22.2.18

Antonio Brescia: l'uomo che ha scalato l'infinito a mani nude

Non conoscevo Antonio Brescia. E come me certamente molti altri. Ho perduto un’occasione eccezionale per un rendez-vous con una personalità complessa, poliedrica, un talento adamantino che aveva preso domicilio nell’esosfera e ci contemplava, talvolta con disprezzo per le nostre querule meschinità, talvolta con l’amore che si deve comunque ai propri simili, ancorché imperfetti. Me ne ha parlato il fratello Piero, pervaso da un sentimento commovente che si stenta a ritrovare in quel coacervo di egoismi che è divenuta la nostra contraddittoria esistenza. Il loro rapporto mi ha ricordato lo splendido film di Barry Levinson “Rain Man” nel quale il fratello minore interpretato da Tom Cruise dedica la sua vita al maggiore (Dustin Hofmann), scoprendo ad un certo punto che il suo stato autistico nascondeva una genialità insospettata. Piero, di professione fisioterapista, ma di DNA musicista, mi ha parlato con passione di un fratello da sempre “sui generis”, ma che la sofferenza ha spostato ai confini dell’irrazionale, oltre i limiti dell’umana percezione, verso la ricerca delle Questioni Universali. Mi ha offerto per la lettura due volumetti di poesie: “Stelle d’acqua” del 2005 e “Parabole giocanti” del 2008. A primo acchito pare di essere entrati per errore in un luogo dedicato a pochi eletti, dove vigono leggi della comunicazione estremamente ristrette, i cui tentativi di interpretazione restituiscono il dubbio di essere in veste di intrusi. Ma pian piano restiamo irretiti da un piano semantico che non è semplice ricerca sfiziosa di metalinguaggi, non è vago sfoggiare di contorsionismi estetici: si tratta di una serie di diapositive che il poeta scatta al suo pensiero dinamico, ultraveloce, che cerca spasmodicamente di rimediare su carta, lasciando sempre qualcosa oltre, ancorché la carta si rivela insufficiente a raccogliere. Piero mi racconta che anche la sua pittura ha questa caratteristica, infatti Antonio nasce come pittore e poi trascura questa inclinazione per dedicarsi alla poesia. Evidentemente lo strumento non regge il compito destinatogli, essendo la Realtà incapace di essere al servizio pedissequo ed integrale dell’Assoluto. Eppure Antonio, a ben vedere, in ogni componimento offre una chiave di lettura, anche in un solo verso.
Leit-motiv della sua prima raccolta è il sentimento fortemente critico verso i nostri pensieri miseri, le banali questioni di interesse, gli stupidi rovelli in cui si dibatte l’umanità. Pare di riecheggiare le “maledizioni” di Baudelaire e le stoccate esotico-mistiche e compulsive del sardonico Battiato. Egli è “Un anarchico garbato”:

Lontano da chi ruba ai corvi le carogne
e dai guardoni paghi della ragione che indietreggia…
un anarchico garbato arrischiò la propria pelle
_ come un panno esposto alla freddaNotte _
per raccogliere “la rugiada delle Stelle”

Mentre i prodromi di una inclinazione al tormento è sicuramente “Io faccio il pagliaccio” che richiama la classica figura del clown triste, incatenato ad una maschera che non sopporta:

Io faccio il pagliaccio, ma quando la farsa sarà finita
riprenderò il mio volto di Poeta.

Meravigliosa e indicativa dello sforzo inaudito di “recintare” in mera espressione verbale la vulcanica fantasmagoria delle sue sensazioni è la poesia “Parole”:

Eppure le parole si rivestono di splendore
_ prendono un “valoreinestimabile” _
ma solamente sotto l’inchiostro
che sa avvolgere l’UNIVERSO…
per inglobarLo nella propria legge di carta.

Nella seconda raccolta Antonio è entrato appieno nel vortice della solitudine e della ricerca infruttuosa delle risposte a domande che pochi si pongono, sprofondando nel rumoroso silenzio dell’ignoto. Piero mi racconta che egli si definiva “monaco free-lance”, cioè seguace di una religione che non esiste, come un nomade del pensiero, “emigrante di tutti i giorni”, intrattabile agli schemi, ribelle ad libitum. Le “parabole giocanti” sono traiettorie sfasate nel tempo e nello spazio, proiezioni cosmiche tendenti alla gioia, ma imprigionate da dolorose catene di solitudine e incomprensione
Il verso si fa iconoclasta, a tratti virulento, il passo pachidermico, iperbolico, incurante delle lacerazioni provocate dallo strusciare sulle pareti asfittiche delle convenzioni. Antonio veste il talare laico-blasfemo, irridendo e sprezzando chi lo percuote col cilicio dell’emarginazione. La splendida e tremenda “Resurrezioni” è un poema tragico e inverecondo, un urlo dalle tenebre che sale al cielo e lo infiamma di lava furente di orgoglio:

