27.9.21

Leggi una poesia

 

Leggi ogni giorno una poesia
ad alta voce per strada
sorridendo al postino
e alla ragazza del bar
perché la poesia
è come invitare a cena
un amico che si era perduto
offrendogli un dolce di crema
da spalmare sull’anima.

Le virgolette di una favola

 

Sai cosa mi piacerebbe?
Sfogliare un libro di pagine mai scritte
in quelle sere d’estate
quando le stelle capricciose
ci tengono coi nasi all’insù
e tutto sembra possibile
dal gelato con la panna ai miracoli.

Allora vorrei salire con te
su quella collina
dove si baciano i pianeti,
dove flirtano le cicale
e gli uccellini si addormentano
col pigiama di foglie.
Giungere lassù in alto
dove le fate e le sirene
affacciate al firmamento
ci osservino invidiose.

Scopriremmo quella casetta
pan di zucchero e fragole
col tetto di cioccolata.
E lì ci potremmo sedere
a gambe ripiegate
incantati da un’orchestra di grilli
battendo le mani al ritmo di gospel.
Allora ti racconterei
di come ho convinto
gli elefanti a volare
e le balene a fare surf.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto
di andare a comprare il pane
e di lasciare stare gli elefanti,
che le fate hanno altro da fare.

Invece io, testardo,
ti avrei portata in braccio
in riva al mare
dove i delfini ballano il cha cha cha
e ti avrei raccontato storie di pirati
di tesori e isole misteriose
nel punto dove si tuffa
la coda degli arcobaleni.
Ti avrei chiamato “mia Perla”
posando sul tuo capo una corona
di rucola e papaveri.
E sotto il cuscino
ti avrei donato
un intero continente
di frutta tropicale
e ti avrei chiesto di sposarmi
fra le canne di bambù
con le tasche piene di lucciole.

Eppure lo so
non mi avresti ascoltato:
mi avresti detto
di ammainare la bandiera,
di abbordare il benzinaio
che le lucciole le ho in testa.

Ma io, incosciente,
ti avrei portato
nella grande prateria
dei nativi americani
ti avrei donato le mie frecce
per infilzarmi ancora il cuore
e avremmo intonato
il dolce canto del bisonte.
Tu, mia Pocahontas,
avresti fatto ghirlande di comete
e io ti avrei raccolto pepite
dal fiume del mio amore,
miliardi di carati
ad abbellirti il seno.

Ma lo so
non mi avresti ascoltato
saresti galoppata via
a fumare una sigaretta,
e le pepite nella differenziata.

Io ancora perduto
nella mia celeste illusione
e tu che non sei mai uscita
sul terrazzo dei sogni,
ma sei ferma al piano terra
circondata da te stessa
e piena di normalità.

Forse non ricordi più chi sono
nè perché scrivo parole a vanvera
con i piedi sulla luna
e il tuo nome
tra le virgolette di una favola.

17.9.21

Gradini di cielo

 

Salgo in cima
a questo cielo plumbeo
le unghie affilate
arrugginite dai ricordi

scalini di nuvole
increspano raggi spuntati
scie di false speranze
disegnano verità

tra fasci di sole malato
cerco un bagliore
sdraiato sulla tua bocca.


Autunno

 

Qualcuno ha bussato alla mia porta
era l’autunno
educato e solenne
ha chiesto se ero pronto
ed io ho risposto
che poteva entrare.

Quando si è accomodato
l’ultima rondine ha fatto la valigia
e se n’è volata nella nebbia.

Questo spazio di cielo
è diventato vuoto
ma il cuore si è riempito
di dolce malinconia.

Recensione alla silloge "Vivere di mare" di Teresa Tropiano

 


La prima cosa che mi è venuta in mente pensando al mare (e ne scrivo anche nella recensione a Teresa) è la libertà. La libertà è connaturata al mare, la cui forma liquida è immune da costrizioni. Come diceva Lucio Dalla: “il mare non lo puoi recintare”. E attraverso di esso c’è chi cerca e, spesso, trova la libertà. Di pensiero, di azione, di vita. Penso a tanti scrittori che hanno trovato nel mare libertà di espressione. Hemingway, Salgàri, Melville, Stevenson, Conrad. Noi monopolitani, riandando alla nostra storia siamo figli di Egnazia, ricca metropoli sul mare, quasi una capitale della Magna Grecia di quei tempi. Quella città fu distrutta e i loro benestanti abitanti migrarono poco più a nord. E incontrarono i pescatori di un misero villaggio incastonato tra le grotte che si chiamava Portus Pedie. Immaginate questa povera gente coperta di umili vesti, che accoglieva con un abbraccio solidale ricchi e nobili egnatini che fuggivano dalla morte, ancora con le loro magnifiche toghe lacere e insanguinate. Fuggivano sul mare. Accanto al mare. E nacque Monopoli. Perché le origini ce le portiamo salde addosso con tutte le nostre cicatrici. Come non pensare all’offrirsi alle nostre sponde del quadro della Madonna che venne dal mare e unisce tutti i monopolitani con la sua venerazione? E facendo un salto nel tempo. 1971. Cinquant’anni fa accogliemmo i naufraghi dell’Heleanna. Dal mare. Le nostre barche, i nostri pescherecci accorsero e salvarono vite. Vent’anni dopo l’arrivo degli amici albanesi sulla Vlora nel porto di Bari. Gente di mare come noi, talmente vicini che ci potremmo salutare come si potrebbe fare da un condominio di fronte. Il mare è la culla della vita, noi stessi siamo fatti soprattutto di acqua. Tornando agli albori del nostro pianeta, ricordiamo che le terre emerse erano tutte unite e circondate da una immensa distesa d’acqua dove brulicavano le forme di vita elementari. Si chiamava Pangea. Immaginate questo enorme blocco, questo Continente Unico dove sarebbe stato possibile incontrarsi a piedi, stringersi la mano e visitare il mare a destra o a sinistra. Niente barconi, niente stragi, un unico girotondo intorno al mare. Perché lo sappiamo il mare è giudice imparziale e inesorabile. Spazza via gusci di legno e affonda il Titanic. E noi lo riempiamo di plastica e petrolio. E a volte riusciamo ad accecare questo universo azzurro, quest’alchimia di vento e sole, questo miracolo della natura. Non possiamo non amare questo dono che ci è stato fatto: noi, gente di mare, se potessimo scegliere il nostro ultimo sguardo, lo dedicheremmo a quelle onde meravigliose, a quelle carezze di spuma, a quegli orizzonti in punta di baci, dove abbiamo accompagnato i nostri affetti, dove abbiamo rincorso i nostri amori, dove abbiamo scritto le nostre invincibili parole di libertà.

