27.9.21

Equinozio

 


Oggi tutto si pareggia
in un’afasico rituale
mentre la vita si storce
tra finte pacificazioni.

Il poeta si strugge
in una calma ironica
e il suo cuore ruggisce
di rabbiosa malinconia.

Una foglia giallo oro
scricchiola rassegnata
sfarfalleggia anemica
inciampando nel silenzio
di un’irridente tenzone
fra luce e tenebre,
albe e crepuscoli.

Il poeta è pervaso
da un’eterna sfasatura:
crepa mai ricolma
di quel grigio multiforme
che sommerge l’equinozio.

Sogno segreto

Avremmo dovuto incontrarci
all’alba di un sogno segreto
sulla cresta di onde celesti
ospiti di un concerto di rondini
corolle multicolori
diafane emissioni di stelle
io e te abbracciati
ad un cuscino di nuvole
amandoci fino alla trasparenza.

 

Leggi una poesia

 

Leggi ogni giorno una poesia
ad alta voce per strada
sorridendo al postino
e alla ragazza del bar
perché la poesia
è come invitare a cena
un amico che si era perduto
offrendogli un dolce di crema
da spalmare sull’anima.

Le virgolette di una favola

 

Sai cosa mi piacerebbe?
Sfogliare un libro di pagine mai scritte
in quelle sere d’estate
quando le stelle capricciose
ci tengono coi nasi all’insù
e tutto sembra possibile
dal gelato con la panna ai miracoli.

Allora vorrei salire con te
su quella collina
dove si baciano i pianeti,
dove flirtano le cicale
e gli uccellini si addormentano
col pigiama di foglie.
Giungere lassù in alto
dove le fate e le sirene
affacciate al firmamento
ci osservino invidiose.

Scopriremmo quella casetta
pan di zucchero e fragole
col tetto di cioccolata.
E lì ci potremmo sedere
a gambe ripiegate
incantati da un’orchestra di grilli
battendo le mani al ritmo di gospel.
Allora ti racconterei
di come ho convinto
gli elefanti a volare
e le balene a fare surf.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto
di andare a comprare il pane
e di lasciare stare gli elefanti,
che le fate hanno altro da fare.

Invece io, testardo,
ti avrei portata in braccio
in riva al mare
dove i delfini ballano il cha cha cha
e ti avrei raccontato storie di pirati
di tesori e isole misteriose
nel punto dove si tuffa
la coda degli arcobaleni.
Ti avrei chiamato “mia Perla”
posando sul tuo capo una corona
di rucola e papaveri.
E sotto il cuscino
ti avrei donato
un intero continente
di frutta tropicale
e ti avrei chiesto di sposarmi
fra le canne di bambù
con le tasche piene di lucciole.

Eppure lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto
di ammainare la bandiera,
di abbordare il benzinaio
che le lucciole le ho in testa.

Ma io, incosciente,
ti avrei portato
nella grande prateria
dei nativi americani
ti avrei donato le mie frecce
per infilzarmi ancora il cuore
e avremmo intonato
il dolce canto del bisonte.
Tu, mia Pocahontas,
avresti fatto ghirlande di comete
e io ti avrei raccolto pepite
dal fiume del mio amore,
miliardi di carati
ad abbellirti il seno.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato
saresti galoppata via
a fumare una sigaretta,
e le pepite nella differenziata.

Io ancora perduto
nella mia celeste illusione
e tu che non sei mai uscita
sul terrazzo dei sogni,
ma sei ferma al piano terra
circondata da te stessa
e piena di normalità.

Forse non ricordi più chi sono
nè perché scrivo parole a vanvera
con i piedi sulla luna
e il tuo nome
tra le virgolette di una favola.

17.9.21

Gradini di cielo

 

Salgo in cima
a questo cielo plumbeo
le unghie affilate
arrugginite dai ricordi

scalini di nuvole
increspano raggi spuntati
scie di false speranze
disegnano verità

tra fasci di sole malato
cerco un bagliore
sdraiato sulla tua bocca.