Io sono lo scemo del villaggio
Ma sono anche il suo custode

L’Inferno ha anche sembianze umane ben definite e viene dantescamente trafitto con la legge del contrappasso:

Tutto il male che mi hai fatto
Sarà il bene che io ti farò

Il sale dell’invettiva viene sparso in modo sistemico:

Nel VillaggioGlobale della Prevaricazione
-Il codardo è salito sul trono,
il figlio dell’arroganza posto in alto;
il povero, l’ingenuo…
come bestie da soma Inculate_sodomizzeranno?!

Ma un barlume di volontà riesce ancora ad insinuarsi:

…io mi congedo Stanco
annunciando il prossimo ritorno.

Le liriche alternano pessimismo (preponderante) a speranza (fioca) con un ondeggiare che lascia turbamenti profondi e probabilmente generano rimpianto in chi ha, incolpevolmente, secolarizzato embrioni autodistruttivi. In “miSfoglio” il poeta pare arrendersi a una insoddisfazione cosmica:

Anticipo l’ombra in cui dovrò errare…
con un mazzo di fiori per l’abisso
di rotaie che brillano ancora parallele
e mi ricordano che devo andare

Eppure la sua volontà ha una forza primordiale “Fear no more”:

…più non temere gli ostacoli
che hanno bloccato il tuo fluire
ostruendo le possibilità e i limiti!?
afferrati alle ali della PoesiaASSOLUTA!?

Lo stesso rapporto con la sua arte è messo in discussione poiché essa è matrigna di dubbi insolubili “fra la nostraDemenza e il mioEsilio”:

Barcolliamo su gambe di cera
E sotto i nostri piedi
C’è la strada che conduce alla poesia!?

Sul versante opposto si rivela, non del tutto obnubilata, la dimensione fortemente terrena in“Desideri”:

Chi può fermare i desideri nel loro cammino?!
può il travaglio diventare magico!?
Forzare non vorrei
ma tentare bisogna…Sogna…SOGNA.

Insomma, gli spunti che traboccano dalla lettura tracimano per ogni dove e, ad ogni ripasso, alla stessa stregua della levatrice del tormento dell’Autore, essi si moltiplicano ponendo inevasi quesiti, prima invisibili, in un rincorrersi senza tregua, ma che noi, semplici fruitori, accogliamo con sommo gaudio.

E’ molto difficile metabolizzare la scomparsa di un familiare con il quale, pur essendo in costante connubio, alla fine del viaggio terreno lascia comunque sempre il rimpianto di non aver detto o fatto qualcosa. Ancor più quando la sua assenza ci pare un furto senza spiegazioni. E allora occorre spargere i ricordi, spalmarli nel tempo a venire, cercando di risarcire la memoria offrendo questi doni prodigiosi, questi coriandoli di luce sopraffina al pubblico che, come me, si è perso un Grande. Nutro la speranza che queste mie brevi e, sicuramente insufficienti righe siano il primo, modesto, contributo perché si dia inizio a questo percorso.
Coraggio Piero, è tua la missione.

7.2.18

Passeggiando per il paese che non c'è più (5)