Teresa Tropiano è una figlia della sua terra bagnata dal mare. E di questa sincrasia coglie le sfumature profonde. Il rincorrersi delle stagioni in cui il mare racconta storie avvincenti, plasma incontri, accarezza o rimprovera, proprio come una madre premurosa. Teresa veleggia con la sua barchetta intagliata nel nodoso legno del cuore, cogliendo fra schizzi di spuma e essenze salmastre i messaggi che la natura ci invia, con delicatezza e con acute introspezioni. Nel suo profondo l’animo umano assomiglia al mare con le sue bizze e le sue incantevoli e mutevoli espressioni. È un volume che canta alla libertà: come scrisse Baudelaire “Uomo libero, sempre amerai il mare! È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima nell’infinito muoversi della sua lama.”

10.9.21

Cuore migrante

 

Ogni notte
migro verso la tua anima
sul barcone del mio cuore
fuggo dalla guerra del silenzio
affronto i marosi dell’assenza
per giungere tra le tue braccia
mio unico porto sicuro.

Arminieggiando

 


C’è una panchina nella villa
dove mi siedo e guardo i ciottoli rotolare
solleticando scarpe che non conosco.

Un bambino gioca col vento,
un altro con le mani nell’acqua
saluta i pesciolini,
una donna guarda oltre la siepe,
dove si ferma l’azzurro.

C’è più vita nelle aiuole
che nelle strade affollate
dove s’imbottiglia il senso
di un’umanità desolata.

31.8.21

Nuvole




Mi piace pensare
di essere dissolvenza
empatica trasparenza
ombreggiante leggerezza
e abbandonarmi al vento.

Verrei a passeggiare
nel tuo cielo sconosciuto
a piangere come pioggia
volando con le rondini
schiumoso d’azzurro.

Verrei a salutare
le tue indifferenze
a inscenare altri miraggi
costruendo su palafitte
le tue inesistenze.

Verrei a depositare
corolle di sole
cerchi d’infinito
vibrazione di sensi
ampolle di magia.

aspettando di sfarinare
in balugini di cenere.

Assenzio


Sei come assenzio
tracanno la tua nudità
incendiandomi l’anima
oblio indicibile di sogni
fantasia di labbra
mi spalmo sul tuo godere
aggrappato all’infinito.

Incontri

 

Te ne sei andata come l’estate
lasciandoci la curva gentile
dei tuoi sorrisi delicati
la tua forza insospettabile
capace di sollevare l’alba
e di carezzare le onde del mare
anche se foriere di tempesta.

Ci hai salutato come l’estate
sgattaiolando come stella cadente
così - semplicemente -
intingendo la tua penna di sole
in un tramonto innamorato,
bussando alla porta del ricordo
che non si è sottratto alla malinconia.

Ti sei allontanata come l’estate
in un ghirigoro di pastelli
una breccia fra le nuvole
dove hai danzato con sussiego
sulla punta dei piedi dell’anima
regalandoci un venticello di rose
che porteremo serbato nel cuore.

25.8.21

Il mio libro


Presso la libreria Minopolis e in tutte le più importanti piattaforme on line.

Il poeta contadino


Ogni mattina quando l’alba
si riappropria della terra
afferro i miei pensieri
d’orzo e pane duro,

mi carico sulle spalle
sementi di ricordi
e calpesto il mio presente
di roccia e salsedine
brullo di sogni mai sfangati.

Sono un poeta contadino
ho una falce per l’ortica
desideri sparpagliati
d’arrotolare col forcone
fango sotto le suole
che frena il mio delirio.

Un poeta contadino
che ara il suo pezzo di rabbia
e dispensa concime di stelle
con gli occhi imbevuti di cielo
e i chiodi nello stomaco.

In lungo e in largo
mi perdo spesso
ubriaco di zolle velenose
ma in alto mi libro leggero
grato d’ali mai domate.

Un poeta contadino
che brucia le stoppie del dolore
rastrella residui di rimorso
e attende l’inverno
con tenacia imbizzarrita.

M’insegue il corvo renitente
ride di bava sanguinante
ma io spargo vita sminuzzata
con l’arco delle braccia tese
i miei versi dinoccolati
s’acquetano fra le crepe.

Sono un poeta contadino
ascolto la voce degli alberi
traduco il canto del pettirosso
sono fatto di corteccia umida
curo le mie piaghe
con resina d’amore.

Pensieri notturni

 


La sera sul comodino
accatasto i miei pensieri
libri dalla consunta copertina
orecchie su pagine ingiallite
a declinare le pause
e mi alzo nella notte chiara
dei desideri e dei miracoli.

Viaggio fra le guglie dell’ignoto
o del noto ricamato a oro
mentre ritorno alle canzoni urlate
sotto incolpevoli finestre
le pazze corse in moto
baci scagliati e adrenalina.

E tu che ti affacciavi al tramonto
per guardare le mie scenate
e ridere di una stagione assurda
dove chiudemmo il mondo fuori
e scalammo le cime della luna.

Cento nomi ti avevo dato
ognuno un pezzo del tuo corpo
ognuno uno spicchio della tua anima
li scrivevo sull’asfalto
perché tu leggessi da lontano.

E quelle mani che correvano
sui tornanti inesplorati
negli anfratti della mente
dove regna la frenesia del mistero
e si raccoglie l’ambrosia dalle bocche.

Chissà se sia mai stato sveglio
se sia mai caduto il cielo
a tenermi la mano
se abbia mai volato
sul tuo sorriso
se abbia mai acceso
il firmamento con i tuoi occhi.

Lasciatemi rintanato nell’alba
a fissare un soffitto di stelle
lasciatemi accoccolato di sospiri
nella placenta di una favola
lasciatemi fradicio di sogni
fino all’ultimo capitolo.

Il cielo capovolto (Fuga dall'Afghanistan)


Camminiamo sulle nostre miserie
esaltando parole storpie
incapaci di tornare umani.

Abbiamo svenduto i cuori
alle aste dei trafficanti di armi
lustrati di putrescente denaro.

Ci mascheriamo di falsa mestizia
perché la coscienza vuole un cencio
umido di sangue di poco conto.