Autunno

 

Qualcuno ha bussato alla mia porta
era l’autunno
educato e solenne
ha chiesto se ero pronto
ed io ho risposto
che poteva entrare.

Quando si è accomodato
l’ultima rondine ha fatto la valigia
e se n’è volata nella nebbia.

Questo spazio di cielo
è diventato vuoto
ma il cuore si è riempito
di dolce malinconia.

Recensione alla silloge "Vivere di mare" di Teresa Tropiano

 


La prima cosa che mi è venuta in mente pensando al mare (e ne scrivo anche nella recensione a Teresa) è la libertà. La libertà è connaturata al mare, la cui forma liquida è immune da costrizioni. Come diceva Lucio Dalla: “il mare non lo puoi recintare”. E attraverso di esso c’è chi cerca e, spesso, trova la libertà. Di pensiero, di azione, di vita. Penso a tanti scrittori che hanno trovato nel mare libertà di espressione. Hemingway, Salgàri, Melville, Stevenson, Conrad. Noi monopolitani, riandando alla nostra storia siamo figli di Egnazia, ricca metropoli sul mare, quasi una capitale della Magna Grecia di quei tempi. Quella città fu distrutta e i loro benestanti abitanti migrarono poco più a nord. E incontrarono i pescatori di un misero villaggio incastonato tra le grotte che si chiamava Portus Pedie. Immaginate questa povera gente coperta di umili vesti, che accoglieva con un abbraccio solidale ricchi e nobili egnatini che fuggivano dalla morte, ancora con le loro magnifiche toghe lacere e insanguinate. Fuggivano sul mare. Accanto al mare. E nacque Monopoli. Perché le origini ce le portiamo salde addosso con tutte le nostre cicatrici. Come non pensare all’offrirsi alle nostre sponde del quadro della Madonna che venne dal mare e unisce tutti i monopolitani con la sua venerazione? E facendo un salto nel tempo. 1971. Cinquant’anni fa accogliemmo i naufraghi dell’Heleanna. Dal mare. Le nostre barche, i nostri pescherecci accorsero e salvarono vite. Vent’anni dopo l’arrivo degli amici albanesi sulla Vlora nel porto di Bari. Gente di mare come noi, talmente vicini che ci potremmo salutare come si potrebbe fare da un condominio di fronte. Il mare è la culla della vita, noi stessi siamo fatti soprattutto di acqua. Tornando agli albori del nostro pianeta, ricordiamo che le terre emerse erano tutte unite e circondate da una immensa distesa d’acqua dove brulicavano le forme di vita elementari. Si chiamava Pangea. Immaginate questo enorme blocco, questo Continente Unico dove sarebbe stato possibile incontrarsi a piedi, stringersi la mano e visitare il mare a destra o a sinistra. Niente barconi, niente stragi, un unico girotondo intorno al mare. Perché lo sappiamo il mare è giudice imparziale e inesorabile. Spazza via gusci di legno e affonda il Titanic. E noi lo riempiamo di plastica e petrolio. E a volte riusciamo ad accecare questo universo azzurro, quest’alchimia di vento e sole, questo miracolo della natura. Non possiamo non amare questo dono che ci è stato fatto: noi, gente di mare, se potessimo scegliere il nostro ultimo sguardo, lo dedicheremmo a quelle onde meravigliose, a quelle carezze di spuma, a quegli orizzonti in punta di baci, dove abbiamo accompagnato i nostri affetti, dove abbiamo rincorso i nostri amori, dove abbiamo scritto le nostre invincibili parole di libertà.