Dedico questa appendice a tutte le inevitabili omissioni intervenute nei precedenti post, anche affidandomi ai gentili suggerimenti di quanti mi hanno riportato alla memoria altri luoghi riaffiorati dalla nebbia del tempo. In Piazza Monsignore sotto il palazzo D'Auria c'era il negozio di calzature di Mirizio dove mia madre mi comprava le prime scarpe, anche quelle di vernice che si aprivano giocando a pallone. Nei pressi dell'Istituto S. Giuseppe c'era il Bar Odeon e la prima succursale della Posta dove andavo ad acquistare i francobolli di prima emissione per la mia collezione. Sull'altro lato della strada, ricordo vagamente il mulino Meo-Evoli, dove ora ci sono i palazzi Alba, l'ultimo mulino "cittadino" rimasto. Sotto l'Istituto "Montessori", occupato dalle prime due classi del Liceo Scientifico c'era il bar Kennedy (poi Florida, ora Blanco) che frequentavamo durante le ricreazioni.
Tanti i bar che mi sono tornati in mente: il Bar Sisina, una vera e propria istituzione alla fine di via S.Anna, dove di fronte ricordo la pizzeria Corallo. Il bar di Giuseppina in via Ten.Vitti, angolo via Marsala e il bar Levante in via Sforza dove ora c'è l'emporio cinese, tutti frequentati per via dei gloriosi flippers (emblematica la "mossa" per evitare di perdere la pallina senza far uscire il "tilt").
In piazza D'Annunzio si fronteggiavano in quotidiana concorrenza il bar Trieste e il Tipsy Bar.
Un discorso a parte merita la sede dell'Arca Gam nel vicolo di fronte al Cinema Vittoria, ora via Ligabue. Anche a Monopoli fiorì una scuola politico/cuturale alternativa il cui mentore fu Angelo Montanaro. Grazie a questa presenza, nel paese vennero introdotti temi che la plumbea egemonia democristiana aveva reso tabù.
Attendo altri preziosi contributi.


13.09.2019: Mi è tornata in mente la mia prima autoradio installata sulla 500 di mia madre che aveva un prezioso opzional: un sedile ribaltabile (uno!). Era la Tanga della Voxson, la più piccola in commercio.

23.1.18

Alberto e Marco



Per Alberto e Marco
2 e 4 anni uccisi a Trento
marzo 2017


Marco voleva fare il pittore
aveva una penna rossa
aveva uno sguardo altrove
una penna rossa
voleva disegnare il sole
quella palla che lo scaldava
quella penna che lo tentava

Alberto era un piccolo vigile
fischiava tutto il tempo
correva e fischiava
col suo caschetto bianco
col suo caschetto largo
inseguiva auto invisibili
rincorreva sogni percorribili.

Marco disegnava Alberto
Alberto fischiava Marco
insieme correvano la vita
insieme corrono il cielo.

Tenetevi per mano
tenetevi abbracciati
qualcuno spiegherà il perché
tenetevi stretti tenetevi saldi
qualcuno ci dirà perché.

Vi pensiamo sempre così
Marco che disegna nuvole
Alberto che fischia agli angeli
Qualcuno ci mostrerà il perché.

19.1.18

Passeggiando per il paese che non c'è più (4)

Quanti posti strani ed assurdi avevamo noi ragazzini per giocare a pallone. Dopo il borgo c’erano le Fontanelle, prima che ci piantassero il monumento. Il famoso Triangolo. Dove una squadra aveva gli esterni con 30 metri a disposizione per crossare e l’altra un imbuto di un paio di metri. Dove i pali erano i libri di scuola con la cinta a molla o i giubbotti sui “chianconi”. Dove le traverse erano “a occhio”. Dove le “scarpe nere e lucide di vernice per uscire” si aprivano a bocca di coccodrillo. Dove i palloni finivano: a) Sotto i cantieri delle barche; b) Nella Villa Comunale; c) Dietro il filo spinato che delimitava la banchina che allora non avevano ancora sistemato. Altro luogo deputato era lo spazio in fondo a Via Europa Libera prima che ci costruissero la scuola e dove venivano anche posizionate le giostre. Grande vantaggio per la squadra che aveva il vento a favore e palloni in mare a sazietà. C’erano dei campi con delle porte alla Cava Medico, liberi solo all’alba, e, in quel frangente, si poteva scegliere se tornare a casa e sporcare il pavimento di bianco (cava di pietra) o di rosso (cava d’argilla terrosa): comunque le mamme non scoppiavano certo di felicità. Lasciando il Municipio si entrava in un Paese Vecchio allora terra di nessuno. In Piazza Garibaldi la Biblioteca governata dal sig. Sante Moretti ci ospitava per le ricerche, ed era l’unico luogo dove (forse) riuscivamo a far silenzio. In Piazza Palmieri ebbe sede il CTG altro luogo di eccezionale condivisione. Scuola e associazionismo si fondevano a volte e diventavano una cosa sola. Nel senso che gli amici del CTG, pur frequentando scuole diverse, spesso erano, tutti nella stessa classe del Liceo avendo scavalcato la finestra a piano terra della Galilei. UNO valeva UNO, già allora. La condivisione valeva anche per le auto: ognuno di noi non appena conquistato un foglio rosa, rubava sistematicamente la macchina dei genitori mettendola a disposizione della Comunità: i genitori nutrivano qualche perplessità sul fatto che la macchina potesse consumare benzina da ferma e saltasse da sola da un parcheggio all’altro, durante il giorno. Riemergendo dal paese vecchio dalla strada della Cattedrale c’era la gioielleria Todaro, in largo Vescovado. Nell’ex convento di S.Martino avevano sede diverse associazioni tra cui il Movimento Studentesco e l’Arci. L’attuale parroco della Cattedrale don Peppino Cito era uno dei méntori. Su piazza Monsignore il famoso Lampo che aveva il doppio significato di velocità e di sistemazione di cerniere e affini e che dava i “pesciolini” di liquirizia come resto.