Alle spalle una discarica
di ferite inferte alla Natura
con le lame del Progresso becero.

Va in onda la nostra agonia
di perfetti occidentali
senza macchia e senza senso.

Ci crogioliamo d’inganni
di tridimensionale crudeltà
e sfila il nostro ego imbalsamato.

Qui da questa parte del mondo
vediamo il cielo capovolto.

La ballerina stanca


La danza si è fermata
sul giaciglio della memoria
a due soffi dalla meta.

Sul ponte dove sospira l’anima
rabbocco la coperta dei sogni
lì dove ci sarai sempre
raggomitolata in un tramonto
ormeggiata al mio cuore
per sempre.

Ad una sconosciuta

Hai un mistero
nascosto sotto le palpebre
che si rivela solo
a chi oltrepassa
quella barriera di verde corallo
che incanta e seduce.

Il tuo viso
scolpito di luce
assorbe atomi di candore
e parla di ricami d’oltremare
ghirlande di sogni gemmati
che conducono nel regno delle Fate.

Infinito fascino dell’inarrivabile
sciàmi come sirena
sinuosamente all’apice
dei desideri mortali

- ma come sirena - 
hai tessuto divino
e il tuo cedersi all’amore
sarà privilegio
di un Principe Stellare.

12.8.21

Recensione al romanzo "Ora più che mai" di Rosi Brescia

 

Mi sono accostato alla lettura di questo romanzo con la circospezione generata dai pochi brani ascoltati alla presentazione. Questi frammenti mi avevano dato l’impressione (fallace) di una scrittura un po’ incolore, più descrittiva che pregnante, più introspettiva che ridondante. In effetti i primi sette capitoli hanno un tono lento e ritmato. L’autrice mantiene volutamente sullo sfondo la tragedia della pandemia, che imperversava su tutti i mezzi di comunicazione rivelandoci fino alla noia tutti i particolari scientifici, e anche orribilmente spettacolari di quello che accadeva. La vicenda è incombente, sfiora i protagonisti, ma la calma bucolica della terra di Puglia smorza un po’ tutto, riduce all’essenziale, fa emergere la quotidianità del lavoro, la semplicità dei valori, il verbo della solidità dei vincoli ancestrali. Esemplare la capacità dell’Autrice in questa parte del romanzo, di interagire tra luoghi e caratteri, tra abitudini secolari e nuove necessità, tra un passato incontaminato e un presente da costruire. Il Verismo e una malinconia di stampo pavesiano sono ingredienti certamente presenti in queste pagine.
Poi la svolta.
Dall’ottavo capitolo in poi irrompe l’emozione, sfondando le porte dello status quo, scompaginando le lente scansioni della primavera pugliese e portando alla luce i sentimenti di tristezza, di rabbia, di sconforto, ma anche di atavica forza di coesione, centralità della famiglia e infine di salvifica passione. Le vite dei personaggi si torcono, si avvitano, bucano le pagine e ci sequestrano per trasportarci in cima alle escursioni dell’anima. Ho paragonato questo passaggio come ad una pista di decollo dove i primi capitoli sono serviti al pilota per conoscere, saggiare ed ambientarsi alla strumentazione di un velivolo, il quale poi si innalza nel cielo del sentimento, senza più toccar terra fino alla fine.
E resta in volo l’aereo - divenuto aliante - di Rosi, incuneandosi nei nembi della passione, nei cumuli dell’amore paterno, fra i cirri della nostalgia del vissuto, in altri luoghi e in altri tempi. E alla fine rincorre ed afferra la curva colorata di un arcobaleno di speranza.
Ora più che mai.
“Crederci” è il segreto del volo.
Nel retrocopertina si parla di “favola moderna”.
Mi piace pensare che se una favola potesse trasformarsi in realtà, avrebbe più probabilità di accadere fra i trulli della nostra splendida terra dove l’amore ci può sorprendere dietro i tronchi silenziosi degli ulivi centenari o fra le onde argentine del mare più bello del mondo.

Recensione al racconto "Tre Donne" di Annagrazia Larato

Questo racconto di Annagrazia Larato è evidentemente strutturato al femminile e un lettore maschio - attento - ha la feconda possibilità di essere illuminato da un modo di pensare e provare sensazioni che probabilmente poco conosce e, ancor meno, elabora. Le tre donne di cui si parla sono uno spaccato generazionale insieme univoco per i comuni moti dell’animo - tanto che si potrebbe parlare dello stesso soggetto femminile in età diverse - ma anche variegato in quanto sottoposto a vicende diverse che hanno in comune l’approssimarsi di un cambiamento importante nelle loro vite. L’autrice ci guida in una introspezione speculare nelle tre protagoniste, descrivendo con delicata attenzione i flussi dei loro pensieri, le sofferenze e i desideri repressi, le speranze e i timori verso un futuro impalpabile e - altro fattor comune - da affrontare in solitudine. L’unica differenza tra le tre è quella che Chiara, la ragazzina, possiede l’esuberanza dell’età che le consente di sorvolare come un aeroplano tutti i dubbi e gettarsi a capofitto nella nuova avventura che l’attende. Laura e Agnese sono anime depresse che devono ritrovare motivazioni per riprendersi la gioia di vivere (Laura) e serenità per l’ultimo tempo che le resta (Agnese). L’epilogo di questa bella e commovente storia è il comune passaggio illuminante rappresentato da un oggetto inanimato: una panchina di un parco. Una metafora di un luogo di raccoglimento, ma soprattutto di riscoperta di sè e della felicità di esserci, sempre e comunque, con la propria personalità, capace di cogliere nella vita che scorre intorno, le motivazioni per andare avanti, ciascuna con il proprio sogno nel cuore.
Un bel prodotto letterario, ambientato, e non è elemento certo trascurabile, nella nostra terra in quel di Trani, paese d’origine della scrittrice, bellamente descritto nei suoi luoghi simbolici e identitari. Lettura che consiglio vivamente.