Teresa Tropiano è una figlia della sua terra bagnata dal mare. E di questa sincrasia coglie le sfumature profonde. Il rincorrersi delle stagioni in cui il mare racconta storie avvincenti, plasma incontri, accarezza o rimprovera, proprio come una madre premurosa. Teresa veleggia con la sua barchetta intagliata nel nodoso legno del cuore, cogliendo fra schizzi di spuma e essenze salmastre i messaggi che la natura ci invia, con delicatezza e con acute introspezioni. Nel suo profondo l’animo umano assomiglia al mare con le sue bizze e le sue incantevoli e mutevoli espressioni. È un volume che canta alla libertà: come scrisse Baudelaire “Uomo libero, sempre amerai il mare! È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima nell’infinito muoversi della sua lama.”

10.9.21

Cuore migrante

 

Ogni notte
migro verso la tua anima
sul barcone del mio cuore
fuggo dalla guerra del silenzio
affronto i marosi dell’assenza
per giungere tra le tue braccia
mio unico porto sicuro.

Arminieggiando

 


C’è una panchina nella villa
dove mi siedo e guardo i ciottoli rotolare
solleticando scarpe che non conosco.

Un bambino gioca col vento,
un altro con le mani nell’acqua
saluta i pesciolini,
una donna guarda oltre la siepe,
dove si ferma l’azzurro.

C’è più vita nelle aiuole
che nelle strade affollate
dove s’imbottiglia il senso
di un’umanità desolata.

31.8.21

Nuvole




Mi piace pensare
di essere dissolvenza
empatica trasparenza
ombreggiante leggerezza
e abbandonarmi al vento.

Verrei a passeggiare
nel tuo cielo sconosciuto
a piangere come pioggia
volando con le rondini
schiumoso d’azzurro.

Verrei a salutare
le tue indifferenze
a inscenare altri miraggi
costruendo su palafitte
le tue inesistenze.

Verrei a depositare
corolle di sole
cerchi d’infinito
vibrazione di sensi
ampolle di magia.

aspettando di sfarinare
in balugini di cenere.

Assenzio


Sei come assenzio
tracanno la tua nudità
incendiandomi l’anima
oblio indicibile di sogni
fantasia di labbra
mi spalmo sul tuo godere
aggrappato all’infinito.

Incontri

 

Te ne sei andata come l’estate
lasciandoci la curva gentile
dei tuoi sorrisi delicati
la tua forza insospettabile
capace di sollevare l’alba
e di carezzare le onde del mare
anche se foriere di tempesta.

Ci hai salutato come l’estate
sgattaiolando come stella cadente
così - semplicemente -
intingendo la tua penna di sole
in un tramonto innamorato,
bussando alla porta del ricordo
che non si è sottratto alla malinconia.

Ti sei allontanata come l’estate
in un ghirigoro di pastelli
una breccia fra le nuvole
dove hai danzato con sussiego
sulla punta dei piedi dell’anima
regalandoci un venticello di rose
che porteremo serbato nel cuore.

25.8.21

Il mio libro


Presso la libreria Minopolis e in tutte le più importanti piattaforme on line.

Il poeta contadino


Ogni mattina quando l’alba
si riappropria della terra
afferro i miei pensieri
d’orzo e pane duro,

mi carico sulle spalle
sementi di ricordi
e calpesto il mio presente
di roccia e salsedine
brullo di sogni mai sfangati.

Sono un poeta contadino
ho una falce per l’ortica
desideri sparpagliati
d’arrotolare col forcone
fango sotto le suole
che frena il mio delirio.

Un poeta contadino
che ara il suo pezzo di rabbia
e dispensa concime di stelle
con gli occhi imbevuti di cielo
e i chiodi nello stomaco.

In lungo e in largo
mi perdo spesso
ubriaco di zolle velenose
ma in alto mi libro leggero
grato d’ali mai domate.

Un poeta contadino
che brucia le stoppie del dolore
rastrella residui di rimorso
e attende l’inverno
con tenacia imbizzarrita.

M’insegue il corvo renitente
ride di bava sanguinante
ma io spargo vita sminuzzata
con l’arco delle braccia tese
i miei versi dinoccolati
s’acquetano fra le crepe.