Su Via Milazzo un altro punto sensibile: il meccanico delle moto Tonino Amodio (grasso, olio motore). Per un quattordicenne conquistare il motorino dai genitori a quei tempi era molto complicato. Infatti io ci riuscii a 16 anni quando spezzai il cuore di zio Peppino con lamenti e lacrime da perseguitato politico. Allora c’erano due scuole di pensiero contrapposte: i 2 tempi contro i 4 tempi. Da intendersi come oscillazioni del cilindro. Nella fattispecie i Fantic Motor Caballero contro tutti gli altri, anche il Corsarino Zeta Zeta della Moto Morini che fu la mia scelta. Ok non c’era storia. I Caballero erano delle schegge, Ma c’era un difetto: ti bruciavi facilmente alla marmitta, specie come passeggero. E se dovevi portare la ragazza….era più comodo lo Zeta Zeta, capisci a me…Quante ne ha vissute quel primo motore! Volevo imitare le moto da cross e facevo lo sterrato: incredibile. Avrò rifatto le valvole una ventina di volte. La forcella voleva staccarsi da sola e andare allo scasso per disperazione. Una volta siamo andati in 4 ed io ero seduto sul tachimetro, come da Codice della Strada. L’Istituto delle suore di San Giuseppe non fu solo la mia scuola elementare, ma era anche la sede dell’Istituto Magistrale parificato. Non so se Battiato passasse di qua, ma le “serenate nell’ora di ginnastica o di religione” si svolgevano regolarmente, nonostante le suore vestite da cerberi, vigilassero sulle virtù insidiate delle studentesse. Ho già detto che la scuola media che ho frequentato fu la G.Galilei. Una menzione particolare per l’insegnante che molto più di tanti altri ha destato in me l’interesse per la scrittura e la composizione creativa: il prof. Rosario Biscardi. Ricordo quella sua voce che partiva da un sussurro e raggiungeva picchi baritonali quando si infervorava. L’originalità del suo metodo ne fecero un pioniere per quei tempi in cui la scuola ancora si stiracchiava dalle pieghe di un immobilismo post bellico. Il mio cammino si ferma a Lido Bianco (trionfo degli aromi dei frutti del nostro mare) dove per tanti anni hanno insegnato arte culinaria prima Gino e poi Nardino.
Ecco, riprendendo fiato, mi fermo con la mente appagata per aver rivissuto emozioni che hanno un volto, cavalcano un sorriso, stringono la gola col rimpianto. I luoghi, le persone e le vicende che ho ricordato non sono che una piccola parte di una memoria che dovrebbe divenire condivisa e arricchita da tutte quelle esperienze individuali che, sommate, fanno la piccola e la grande Storia di una città. Una città senza questo patrimonio rimane una città, ma non può aspirare a divenire civiltà

Passeggiando per il paese che non c'è più (3)