11.8.21

Uno sfogo

Noi.
Che ci dicono sempre “pensa a te” “sei tu la prima persona da amare” “pensa a fare le cose che ti fanno stare bene”.
Questi psicologi che pretendono di sapere tutto, di aver già classificato tutto il genere umano, di avere la formula buona per tutti i casi.
E questa schiera di persone che si nutrono di internet per tutte le patologie, compresa la depressione.
Che ne sanno che un cuore malato è più grande delle sue pareti fisiche.
Che ne sanno che i ventricoli pulsano nel firmamento
che nelle arterie scorrono e tracimano fiumi di fragilità che non trovano più argini.
Che ne sanno di noi.
Che d’improvviso dovremmo diventare egoisti, opportunisti, godere dei nostri miseri successi materiali, quando la nostra natura ci urla di smetterla, di restare gentili, di donarci, di toccare altri cuori o di tenerci stretti i nostri dolori perché un tempo ci hanno dato quello che ci bastava:
“solamente amore ed unità per noi.” - cit.
Che ne sanno di queste contraddizioni che si frangono nella nostra anima, questi dubbi che confliggono, questo coraggio alimentato di benzina impura.
Che ne sanno di noi? Che rincorriamo sempre le gazzelle con in groppa i nostri sogni, che siamo navigatori solitari dell’ultimo orizzonte romantico del mondo, che siamo astronauti dell’altra dimensione, Star Trek di ogni notte stellata.
Che ne sanno di noi?
Lasciateci ululare alla luna, tirare le pietre e farle rimbalzare sulle onde, lasciateci giocare a rimpiattino con la morte, che se ci troverà sarà con il sorriso sulle labbra.

L'esploratore


Ogni mattina
con la mia sahariana
il cappellaccio di paglia
il mio arco tirato di tenacia
con le frecce intinte nel sogno
esco alla ricerca di tesori.

Non l’Arca, non il Sacro Graal,
ma cuori che barcollano in ginocchio
celati dietro pareti di sconfitte
col sorriso chiuso nel ventre
col dolore in tasca
e le dita strette sul presente.

Sono esploratore di anime
vago nei percorsi sfiduciati
fra cascate di lacrime
e canyons dove rotolano
ciottoli di speranze vilipese.

Cammino sui desideri spenti
sui vulcani estinti
sugli oceani prosciugati
mi piace raccogliere pepite
dai giacimenti dei rimpianti
e portarle alla luce dei miracoli.

Sono esploratore di perdenti
cammino sui miei sbagli
scavo trincee di poesia
attendo una nuova primavera
di rose, gabbiani e labbra unite.

Immagini


La tua prorompenza
alba di verde laguna
trionfo di curve generose
sorgi come Venere tropicale
in uno spazio tra follia e desiderio.

Sei verace come nettare di mele
sapida e afrodisiaca
appoggi la tua vellutata presenza
nel mondo fantastico delle Ninfe
il tuo sorriso spalancato di sole.

Nella feroce arida canicola
separi il senno dal delirio
disegnando costellazioni
nel firmamento della voluttà.

28.7.21

Mano nella mano

 

Io e te
mano nella mano
era calma di luna
tacchi dolci di vento
mentre sulla piazza
ci invidiavano gli angeli

Mano nella mano
saltavamo su marciapiedi
di zucchero filato
bevendoci gli occhi
ridendo di gusto
di chi non conosce la follia

ci alzavamo dai crateri di Venere
su dischi volanti vestiti a festa
irridendo alle invidie
di chi non sa sognare.

Mano nella mano
era luce dipinta di cielo
sulle labbra oasi d’amore
ballavamo su cerchi perfetti
le nostre canzoni a memoria.

Ora cerco la tua mano
e afferro fantocci sgualciti
sfaldati disegni d’aurora
morte celata da sorrisi.

Anime perse

Quando incontrerò la tua anima
vagante nel villaggio dei “forse”
accarezzerò i tuoi capelli
guidandoti nella casa dei “perché”
chiuderò i tuoi bagagli di paure
nella stanza degli “osiamo”
ti prenderò in braccio
varcando la soglia dei “mi fido di te”
e bacerò il tuo risveglio di fata
librandoci nel cielo dei “per sempre”.

Dopo di te

Dopo di te
inanello poesie alle nuvole
cercando squarci di cielo
dove s’affacci il tuo viso
ed io possa raggiungerti
a cavallo di una falce di luna

15.7.21

In punta di piedi

 

In punta di piedi
stenderò un tappeto rosso
dove barcollano le tue paure
fino alla cantina dell’oblio.

In punta di piedi
spalancheró le finestre dell’anima
per soffiare fuori i tuoi rimpianti
e portarli oltre il tramonto.

In punta di piedi
coprirò con petali di rose
le tue verità nude
perché divengano il mio tesoro
che nessuno mai profanerà.

Un solo posto nel mondo


C’è un solo posto nel mondo
dove si parla coi gabbiani
dove la notte ha tre lune
scorrono fiumi di cioccolata
e i grilli s’innamorano al tramonto
è il luogo dove sboccia il tuo sorriso,
e la mia anima appoggia le sue labbra.

Ti cerco ancora
nelle piaghe dei versi feriti
che urlano fra zolle spaccate
quando il sole è una spada furente,
brace viva sulla mia vita.

Esse aspettano
di germinare da sementi rare
baciate da divine rugiade
il fiore rubato alla mia vista
dal giardino dell’Eden.

E ci ritroveremo ancora
sdraiati fra cuscini di stelle
dissetati dall’umore dei sogni
fra risate di nuvole
danza di vento
carezze sui nostri corpi
avvinghiati all’infinito.

Quel giorno

 

Quel giorno
hai girato il cucchiaino del caffè
hai diviso il cornetto
sparso briciole di pane
e hai morso il boccone.

Quel giorno
hai rivoltato il mio stupore
hai diviso la mia paura
sparso petali di sogni
e mi hai morso il cuore.

3.7.21

Life di Teodoro Fuso: la mia presentazione.