Sono un poeta contadino
ascolto la voce degli alberi
traduco il canto del pettirosso
sono fatto di corteccia umida
curo le mie piaghe
con resina d’amore.

Pensieri notturni

 


La sera sul comodino
accatasto i miei pensieri
libri dalla consunta copertina
orecchie su pagine ingiallite
a declinare le pause
e mi alzo nella notte chiara
dei desideri e dei miracoli.

Viaggio fra le guglie dell’ignoto
o del noto ricamato a oro
mentre ritorno alle canzoni urlate
sotto incolpevoli finestre
le pazze corse in moto
baci scagliati e adrenalina.

E tu che ti affacciavi al tramonto
per guardare le mie scenate
e ridere di una stagione assurda
dove chiudemmo il mondo fuori
e scalammo le cime della luna.

Cento nomi ti avevo dato
ognuno un pezzo del tuo corpo
ognuno uno spicchio della tua anima
li scrivevo sull’asfalto
perché tu leggessi da lontano.

E quelle mani che correvano
sui tornanti inesplorati
negli anfratti della mente
dove regna la frenesia del mistero
e si raccoglie l’ambrosia dalle bocche.

Chissà se sia mai stato sveglio
se sia mai caduto il cielo
a tenermi la mano
se abbia mai volato
sul tuo sorriso
se abbia mai acceso
il firmamento con i tuoi occhi.

Lasciatemi rintanato nell’alba
a fissare un soffitto di stelle
lasciatemi accoccolato di sospiri
nella placenta di una favola
lasciatemi fradicio di sogni
fino all’ultimo capitolo.

Il cielo capovolto (Fuga dall'Afghanistan)


Camminiamo sulle nostre miserie
esaltando parole storpie
incapaci di tornare umani.

Abbiamo svenduto i cuori
alle aste dei trafficanti di armi
lustrati di putrescente denaro.

Ci mascheriamo di falsa mestizia
perché la coscienza vuole un cencio
umido di sangue di poco conto.

Alle spalle una discarica
di ferite inferte alla Natura
con le lame del Progresso becero.

Va in onda la nostra agonia
di perfetti occidentali
senza macchia e senza senso.

Ci crogioliamo d’inganni
di tridimensionale crudeltà
e sfila il nostro ego imbalsamato.

Qui da questa parte del mondo
vediamo il cielo capovolto.

La ballerina stanca


La danza si è fermata
sul giaciglio della memoria
a due soffi dalla meta.

Sul ponte dove sospira l’anima
rabbocco la coperta dei sogni
lì dove ci sarai sempre
raggomitolata in un tramonto
ormeggiata al mio cuore
per sempre.

Ad una sconosciuta

Hai un mistero
nascosto sotto le palpebre
che si rivela solo
a chi oltrepassa
quella barriera di verde corallo
che incanta e seduce.

Il tuo viso
scolpito di luce
assorbe atomi di candore
e parla di ricami d’oltremare
ghirlande di sogni gemmati
che conducono nel regno delle Fate.

Infinito fascino dell’inarrivabile
sciàmi come sirena
sinuosamente all’apice
dei desideri mortali

- ma come sirena - 
hai tessuto divino
e il tuo cedersi all’amore
sarà privilegio
di un Principe Stellare.

12.8.21

Recensione al romanzo "Ora più che mai" di Rosi Brescia

 