Ritorniamo in Piazza Plebiscito passando davanti a Filemo il tabaccaio. Di fronte c’era la Olivetti di Italo Genchi, dove lavorava mamma e la sede del PCI, mentre l’MSI era in via Barnaba e la DC in via Polignani. Quanti cortei avremmo fatto passando e cantando slogan davanti alle sedi dei partiti dove dentro giocavano tranquillamente a carte, mentre noi facevamo i rivoluzionari. Ma ci piaceva esserci, bei tempi. Su via Vasco un altro storico ritrovo: il Bar Di Bello di Peppino, ex Marina Militare, e altro amicone di babbo. Più in fondo la sede del circolo dell’AC Monopoli, dove ho trascorso centinaia di serate giocando a ping pong e a flipper, facendo incavolare il Sergente (il custode, sig. Dino Maccuro graduato dell’Areonautica). Sotto la Villa Comunale c’era il rimpiantissimo cinema Arena (patatine Pai, stecche di liquirizia e Coca Cola nelle bottiglie di vetro). La caratteristica principale di questo ritrovo era la quantità di posti riservati ai portoghesi che si assiepavano sulla muraglia, specie quando venivano proiettati i film vietati. La direzione del locale aveva predisposto dei lenzuoli che nascondevano parte dello schermo (e delle intimità delle attrici), ma con scarsi risultati: l’immaginazione, in quell’epoca, era al potere. Sotto quella muraglia il Bar Piccolo offriva il servizio SIP di telefono pubblico; il locale era sempre affollato, specie nelle ore di tariffa ridotta. Se volevi parlare con la fidanzata/o senza patemi, era ideale. A questo proposito ricordo ancora a memoria quando i numeri di telefono in città partirono da due cifre e poi diventarono di sei: 742468 era il numero di casa, 742569 l’ufficio di mamma, 742693 lo studio di babbo e 742540 casa di zio ecc. Ma la mia prima fidanzata, dopo qualche anno, era già 801030. Scendendo da Piazza Plebiscito arriviamo al Caffè Napoli gestito da un signore di altri tempi che chiamavano con il nobile prefisso Don (Pietro Genualdo). Anche questo era un locale frequentato da babbo per ovvie ragioni. Io ricordo ancora le colazioni di cappuccino con le trecce che erano strette e lunghe, ma si impregnavano in modo spettacolare.

Ora il Municipio, sul quale mi soffermerò qualche rigo. Mi avevano detto che babbo era Sindaco ed era come se mi avessero detto che era il Padrone del Castello, dove il Castello, appunto, era il Municipio. Era diventato un luogo dalle mille avventure per me. Girovagavo in tutte le stanze e gli uffici, salivo e scendevo le scale, mi nascondevo dietro i banchi e le tende, immaginando chissà quali tenzoni e suscitando l’ilarità dei dipendenti. Mi autonominai Primo Usciere dell’ufficio di babbo e stazionavo fuori annunciando le visite. Mi mancava la marsina, la parrucca e il battaglio e potevo stare alla Corte del Re Sole. Lula, la segretaria di babbo, mi allungava le caramelle. E quegli odori penetranti di carta da archivio non li dimenticherò mai. Terreno di conquista divenne anche la stanza del telefono che si trovava a piano terra, a destra dell’ingresso principale. Il caro Mimì Colavitti con tanta pazienza mi insegnò ad usare il centralino e io schiacciavo quelle lucette e rispondevo “Il Comune, momento!” (Momento, perché mettevo in attesa le chiamate per smistare quelle precedenti). Il grande cuore di Mimì, uno dei pochi veri grandi amici di babbo. Poi c’erano i Vigili Urbani e qui devo per forza ricordare gli inseguimenti che si svolgevano al borgo quando giocavamo a pallone. Celestino e Furlani (detto coccolungo, con rispetto parlando): delle vere e proprie istituzioni, con le loro biciclette nere. Quando qualche Super Tele o Super Santos o Yashin (ahia quello costava un botto…) riuscivano a sequestrarcelo, io rassicuravo i miei amici: “Nessun problema”. Avevo scoperto dove tenevano i palloni sequestrati, in un armadietto a muro appena si entrava nell’Ufficio all’interno del cortile del Municipio. Fischiettando con nonchalance, fingendo curiosità per le moto rosse parcheggiate, attendevo il momento propizio e…zac! mi riprendevo il pallone, magari scambiando un Super Tele con uno Yashin!!! Momenti epici. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (2)