 


Stasera sono stato invitato dall’amico Dodò a parlare del suo romanzo. Ma Teodoro Fuso, nella veste di scrittore, ci presenta solo una delle sue metamorfosi. Egli si può definire un artista completo. Completo ma non compiuto. Perché sono convinto che altre sorprese ci attendono, plasmate dalla sua enorme capacità creativa. La potenza dell’Arte si può paragonare all’energia che risiede nell’atomo. Come la fissione dell’atomo produce la sua divisione, così lo spirito artistico deve cercare di esprimere la sua travolgente carica in diverse forme di espressione. Pertanto, dal nucleo primordiale che ha generato il musicista è poi nato il video maker, il pittore e poi lo scrittore. (se non ho dimenticato qualcosa).
Ed in tutte queste attività Dodò è riconoscibile: la sua identità e la sua impronta sono inconfondibili e ci trasportano sui suoi binari emotivi di riflessione e interpretazione del mondo. Anche il suo romanzo è intriso di sé, del suo modo inconfondibile di pensare e riferire i suoi sentimenti.
Hemingway diceva che “gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade.” E il nostro beneamato comandante Che Guevara potrebbe fare la sua chiosa aggiungendo che “la qualità più bella di un rivoluzionario è sentire nel più profondo di noi stessi ogni ingiustizia commessa, contro chiunque nel mondo.”
Dodò sembra aver incarnato questi due assunti quando ci racconta nel suo incipit (e non solo in questa ultima sua opera) l’ultimo periodo nel quale l’idea rivoluzionaria è sembrata tanto vicina da poter essere toccata e realizzata.
Life in sostanza è un racconto che cuce due epoche. Una breve prima parte che si dipana con tutti gli ingredienti di un romanzo storico calato in quella straordinaria parentesi, qual è stato il ‘68, con le sue vicende, le sue impennate, le sue contraddizioni, e con la sua meravigliosa volontà di far salire l’immaginazione al potere. Dodò ci ricostruisce le colonne sonore di quegli irripetibili anni in cui i ragazzi di Liverpool, partendo da seminterrati, percorsero la strada che li portò ad essere il fenomeno musicale del secolo ed il punto di riferimento di quella che venne chiamata la “beat generation”. Veniamo poi trasportati nella turbolenza delle strade avvolte da fumogeni dove schiere di ragazzi manifestavano contro le guerre, contro l’arroganza del Potere, per rovesciare tutte le gerarchie dominanti, dalla cultura all’istruzione, dalla filosofia al costume che ne erano asservite e complici. Qui vengono tracciate le personalità di alcuni protagonisti. Personalità ispirate ed allenate ad un sistema di valori e ideali che - scopriremo - resteranno pietre miliari della loro esistenza. In questi frangenti Dodò non manca di darci elementi sicuramente autobiografici come i prodromi della sua arte di musicista, il suo impegno politico, la sua militanza sul campo, la sua coerenza intellettuale. Egli si muove con padronanza su un terreno più volte esplorato, analizzato e metabolizzato.
Il lettore si aspetta pertanto che la narrazione evolva verso un canovaccio ancorato a quelle situazioni, con le enormi scosse emotive ed adrenaliniche che le accompagnarono e le definirono.
Invece no. Dopo i primi due capitoli si affronta un imprevisto salto attraverso un varco temporale. Ma ciò che avvenne tanti anni prima rimane sempre sullo sfondo, e di tanto in tanto i suoi venti di passione spirano qua e là tra i capitoli del romanzo. Veniamo catapultati in un’attualità non ben precisata, anche perché il contesto storico generale non è più globalizzante e dirimente sulle vicende dei personaggi, i quali sono diventati maturi nelle loro storie personali, nelle loro scelte lavorative e sentimentali. Però essi vengono affiancati ed attorniati dalla generazione successiva. E qui devo sottolineare che la penna dell’autore fornisce le sue più interessanti evoluzioni, in quanto le vicende individuali, variegate e curate nei particolari, riescono a trascinare il lettore senza un attimo di pausa. Precipitiamo nella curiosità di conoscere passo passo dove Dodò ci vuol condurre e, soprattutto, quale sia il filo che lega queste due epoche.
Ebbene il nesso è dentro i personaggi. Tutto il mondo fuori è cambiato. Ma non nel senso e nelle speranze che erano alla base di quel ‘68 che elaborò e cercò di realizzare una palingenesi della società. Il mondo è cambiato, ma non è riuscito ad anestetizzare le loro coscienze. Non è riuscito a penetrare come virus nelle loro anime, generando i disvalori propri del nostro tempo. Quelle fiammelle accese nel passato ardono sempre nel loro profondo e consentono di fare scelte meditate, ma pur sempre coerenti con il background costruito negli anni giovanili. E i ragazzi venuti dopo di loro sembrano leggere, comprendere ed ereditare il messaggio. Essi si muovono sul palcoscenico della vita con le loro contraddizioni, difficoltà, inesperienze. Non ci sono rivoluzioni globali da preparare, ma ci sono i drammi che caratterizzano la nostra attualità da affrontare con coraggio e determinazione. Si trovano a frequentare storie di emigrazione, la tratta delle donne, la schiavitù della prostituzione. Life stessa sperimenta sulla sua pelle quanto sia difficile far emergere il talento per una donna, senza subire ricatti sessuali. Essi sono soggetti alle stoccate ed ai rimbalzi inesplicabili ed imprevedibili dei sentimenti che non hanno percorsi vincolanti di sesso, differenze di età, pregiudizi. Ma sono illuminati da un sentiero di luce aperto da altri tanti anni prima, che non si è mai fatto oscurare dalle tenebre dell’egoismo e dell’indifferenza e sul quale vengono accompagnati e tenuti per mano.
E questo sentiero di luce ha un solo traguardo possibile: un epilogo che ci lascerà emozionati e saturi di gratitudine.
E ditemi, cosa dobbiamo chiedere di più ad un romanzo se – leggendolo - ci siamo arricchiti di bei ricordi, di forti idealità, di travolgenti passioni, di ottimismo? Alla fine, siamo sicuramente esseri migliori di prima, con il sorriso incastonato sui nostri volti.
Questo è Life: un urlo di speranza che salutiamo a braccia e cuore aperti.
E non a caso Dodò ha voluto che Life fosse il nome della protagonista. Perché i nomi di persona si scrivono con la lettera maiuscola. E noi dovremmo sempre tenere scritto nei nostri cuori Life - cioè Vita - con la lettera maiuscola. Perché la Vita non sia mai sprecata, disattesa, mortificata; perché essa sia cenacolo di giustizia, fonte di fratellanza, coraggio di ribellione, quando occorre; ma soprattutto perché venga condotta e percorsa in quel meraviglioso cerchio multicolore, in quel roteare sublime e irripetibile, miracolosamente e splendidamente governato dall’Amore.

Il faro - dedicata ai miei figli Remigio e Valerio

 

Un giorno ti sveglierai
e ti sentirai diverso
un piccolo fiore divenuto tronco
in una foresta di giganti.

Avrai una domanda
e cercherai la mano
che ti correva sulle spalle,
ma sarai solo sugli scogli della vita.

Allora sii faro
nelle notti senza luna
quando l’anima s’infrange
e gli squali accorrono feroci
annusando l’odore del sangue.

