'anima dal guscio.

Cosa porterà la notte?
Grembo acerbo dell'aurora
o fragile aroma del mattino?

Rintocchi angusti della notte
segnano il passo del destino
corvi attendono il verdetto
gracchiano futili singulti.

La notte sorseggia avidamente
domande cieche di terrore.
apre dolcemente
saggi fauci dell'ignoto.

23.4.10

Ho fatto l'amore con un sogno














E'accaduto all'improvviso
come un tuono
in una notte di silenzi
come un sorriso
in un bosco di lacrime

sto correndo
e il sangue pulsa
urla nelle vene
implorando libertà

corro corro
e il corpo rimane corpo
e l'anima si separa
e mi guardo dall'alto
e si fa luce il tuo viso
orizzonte, cielo,
universo.

Ho fatto l'amore con un sogno
ho fatto visita al paradiso
ho ballato la danza dei soli
sono entrato nella stanza del tempo.

Ho fatto l'amore con un sogno
e ho fatto di un sogno la vita.

Vorrei restare rinchiuso
per sempre abbracciato al mio sogno
vorrei guardare il mio corpo
inutile involucro finito
restare per sempre nel sogno
albergo infinito di noi.

19.4.10

La tua guancia


Vorrei la tua guancia
Amore mio
Solo la tua guancia
Da sfiorare da baciare
Nelle notti insonni
Nelle fughe volanti
Fra lacrime cadenti

Vorrei la tua guancia
Nuda sul mio petto
Nudo sulla tua guancia
Il mio cuore vibrante
Scandente urlante
Nudo pulsante

Solo la tua guancia
Anticamera di te
Splendida infinita
Entropica atavica
Culmine e fulmine

La tua guancia
Parte di un corpo
Incastonato in me.

La cometa


Rattrappito vagavo
spiaggia sferzata
da scrupoli e dubbi
disperati silenzi
ammorbavano l'aria.

Ignote fiammelle
punteggiavano il tramonto
vacui appigli
ad un cuore disperso.

Da lungi una scia
ha scosso l'orizzonte
fiera, maestosa
sfidando il nero
infinito del nulla.

Hai dipinto l'universo
monocromo, inerte
hai scatenato un'orchestra
di angelici cori.

Voglio perdermi in te
magnifica cometa.

20.11.09

Brenda


Hai pagato il prezzo
Ad un mondo che ti ha scartato
Incidente biologico
Nuda, sola, disfatta
Bruciata dai tizzoni
Del potere screanzato
Putrido e becero
Brenda, sola
Hai pagato il prezzo
Allo spettacolo bestiale
Dei leccapiedi prezzolati
Immondezzai di regime
Brenda archiviata
Giocattolo per annoiati
Anima dannata
Hai pagato il prezzo
Per gli scheletri negli armadi
Amori infami
Consumati e nascosti
Sotto i tappeti della vergogna
Perdona il nostro disprezzo
I nostri poveri luoghi comuni
I nostri miseri intrallazzi
Il tuo spirito è libero
Rincorre la libertà
In un mondo più giusto.