Proseguendo verso il centro, l’incrocio per la Cementeria era una zona trafficata da mezzi pesanti in piena attività. La strada non asfaltata per il molo Tramontana non aveva ostacoli di sorta tranne le famose “Caldaie”, luogo ameno che, dopo il crepuscolo, diveniva sede per dei test sugli ammortizzatori delle auto. Sul molo, allora accessibile, avevamo organizzato le nostre mini-Olimpiadi di atletica. La banchina si prestava in modo eccezionale perché c’erano le misure tracciate sui blocchi frangiflutti: 100m, 200m ecc. L’asfalto non era regolarissimo e, ogni tanto ci stava qualche caduta con annesse screpolature: l’importante era evitare di finire in mare. Gareggiare accompagnati dal penetrante odore di alghe e aria salmastra era impagabile. Percorrendo via Sforza verso il borgo ci si poteva imbattere nella musica proveniente dallo scantinato dove ebbe sede Radio Dyria. Che periodo stupendo quello delle proliferazioni delle radio c.d. libere. C’erano schieramenti ideologici (di destra Dyria, di sinistra Radio Antenna Monopoli, cattolica Radio S.Francesco); c’era tanta creatività e genuina volontà di “essere nella città”. Verso la fine degli anni 70 ricordo la trasmissione che realizzavamo su RAM con Antonio Pirrelli, Marco Napoletano e Fausto Avezzano Comes: si chiamava “Musica e Satira” con sigla iniziale “In Fila Per Tre di Edoardo Bennato. Ricalcava “Alto gradimento” di Arbore e Boncompagni, con riferimenti alle vicende locali. Un appetitoso aroma ci ricorda la presenza de “La Rete” la storica pizzeria a tre isolati dal borgo. Poi un altro luogo “cult” per chi amava la musica: il negozio di elettrodomestici e di dischi Bellantuono, dove ora si trova “Orchidee”. Era una frequentazione fissa dove si scoprivano ed ascoltavano tutte le ultime novità di ogni genere musicale, nel mitico vinile. Ricordo che a casa avevo un Lesaphone Perla (fonovaligia) giradischi con gli altoparlanti che si staccavano. Babbo lo aveva preso per ascoltare la Divina Commedia recitata da Gassman, ma che io ho immediatamente riconvertito alla Discomusic. Quante decine e decine di feste in casa ha allietato quel Lesa! Quanti lenti ballati stretti stretti con pausa per andare a cambiare il disco. C’erano poi le prime discoteche: il New Harlem di Francesco Colamarino (Foto Franco) in via Valente con i pionieri dei DJ Carlo Pelle e Maurizio Rossi. E poi il Seven Up dietro la chiesa del Sacro Cuore. E Le Fragole in via Mazzini.

Ed ecco la nostra amata piazza, il borgo, sempre al centro di eventi straordinari, all’epoca il punto di ritrovo per antonomasia: “Ci vediamo al borgo”. E non ci si perdeva mai. Un’agorà da percorrere rigorosamente dall’alto verso il basso, con divisioni per fasce d’età nelle varie carreggiate, virtualmente tracciate dalla consuetudine. Il borgo con la sua aiuola centrale, con la ringhiera a semicirconferenza che consentiva di sedercisi sopra, salvo poi rimanere anchilosati al momento di rialzarsi. Il borgo con i suoi bar intorno a cicaleggiare, con i suoi negozi, il salotto buono e la “posteggia” alle ragazze che puntualmente svanivano, tante Cenerentola, dopo le ore 20. La Casa Del Caffè di Salvatore poi il fioraio Di Palma, i primi odori che ci accoglievano. Poi, il Cinema Vadalà che la Storia ricorda per aver generato la più pregnante manifestazione di critica artistica che si possa immaginare: “Avuchè i sold n’dret!!!!”, dove il primo vocabolo era il titolo professionale del proprietario l’avvocato Vadalà e il resto una regolare richiesta di recesso per insoddisfatta esegesi dello spettacolo al quale si era assistito. L’ultimo locale dell’isolato era un'attrattiva speciale per tutti i bambini: il negozio di spezie, ma soprattutto di caramelle di Guida. Appena entravi eri investito da un dolce bombardamento di zucchero che tracimava da grandi vasi di vetro, dove allegramente roteavano pallottoline dei colori più svariati: irresistibili. Dietro l’angolo il tabaccaio Priatorie (bubble-gum) famoso per le macchine della Politoys con le quali integravo i paesaggi costruiti con i Lego ed anche il plastico dei trenini della Lima. Sul successivo isolato ricordo la lavanderia Genualdo (profumo di amido), la gioielleria Salerno, e il Circolo dei Cacciatori (odore di cartucce) dove si fermava mio zio Peppino, campione extraterrestre di tressette. Continuando il giro si incontrava il fotografo Selicato e man mano che si scendeva cominciava ad aleggiare il fragrante richiamo del pane fresco dei F.lli Meo (Miod). Il negozio storico di materiale elettrico dei Pisani chiudeva il lato sud della piazza. Circa alla metà del successivo isolato un altro odore particolare: la carta stampata della libreria Alò. Un altro luogo di culto per me insieme alle altre librerie: quella di Maria Girolami di fronte a San Vincenzo, la Bregante in via Polignani e la Tre G dietro il Bar Smeraldo. Entravo e mi perdevo, a seconda dell’età, visionando opere di generi diversi: prima i libri di Salgari, poi l’astronomia e la fantascienza, gli UFO e gli altri misteri, infine la politica, i saggi e i pamphlet. Rimanevo ore a esaminare i vari titoli dimenticando anche di mangiare, a volte. Alla fine dell’isolato, ad angolo con Piazza Plebiscito, (effluvi di lozioni e dopobarba) c’era Luca Di Bello il mio primo barbiere. (Forse se la giocava con Gino Medico del Diurno in via Garibaldi, che frequentava babbo). L’isolato successivo era quello del Settimo Cielo, con il ristorante all’attico, e lì forse gli aromi li percepivano anche gli aerei. Prima che fosse costruito il grattacielo c’era la casa dove sono nato, al secondo piano. Dopo il tabacchino Giovè, si trovava il primo negozio Eleganza del sig. Quindici, profumeria che stuzzicava le narici coi profumi più sciccosi. Proseguendo il giro, il glorioso Caffè Rudy (Rodolfo Todisco amico di babbo) accoglieva la borghesia cittadina, la quale, dopo aver consumato il caffè, passava davanti alle biciclette di Intano (mastice e gomma) e comprava la Gazzetta dall’edicola di Laura Sardella (odore di fresca stampa tipografica). Grande Laura! Quanti Topolini mi hai regalato, strappandomi la copertina: i giornalini di Walt Disney, un’altra mia passione. Dove ora c’è il negozio Vittorio Emanuele c’erano le Autolinee Alò Alfredo e i pullman parcheggiavano dietro l’angolo con il loro caratteristico odore di pneumatico consumato. (continua)