Sii faro
per tagliare le nebbie del futuro
quel futuro in mano agli arroganti
agli intolleranti e agli indifferenti,
ai signori della morte.

Sii faro
per guidare le barchette indifese
spalanca le tue braccia di luce
nel tuo mare di accoglienza
ascolta tutte le lingue del mondo,
ma parla sempre quella della bontà.

Sii faro
alza il cono oltre l’orizzonte
proietta i tuoi sogni all’infinito
perché essi sfidino le tempeste
perché non si viva nel torpore
ma si lotti contro l’ingiustizia.

Sii faro
più e meglio di quanto lo sia stato io
troppo corta la mia portata,
il mio raggio intermittente
è inciampato nelle secche
e ha provocato naufragi.

Sii faro
lascia in penombra
ricchezza, fama e potere
sono mezzi e non il fine
domina i marosi dell’invidia
illumina i corridoi di felicità.

Sii faro
a testa alta, a cuore aperto
sii esempio e riferimento
alzati sempre in volo
ma tieni d’occhio la terraferma,
non farti mai spegnere la fiamma,
traccia sempre la rotta dell’Amore.

Passeggiando per il paese che non c'è più: il Capitolo

 

Di buon grado, anche sollecitato da amici, metto in ordine qualche ricordo di adolescenza sul Capitolo. Negli anni 70 l’estate monopolitana era frequentata da monopolitani. Punto. Qualche barese e qualcuno dei paesi viciniori. E i proprietari delle ville sul mare che erano un mix di tutti questi. Per noi ragazzotti il Capitolo era un gioioso prolungamento della città, una ludica periferia
da visitare con desiderio di divertimento, ma con tranquillità nostra e dei nostri genitori.
Io a 14 anni avevo un problema. Tutti i miei amici avevano il motorino (oltretutto andavo un anno avanti a scuola quindi loro ne avevano 15). Io ero a piedi o quasi. Ciao, Si, Dollaro Vespa e poi Caballero, Corsarino scodinzolavano per le strade del paese e facilmente percorrevano i 6 km o poco più che distanziavano il Capitolo. E io? Bici solo bici sempre bici! Oppure motostop. Le prime due estati furono faticose e mi fecero odiare la bici che ripresi solo moltissimi anni dopo. Finalmente nel 1975 compii 16 anni e, minacciando il suicidio, convinsi mio zio Peppino a comprarmi il tanto desiderato mezzo di locomozione. Lunga trattativa con Amodio che aveva l’officina dove ora c’è la pizzeria dei Portici. Alla fine si accordarono per 320 mila lire. E io ebbi (dopo inaudito sperpero di lacrime) il mio sospirato Moto Morini Zeta Zeta di colore blu. E indovinate dove feci il mio viaggio inaugurale? Si proprio al Capitolo. Mi sentivo Giacomo Agostini. E pensavo dentro di me: “ora sì che si rimorchierà un po’..”
Illusioni da prime tempeste ormonali.
Comunque le mie estati cambiarono di segno. Il programma prevedeva la sveglia alle ore 9.00 e l’arrivo in loco con parcheggio in villa di amiche. Pallone e costume da bagno, non serviva altro. Spiaggia semideserta si poteva giocare anche sette contro sette: gli unici a protestare erano i granchi. Le ragazze venivano coinvolte loro malgrado in una confusione di braccia, gambe, scivolate e regole che cambiavano a seconda del soggetto preso di mira. Altro sport erano i gavettoni. Mai restare fermi al sole per più di un quarto d’ora. C’era una catena umana che partiva dal rubinetto più vicino della villa fino ad arrivare al malcapitato prescelto.
Altra occupazione in voga era andare a prendersi di nascosto i vestiti delle ragazze, indossarli e tuffarsi in mare. Uno spettacolo.
Pausa pranzo e poi si ritornava la sera. Per fare cosa? Discoteche quasi zero. C’era il mitico Duna, ma le ragazze avevano il coprifuoco. Allora il punto di ritrovo era il Bar Capitolo del buon Ubaldo. Flipper, bigliardini e tanto, tanto ma tanto jukebox. Che splendido apparecchio! Tutta la hit parade del momento era presente in quei 45 giri! Se si conosceva la canzone preferita della ragazza “posteggiata” era un continuo refrain. Mi ricordo in particolare “Ti amo” di Tozzi e “Luna” di Gianni Togni, i cui dischi forse non avevano più i cerchi, tanto erano consumati. In alternativa qualche volta si andava in un gruppo di ville dove si proiettavano film all’aperto. Brandonisio si chiamava, non ho mai capito se fosse il nome di uno dei proprietari. E poi passeggiate su e giù con le inevitabili “imboscate”. Allora tra Lido Azzurro e la caletta sotto l’Ancora era un viavai.
Una volta organizzammo una caccia al tesoro. Furono coinvolte anche le masserie della zona dove andammo a depositare i biglietti con gli indovinelli. I residenti giocavano con noi suggerendo e offrendoci da bere. Entusiasmante.
Questo era il nostro semplice modo di divertirci.

Anni ‘70 Capitolo. Bei tempi.

10.6.21

La mia notte


Dietro le quinte della notte
s’appropinquano schiere di mostri
vampiri sanguinolenti
lupi saccenti e iene gaudenti
giunti ad afferrarmi per i piedi l’anima
per trascinarla nello Stige.

Ma la mia notte è diversa
è ascesa, è respiro
è propulsione funambolica
tramonto di mille soli
genetliaco di vulcani.

La mia notte è scala di stelle
rapimento mistico
genesi di follia
è rotolarsi di corpi astrali
falene impazzite di luce.

La mia notte sciama d’amore
scrive poesie oltre l’orlo del tempo
invita a danzare la Luna
porge fiori al firmamento
annega di luce, afferra colori.

La mia notte è una cornice di smeraldo
dove s’incastrano miracoli
è un silenzio imbevuto d’infinito
che solleva il sipario sul tuo viso
raccontandomi la storia del nuovo giorno.

Pioverti addosso


Chiedo un passaggio
ad una nuvola
per pioverti addosso
insinuarmi goccia curiosa
fra i declivi dei tuoi seni
scivolare lentamente
fino alla porta del sole

e sciogliermi in te.