10.11.09

Una fiaba: Ferdinand il falegname

C’era una volta un vecchio falegname che si chiamava Ferdinand e viveva in un piccolo paese della Linguadoca francese a circa 200 chilometri da Marsiglia. Il paese si chiamava Florac ed era immerso in un parco naturale. Ferdinand fin da bambino aveva imparato il mestiere dal papà e aveva fatto il falegname tutta la vita, non spostandosi mai dalla sua piccola botteguccia che si trovava a fianco della sua casetta, in pieno bosco, alla periferia del paese. Però Ferdinand il falegname aveva una particolarità: quando era bambino i suoi genitori, poveri, non avevano mai potuto comperargli un giocattolo e la sua infanzia era stata molto triste. Perciò ben presto specializzò la sua arte nell’aggiustare tutti i giocattoli che i bimbi del paese gli portavano. Ovviamente da questo mestiere non guadagnava molto, giusto il necessario per vivere, ma grande era la sua soddisfazione nel vedere gli occhi brillanti di quei pargoletti che uscivano dalla sua botteguccia felici per aver ritrovato come nuovo il loro passatempo preferito. Poi passando gli anni i suoi clienti purtroppo erano diventati sempre di meno. La tecnologia aveva spodestato i vecchi giocattoli anche nelle preferenze dei bambini del piccolo paese montano di Florac e lui, ormai anziano, aveva chiuso la sua botteguccia e viveva di una modesta pensione sociale, aggrappato ai suoi ricordi. Un giorno si era alzato presto, come al solito e si era affacciato alla porta cigolante della sua botteguccia e aveva osservato a lungo i suoi attrezzi lucidi e ordinati come tanti soldatini in riga, ma tristi nella penombra creata dalle imposte sbarrate. “Eh si!” – sospirò – “Vi sentite soli, vero? Ormai tutti vogliono computer e tutte quelle diavolerie elettroniche! Nessuno aggiusta più niente, si butta via tutto!” Si chiuse la porta alle spalle e si avviò verso il paesello per acquistare un po’ di pane e salame. Arrivato vicino alla fermata dell’autobus notò un certo trambusto, Vide una signora vestita molto bene che chiedeva informazioni. Il cappellano del paese lo vide arrivare sulla piazza e lo indicò con il dito alla signora. Sembrava che cercasse proprio lui, ma che aveva a che fare con quella signora così elegante? La donna gli si avvicinò e gli chiese: “E’ lei il signor Ferdinand? – Si, sono io. – Sono qui per chiederle un grande favore. – Mi dica, se posso aiutarla?” Ferdinand non capiva che cosa potesse volere da lui quella gran signora. “Venga entriamo nel bar”. Si sedettero ad un tavolo e la signora cominciò. “Mi chiamo Justine, ho una figlia di 8 anni si chiama Dominique ed è tanto malata, - Mi dispiace - disse Ferdinand - ma io non sono un dottore. “Lo so, lo so. Io so che Lei però è bravissimo a riparare i giocattoli, ed è di questo che ho bisogno”. “Guardi – cominciò Ferdinand – ormai sono tanti anni che non riparo più nulla ed i giocattoli moderni non li capisco.” No non si tratta di computer – disse Justine – mia figlia aveva un orsacchiotto che si chiamava Barbablù e quando è dovuta andare in ospedale il nostro gatto se ne è impossessato e lo ha praticamente distrutto. La mia Dominique non dorme più e piange continuamente. Sa, non ne avrà per molto, il suo male è spietato e non mi chiede altro che il suo Barbablù.” Ferdinand rimase turbato da quella richiesta. In effetti era tanto tempo che non lavorava più, ma di fronte a quella richiesta cedette. “Dove si trova Barbablù? – chiese. Justine aprì il borsone e prese un pacchetto. Ferdinand lo scartò e vide Barbablù. O meglio quello che restava di Barbablù. Gli artigli del gatto avevano avuto un effetto devastante. Non c’erano più gli occhi e le zampette e il ventre era squarciato e tutta la lana di vetro dell’interno era fuoriuscita. “Ecco – disse Justine porgendogli una foto – come era prima.” Sulla foto si vedeva Dominique, una bella bimba bionda, stringere al petto un simpatico orsacchiotto. Ferdinand notò che Barbablù indossava un cappellino e guanti di lana, aveva delle babbucce e una pipa. Poi capì l’origine del suo nome: sul mento si intravedeva un bel pizzetto blu. “Accipicchia – disse Ferdinand – è un lavoro complicato.” “La prego – disse Justine. lo faccia per Dominique. Ferdinand la accompagnò all’autobus, la salutò e le chiese: “Dove vi trovo? – “Siamo al Saint Michel Hospital, a Grenoble.
Ferdinand si mise subito al lavoro, spalancò le imposte della sua botteguccia e seduto al suo tavolo esaminò la foto. “Il problema principale sono gli occhi” – pensò. Babbucce, guanti e cappellino li avrebbe cuciti all’uncinetto. La lana di vetro e la pipa non erano un problema. Il pelo finto lo avrebbe ricavato e colorato dai residui che aveva nel suo laboratorio. Il naso, bocca e orecchie li avrebbe solo ritoccati. E le zampe? Uhmmmmmm….Forse aveva qualche manina di bambola, le avrebbe ricoperte ed incollate agli avambracci, Il problema erano gli occhi. Dove andava a trovare quelle pietre azzurre con i pochi soldi che aveva? “Vabbè diamoci da fare.” In pochi giorni aveva quasi completato la sua riparazione e mancavano gli occhi e il pizzetto. “Il pizzetto lo faccio per ultimo – pensò – così sceglierò la tonalità di azzurro in base agli occhi.” Una volta, si ricordò, aveva letto una rivista dove c’era una pubblicità di un posto dove vendevano delle pietre adatte a creare gli occhi di bambola con riflessi che simulavano le cornee e le pupille. Lo cercò ansiosamente in una vecchia cassapanca e alla fine lo trovò. “Marsiglia? No e come faccio ad andare a Marsiglia?” Ferdinand non aveva la macchina e neanche la patente. Non si era mai mosso da Florac. Andò a rovistare nel cassetto del comodino e poi nella vecchia caffettiera a carbone della nonna dove nascondeva qualche soldo. 50 euro e 27 centesimi, Andò di corsa alla fermata dell’autobus e chiese come si faceva ad andare a Marsiglia. L’autista disse: “Noi arriviamo fino a Briancon poi deve prendere il treno.” “Quanto costa?” “30 euro in tutto”. “E poi come torno?” – pensò. Vabbè la Provvidenza mi aiuterà. Prese i suoi risparmi, una borsa con dentro Barbablù e qualche indumento ed attrezzo e partì. Arrivò a Marsiglia e pioveva che Dio la mandava. Andò all’indirizzo dell’orefice e vi arrivò bagnato fradicio, Si sedette a riposare un po’ poi entrò e trovò le pietre che gli servivano. Erano proprio due occhioni azzurri bellissimi, Pagò e gli rimasero in tasca solo 5 euro. Come sarebbe tornato a Florac? No, decise, sarebbe andato direttamente a Grenoble per consegnare Barbablù alla sua padroncina. Nella sua borsa aveva portato la colla necessaria per dare a Barbablù i suoi occhi, Si rimise in marcia e avrebbe chiesto un passaggio fino a Grenoble, c’era una strada molto importante che univa le due città. Sempre sotto la pioggia si fermò sul ciglio della strada finchè un camionista non ebbe compassione di quel vecchio che agitava la borsa disperato. Lo portò fino a Grenoble pensando che gli mancasse qualche rotella perché parlava di un orsacchiotto, di una certa Dominique e di un certo Barbablù. A Grenoble chiese dell’ospedale Saint Michel che si trovava al termine di una lunga scalinata. La percorse a passo di carica mentre il cuore gli saltava nel petto e il respiro si faceva sempre più affannoso. Infine arrivò all’ospedale e chiese dove si trovasse Dominique. “E’ in quella stanza” – disse un’infermiera, ma non si può entrare. Ferdinand si avvicinò alla stanza poi si ricordò che doveva fare un’ultima cosa. Prese un pennarello speciale dalla borsa e dipinse un bel pizzetto blu sul mento dell’orsacchiotto. Bussò alla porta e sentì la voce di Justine dire: “Avanti.” “Ferdinand! Sei venuto, non ci speravo più!! Ferdinand si chinò sul letto dove giaceva una bambina, bionda, pallida e con gli occhi chiusi. “Non mi risponde più” – disse Justine. Ferdinand le mise accanto Barbablù e dolcemente le disse: “ Dominique, sono qui, sono tornato, sono il tuo Barbablù.” La bambina mosse le ciglia e accarezzò il pelo dell’orsacchiotto. Subito riprese colore, spalancò gli occhi e tirò a sé Barbablù. “Finalmente, ti ho aspettato tanto! E tu chi sei? “Sono il dottore di Barbablù, l’ho curato e guarito per te”. “Grazie, vi voglio bene” “Mamma per favore lasciaci soli”. “Ma io non posso….” Ferdinand tranquillizzò Justine sussurrando “Ci penso io”. Justine prima di uscire vide che Dominique aveva iniziato una animata conversazione con Ferdinand. Justine si sedette su una panca e crollò dal sonno che non faceva da diverse notti. La mattina si svegliò, andò nella stanza di Dominique e vide che lei e Ferdinand erano entrambi abbracciati con Barbablù e sembrava dormissero. Si avvicinò e vide che Dominique aveva ripreso il suo colore normale e dormiva serenamente. Ferdinand aveva il capo chino e Justine capì. Il suo grande cuore aveva ceduto. Le fatiche fatte per portare il suo dono a Dominique erano state fatali. I dottori dell’ospedale dissero che Dominique era guarita e che c’era qualcosa di miracoloso in quello che era successo. Ora se doveste capitare per caso nel piccolo cimitero di Florac, c’è una tomba bianca e semplice con una piccola lapide. Sulla lapide c’è scritto “Grazie Ferdinand, ci hai dimostrato quanto forte è la potenza dell’Amore.”