Passeggiando per il paese che non c'è più (1)

Quando non siamo sovraccarichi di pensieri e incombenze quotidiane, rilassati, percorriamo a piedi le strade cittadine, può succedere che qualcosa ci richiami alla memoria immagini e vicende del passato. E’ singolare che, dei cinque sensi in nostra dotazione, l’olfatto sia quello capace di penetrare più nel profondo del nostro archivio in disuso, di sollevare polvere, altrimenti permanente, a celare volti, emozioni, turbamenti. Quella che mi accingo a raccontare è una “road story” percorsa in un paese che non c’è più, ma i cui ruderi emergono con forza trascinati alla superficie da odori e aromi che scuotono gli altri sensi, rincorrendoli e coinvolgendoli. I sensi di un bambino hanno grandi ali che trasportano in luoghi immaginari, ma tutto quello che immagazziniamo da piccoli non lo perdiamo se ci abbiamo sognato sopra. I luoghi citati non sono sincronizzati nel tempo, ma si dispiegano con armonia nel decennio di cui si tratta.
La Monopoli a cavallo degli anni 60/70 era una placida cittadina con velleità da “grandeur”, ma che in fondo si beava della sua immobilità socio-culturale. Io, poco più che bambino, terminavo la scuola elementare all’Istituto San Giuseppe e iniziavo la Scuola Media Galilei. Mi recavo spesso a casa dei miei zii in via Bixio 248, visto che mamma lavorava e mia zia, maestra, mi faceva doposcuola. Da qui con lei uscivamo nelle belle giornate e facevamo tappa al Bar Veneto dell’ineffabile Romano. Venivamo avvolti subito da effluvi di pasticceria e chicchi tostati. La mia scelta preferita era però rivolta verso la granita di caffè e panna: una delizia che non mi stancava mai. La consumavo seduto su una panchina nella Villa S.Antonio. Lascio nei ricordi la mano di zia Wanda e esco dalla villa verso via Rimembranze. Dove ora c’è il Conservatorio, c’era l’elettrauto Carparelli. Continuando ad esplorare i dintorni mi sovviene il Bar Commercio, dove ora c’è Pantera Rosa, che emanava cornetteria fino al balcone del quinto piano dove ho abitato fino al ’68, in Corso Umberto 41. In via Magenta c’era il Ristorante Pasqualino. In via Bixio ad angolo con corso Umberto sorgeva il primo supermercato Gamma, che divenne poi Standa. Poi il cinema Radar e l’Hotel Savoia. Del cinema impossibile dimenticare la maschera Spinelli a cui facevamo tanti scherzi da prete (tipo dividerci in più posti sparsi nella sala e provocare rumori vari, così lui correva da una parte all’altra con un frenetico agitare di torcia) e il soffitto che si scoperchiava (manco l’Allianz Arena) e che faceva penetrare aria fresca che scacciava fumo pervicacemente intrappolato. Verso la stazione scavallava quell’odore inconfondibile del catrame dei binari. C’era una biglietteria con esseri umani, allora. E un capostazione con la paletta. E degli operai in salopette e guanti. Ero affascinato dai treni e dal funzionamento degli scambi. Alla domanda cosa farai da grande rispondevo sicuro: “Il Manovale!!”. Reputavo di grande responsabilità saper attaccare e staccare i vagoni e governare la direzione da far prendere ai convogli. Una metafora della vita nella quale ci tocca dover decidere quale direzione prendere, cosa portarci dietro e cosa lasciare su binari morti. Oltrepassando Parco Bovio e imboccando via Del Drago (allora immaginavo che si chiamasse così per qualche mostro preistorico che avesse imperversato lì vicino) mi incuriosiva vedere dei vecchi binari che scendevano verso mare lungo una via che si chiamava allora, coerentemente, Strada Ferrata. Scoprii successivamente la storia del trenino ciuf ciuf che arrivava fino in Cementeria a cavallo fra le guerre, mirabilmente descritto da Giacomo Campanelli. Proseguendo lungo via del Drago si confluiva nuovamente in via Rimembranze che terminava in un terreno che ospitava un carrozziere, dove ora c’è la palazzina dell’Ufficio Postale. Scendendo da via Trieste ricordo solo campi e terreni incolti. L'attuale via Marina del Mondo era una strada non asfaltata ampia quanto la strettoia esistente dopo la Stazione di Servizio. Da qui, come oggi, si raggiungeva Lido Pantano, allora l’unico stabilimento balneare a pagamento in paese. Qui mentre il juke-box caricava i 45 giri “Una rotonda sul mare” e L’isola di Wight”, io imparavo a nuotare. Svoltando a destra si percorreva via Fiume e accanto al campo Veneziani non c’era ancora il Palazzetto dello Sport. Il mio sport da bambino era il minibasket. Il prof. Del Giglio ci allenava dove capitava che ci ospitassero. Ricordo allenamenti all’addiaccio alla palestra della scuola S.Antonio, oppure alla Galilei, se ci andava bene. Presi a cuore la questione del Palazzetto. Carta e penna, scrissi all’on. Moro che babbo mi aveva fatto conoscere. La somma che mancava alla sua realizzazione arrivò e Il Palazzetto venne eretto. Un mattoncino piccolo piccolo posso dire di averlo messo anch’io. (continua)