Solo un gradino


C'è un gradino.
Sei sotto, ce la fai.
Un passo e sei sulle tue paure.
Un passo e via.
Un volo di un secondo.
Un concerto di violini.
Un tuffo in un lago di rose.
Un gradino e ce la fai.
Anche scalzo ce la fai.
Anche ferito ce la fai.
Da solo ce la fai.
Un tappeto di ricordi
da lasciare all’indietro.
Un ombrello chiuso
da agganciare ad una cometa.
È solo un maledetto gradino.
Ce la fai.

Titanic


Abbracciami
sempre controvento
scompigliami i capelli di baci
canteremo
tra bianchi cincischi di spuma
l’orchestra batterà
i colpi misteriosi dell’amore
tu ed io
al timone della vita
leggendoci poesie senza senso
ridendo al culmine delle onde
niente potrà affondarci
perché siamo essenza di sogno
e spiccheremo il volo
ad ali unite.

Il cielo è sempre più blu


Voliamo con un’ala spezzata
zoppicando sul presente
con le stesse scarpe
con la toma firmata
e l’anima sdrucita
separiamo mondi e culture,
bestemmiamo fedi
...ma il cielo è sempre più blu.

Schiavizziamo popoli
con la religione del consumo
anneghiamo fratelli
ammazziamo bambini
brutalizziamo emozioni
che dichiariamo anormali
violentiamo donne
sotto il balcone di Giulietta
...ma il cielo è sempre più blu.

Ci ammaliamo di solitudine
di ricchezze inutili
di noie pandemiche
frequentiamo bordelli
di lurida politica
ci facciamo gregge
indifferenti e opportunisti
...ma il cielo è sempre più blu.

E ci precipiterà d’amore.

26.5.21

Bacio di farfalla


Da quando
un maglio cruento
ha frantumato alberi e mare
dipinti sulla tela della mia vita
trascino ciottoli di silenzio
che mi lapidano il cuore.

Mi avvicino cauto
ad anime roteanti
in punta di piedi
avendo paura di sfiorarle
come un bambino incantato
guarda le ombre sul muro.

Vorrei essere farfalla
sbattere le ali senza rumore
fermarmi sulla soglia
dei tuoi pensieri tremanti
bussare con versi leggeri
alla finestra del tuo rifugio
carezzando senza toccare
il tenero virgulto del tuo essere.

20.5.21

Cammina Maestro


Il sole è tramontato
dietro le Ande ed i Balcani
accarezzando i Pirenei
titillando l’Himalaya

tu sei in viaggio Maestro
metafisico nel corpo e nello Spirito
concettuale nel dialogo
con gli Sciamani e i Tibetani.

Cammina Maestro cammina
sulle dune del Sahara
tra Piramidi e Biblioteche,
governa il vento del Simun
saluta il Profeta con un cenno.

Cammina Maestro cammina
verso le culle della Civiltà
dove tutto è incominciato,
dove tutto finirà
e le lingue si riuniranno.

Cammina Maestro cammina
fin dove si battono i Samurai
dove s’incagliò l’Arca
l’Uomo si riprese il Mondo
e tutto divenne sterco.

Cammina Maestro cammina
vai a toccar la Luce
vai a scovare il Senso
di questa trottola di stelle
di questa pioggia di arcobaleni
che si chiama Amore e solo Amore.

In memoria di Franco Battiato

Il bacio del passante


Non indosso
il costume dorato
trapuntato di gemme.

Non viaggio
sul cavallo bianco
che ha le ali nascoste.

Non ho il mare
che colora i miei occhi
nè biondi ricci cascanti.

Non ho spade
magiche da sguainare
contro draghi e streghe.

Ma se vorrai
sveglierò il tuo sonno
con il bacio della poesia

ti racconterò
la storia della luna
che fa l’amore con Terra

da quando un Principe
vestito da passante
fu toccato dal miracolo
raccolse al volo una stella,
la depose sulla tua fronte
e si spostò in paradiso.

Quello che manca


Quello che manca
non è un sentimento
etereo, evanescente
un teorema di circostanza
una divisione di noia,
ma un rullo compressore
di baci e di passione,
una devastazione di carezze,
un’amalgama di sudore carnale,
un picco da raggiungere insieme
io e te
con un salto sulla Luna.

Felici senza saperlo


Quando un nodo
risale veloce
le scale del respiro,
quando l’iride
secerne lampi struggenti
e scatena nubi di lacrime

è l’ora di liberare
l’anima senza dettami
scioglierla in nebbia
lucenti particelle d’argento

che giungano infine
dove scoprimmo mari
che mai navigammo
dove toccammo il paradiso
e fummo felici senza saperlo.

E' maggio


È maggio
ed è dolce addormentarsi
in un carosello di Pleiadi
mentre astronavi di smeraldo
solcano cieli intinti di rose.

La pianura chiama il sole
con la sua voce di terra grassa
e il desiderio corre a piedi scalzi
incontro ad un’alba di passione.

Un mare di bianchi amuleti
accarezza le caviglie delle Dee
e la vita si allunga sugli scogli
ridente, giocosa, selvaggia.

Profumi di corpi inarcati
divelgono memorie incatenate
sull’erba rotolano dubbi
e sfrigola la fiamma del peccato.

È maggio
e i miei versi prendono il volo:
studieranno la mappa del cuore,
porteranno un fiore in bocca,
si poseranno sulle labbra del fato.

28.4.21

28 aprile


Mi trastullo di pindarici voli,
circonflesso di Vuoto cosmico
avvinghiato all’ultima rupe,
nudo alla grandine della resa.

Poi il decollo di un pensiero
sulle ali di giocose falene
incastonato tra cento righe,
estatica frantumazione di coralli,
a liberare due gabbiani impazziti.

Ma un infame rituale
mi costringe a picchiare
su tastiere inanimate
lettere sfiancate
che girano in tondo
ostaggio dei miei silenzi,
cilicio delle mie notti.

Riemergono nomignoli
accademia di una tenera crusca
dolcezze in forma di fiaba,
ingressi profumati in te,
adorazioni della tua essenza.

I miei versi erano
vestiboli di carezze
sui tuoi palpiti vitali,
parallasse di sguardi
sui tuoi pensieri profondi,

sul tuo corpo chiaro
disegnavo arcobaleni,
componevo sinfonie,
scolpivo vibrazioni

ed eri foce del mio fiume.

24.4.21

I poeti non si prendono


Non cercate di prendere i poeti,
perché vi scapperanno tra le dita.

Alda Merini.

...ma se qualcuno ci riesce, 
richiudete le mani con delicatezza
e custoditeli con tutto l’amore che potete.