12.10.09

Inaspettata





Non mi aspettavo te
oltre la soglia del comune
oltre il limite del desiderio
oltre il confine dell’immaginario.

Non mi aspettavo te
diafana, volatile, fuggente
assolutamente concreta
vigile sui passi della vita.

Non mi aspettavo te
sinuosa, ricamata di sole,
scarmigliata, brillante
segnare il tempo in un battito
un’elettrica carezza.

Non mi aspettavo te
ma hai invaso l’orizzonte
hai plasmato le nuvole
hai cantato il risveglio
del popolo notturno
stucchevole, inerte.

Non mi aspettavo te
ma ci sei
ed è stupendo così
aspettare il giorno dopo.

11.10.09

Se un giorno ti ricorderai di me


Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei essere la mano
che ti ha accompagnato alla luce
il sorriso
che ti ha ridato la speranza.

Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei essere l’orologio
che ti ha cambiato il tempo
il fuoco
che ti ha scaldato il cuore.

Se un giorno ti ricorderai di me
vorrei che fossi l’acqua
che è piovuta nel deserto
la carezza
che ha raccolto il tuo pianto

Se un giorno ti ricorderai di me
Sarò lontano mille giorni
Sarò stanco mille anni
Sarò nebbia all’orizzonte
Ma mi ricorderò di te.