Mi sono accostato alla lettura di questo romanzo con la circospezione generata dai pochi brani ascoltati alla presentazione. Questi frammenti mi avevano dato l’impressione (fallace) di una scrittura un po’ incolore, più descrittiva che pregnante, più introspettiva che ridondante. In effetti i primi sette capitoli hanno un tono lento e ritmato. L’autrice mantiene volutamente sullo sfondo la tragedia della pandemia, che imperversava su tutti i mezzi di comunicazione rivelandoci fino alla noia tutti i particolari scientifici, e anche orribilmente spettacolari di quello che accadeva. La vicenda è incombente, sfiora i protagonisti, ma la calma bucolica della terra di Puglia smorza un po’ tutto, riduce all’essenziale, fa emergere la quotidianità del lavoro, la semplicità dei valori, il verbo della solidità dei vincoli ancestrali. Esemplare la capacità dell’Autrice in questa parte del romanzo, di interagire tra luoghi e caratteri, tra abitudini secolari e nuove necessità, tra un passato incontaminato e un presente da costruire. Il Verismo e una malinconia di stampo pavesiano sono ingredienti certamente presenti in queste pagine.
Poi la svolta.
Dall’ottavo capitolo in poi irrompe l’emozione, sfondando le porte dello status quo, scompaginando le lente scansioni della primavera pugliese e portando alla luce i sentimenti di tristezza, di rabbia, di sconforto, ma anche di atavica forza di coesione, centralità della famiglia e infine di salvifica passione. Le vite dei personaggi si torcono, si avvitano, bucano le pagine e ci sequestrano per trasportarci in cima alle escursioni dell’anima. Ho paragonato questo passaggio come ad una pista di decollo dove i primi capitoli sono serviti al pilota per conoscere, saggiare ed ambientarsi alla strumentazione di un velivolo, il quale poi si innalza nel cielo del sentimento, senza più toccar terra fino alla fine.
E resta in volo l’aereo - divenuto aliante - di Rosi, incuneandosi nei nembi della passione, nei cumuli dell’amore paterno, fra i cirri della nostalgia del vissuto, in altri luoghi e in altri tempi. E alla fine rincorre ed afferra la curva colorata di un arcobaleno di speranza.
Ora più che mai.
“Crederci” è il segreto del volo.
Nel retrocopertina si parla di “favola moderna”.
Mi piace pensare che se una favola potesse trasformarsi in realtà, avrebbe più probabilità di accadere fra i trulli della nostra splendida terra dove l’amore ci può sorprendere dietro i tronchi silenziosi degli ulivi centenari o fra le onde argentine del mare più bello del mondo.

Recensione al racconto "Tre Donne" di Annagrazia Larato

Questo racconto di Annagrazia Larato è evidentemente strutturato al femminile e un lettore maschio - attento - ha la feconda possibilità di essere illuminato da un modo di pensare e provare sensazioni che probabilmente poco conosce e, ancor meno, elabora. Le tre donne di cui si parla sono uno spaccato generazionale insieme univoco per i comuni moti dell’animo - tanto che si potrebbe parlare dello stesso soggetto femminile in età diverse - ma anche variegato in quanto sottoposto a vicende diverse che hanno in comune l’approssimarsi di un cambiamento importante nelle loro vite. L’autrice ci guida in una introspezione speculare nelle tre protagoniste, descrivendo con delicata attenzione i flussi dei loro pensieri, le sofferenze e i desideri repressi, le speranze e i timori verso un futuro impalpabile e - altro fattor comune - da affrontare in solitudine. L’unica differenza tra le tre è quella che Chiara, la ragazzina, possiede l’esuberanza dell’età che le consente di sorvolare come un aeroplano tutti i dubbi e gettarsi a capofitto nella nuova avventura che l’attende. Laura e Agnese sono anime depresse che devono ritrovare motivazioni per riprendersi la gioia di vivere (Laura) e serenità per l’ultimo tempo che le resta (Agnese). L’epilogo di questa bella e commovente storia è il comune passaggio illuminante rappresentato da un oggetto inanimato: una panchina di un parco. Una metafora di un luogo di raccoglimento, ma soprattutto di riscoperta di sè e della felicità di esserci, sempre e comunque, con la propria personalità, capace di cogliere nella vita che scorre intorno, le motivazioni per andare avanti, ciascuna con il proprio sogno nel cuore.
Un bel prodotto letterario, ambientato, e non è elemento certo trascurabile, nella nostra terra in quel di Trani, paese d’origine della scrittrice, bellamente descritto nei suoi luoghi simbolici e identitari. Lettura che consiglio vivamente.