 

Fermo


Sei lì fermo
inchiodato al Nulla
nudo alla grandine della resa
poi a volte basta un sorriso
incastonato tra cento righe inutili
che tocca in profondo
e lega due anime in un sogno.

Peter Pan


Mi stavo impegnando
a diventar grande
a pensare al futuro
ringuainare la spada
e mettermi seduto
a godermi il tramonto.

Ma non ce la faccio:
sono ancora il bambino
quello che fa i cuori sul diario
quello che imita Sandokan
e spara con le pistole di Buffalo Bill.

Sono sempre infatuato
di quella del primo banco
e di quella del piano di sotto,
quello rapito da Che Guevara
quello che El Pueblo Unido
non sarà mai vinto.

Sono quello del pane tutta crosta
della mozzarella e della pizza
della granita con la panna
di Topolino e Nembo Kid
dei trenini elettrici e dei Lego.

Sono quello che porta nel cuore
i compagni di scuola
che rifarebbe tutto di nuovo
anche gli scherzi ai prof
e i tanti sette in condotta.

Sono quello che s’innamora
delle anime tristi ed incomprese
perché mi ci riconosco
sono quello delle rose rosse
sorprese tra le pagine dei libri.

Sono quello degli altoparlanti sul balcone
quello che scrive sei bella sull’asfalto
quello che corre in piedi sulla moto
sotto le finestre del mio amore
quello che se non soffre non vale
quello delle bugie di un bambino.

E sono quello delle poesie
che mi portano lontano
in luoghi inaccessibili
dove qualcuno si è perso
proprio all’ultimo metro.

Mi stavo impegnando
a diventar grande
ma non ci riuscirò
le mie ali non si chiudono
vogliono giocare per sempre.

Il faro


La fantasia popolare negli anni della mia adolescenza annoverava una costruzione particolare: il faro. Soprattutto quando era posizionato su un’isola dalla quale dominava l’orizzonte, avvisando della sua presenza per miglia e miglia. Il mare, elemento misterioso con le sue calme e i suoi silenzi, con le sue ire e le sue deflagrazioni, circondava la piccola terraferma dove il faro assumeva le vesti di un vero e proprio totem, un misericordioso, simbolico rifugio incarnante le speranze, i desideri, i sogni dei suoi, talvolta, singoli abitanti.
Nel 1967 la RAI trasmise una piccola serie di 4 episodi, nello spazio destinato alla TV dei Ragazzi, che s’intitolava “I racconti del faro”. Protagonisti erano Fosco Giachetti, storico grande attore di teatro, nella parte di Libero (mai nome fu più calzante), responsabile del faro e Roberto Chevalier nella parte di Giulio, suo nipote che lo veniva a trovare sulla sua isola dal continente.
In quell’epoca io ero spesso a casa dei miei zii dove la sorella di papà, Wanda, era maestra e mi faceva doposcuola e il marito Peppino era la persona alla quale mi affezionai tantissimo. Era il narratore di storie avvincenti e pericolose, colui che amava la campagna e la natura e che mi scarrozzava in lungo e in largo per le contrade. Che mi insegnò a nuotare. E che mi presentò la Loggia di Pilato che imparai ad amare.
Ecco, lo zio Libero del faro era la proiezione del mio zio Peppino e le avventure di Giulio, tra tesori nascosti, pirati spietati, messaggi nella bottiglia, naufraghi sconosciuti che approdavano sull’isola, erano le mie avventure, quelle che vivevo nella mia fantasia, insieme a mio zio Peppino che ho amato tanto e che mi ha donato questa casa in questo luogo carismatico che ha qualcosa del faro, nel suo dominio della pianura, nel suo essere al centro degli elementi, nel suo alternarsi di silenzi e bufere, profumi e colori, il sogno dei pittori e dei poeti.

16.4.21

Il barattolo


Il bambino chiese alla bambina di dire nel barattolo:
“Ti amo”, senza fornirle altre spiegazioni.
E lei non gliene chiese,
gli rispose: “Ti amo”.
Il bambino coprì il suo barattolo con un coperchio
e collocò l’amore della bambina per lui su un ripiano nel proprio armadio.
Ovviamente, non poté mai aprire il barattolo,
perché altrimenti avrebbe perso il contenuto.
Gli bastava sapere che era lì.

Jonathan Safran Foer

 

Le mie canzoni


Esistono amiche devastanti
che ti rincorrono testarde
sono le canzoni urlate
davanti allo specchio dei ricordi
quelle che sai sillaba per sillaba
quelle che rigano il cuore.

Quelle che batti con il piede
e “la la la” quando c’è solo musica,
quelle che balli e balli
piroettando con le ombre,
quelle che il tempo è fermo lì,
ti aspetta al varco
scippandoti con destrezza
la maschera dello “sto bene”.

Le canzoni che martellano,
scudisciano, soffocano,
quelle che ti lasciano la sera
e tornano la mattina
bagnate di caffè e lacrime.

Le canzoni che trotterellano
insieme al tuo dolore
che invadono le pause
violentano i silenzi
percuotono i falsi sorrisi.

Le canzoni che ti porterai con te
appese all’ultimo tramonto
il tuo prezioso medley
da cantare alle stelle.

12.4.21

La conchiglia blu


Nel mio sogno
c’è una spiaggia assolata
dove mare, cielo e sabbia
in fondo al rigo dell’iride
si confondono di mistero.

E ciabattando tra farfugli
di onde giocanti
ho visto una conchiglia blu.

Le ho prestato il mio desiderio
parlandole come fosse la tua bocca
e il blu vibrava e gemeva.

Non so che poesia fosse
ma erano fuoco e spade,
voli ed uragani.

Attendevo una risposta
accostato a quella porta blu:
ma spirava solo silenzio e salsedine.

L’ho affidata alla corrente:
“Va e porta il mio bagaglio
di stelle marine ed ippocampi
granchi innamorati di sole,
va e porta l’eco del mio sorriso
fluttuante tra le curve ubriache
dei tuoi eterni ritorni”.

Quello che so dell'amore


Quello che so dell’amore
è che un diamante grezzo
nel mio cuore
riflette una luce insopportabile
che solo un caso
nell’imperscrutabile volteggiare delle stelle
può trovare uno sguardo capace di sostenerlo.

Soffiami via

A volte mi ritrovo
bendato
a camminare sull’orlo
del pensiero di te...

Soffiami via...