11.12.17

Monopoli Città Universitaria. Perchè no?


Qualche breve considerazione (con qualche elemento di visionarietà) sulla vicenda Solemare-ex Cementeria. Alcuni progetti rimangono sulla carta perché sembrano sconfinare nel sogno; altri possono essere realizzati con la collaborazione di tutte le parti in causa. 
Compito di un buon amministratore, nei tempi attuali, è, tra l’altro, saper coniugare interessi pubblici e privati con sapiente armonia e, (merce sempre stata rara) lungimiranza. Non serve a nessuno percorrere itinerari di preconcetto, ma piuttosto tendere la mano a soluzioni che vadano comunque nella direzione del benessere e, soprattutto del futuro, della città. 
L’area della ex Cementeria è divenuta fulcro di polemica politica, ambientale, persino estetica. 
Per quanto mi riguarda considero inaccettabile la visione di chiunque intraveda dietro qualsiasi pezzo di terreno sgombro, un’occasione di occuparlo per far facili soldi e poi sparire verso paradisi fiscali. Parimenti considero inaccettabile boicottare "tout court" una qualsivoglia iniziativa privata che intenda valorizzare in modo equilibrato e compatibile un’area destinata a svolgere un ruolo chiave nello sviluppo della città. 
Ora che le bocce sono ferme e la società intestataria del progetto ha deciso di apportare modifiche sulla spinta del parere negativo da parte della Sovrintendenza, è probabilmente il momento giusto per mettere sul piatto altre proposte. 
Investire nell’istruzione e nella cultura. Immaginiamo la realizzazione di un Campus universitario supportato da finanziamenti europei per l’istruzione (Art. 5 punto 10 del FESR). Annessi servizi ricettivi. (Le piccole Università sono, secondo il MIUR, quelle che accolgono fino a 5.000 iscritti). Museo del mare e/o storico della Cementeria. Un acquario, testimonianza della fauna ittica nostrana. Spazi ludici e multimediali. Due facoltà per partire: Scienze turistiche e di salvaguardia del territorio e Scienze delle attività marinare e portuali. 
Concessione pluriennale di gestione ai privati. 
Fantascienza? Forse, se si ragiona secondo i canoni consueti. Prospettive concrete se vengono rispettati e valorizzati i progetti che vanno nella medesima direzione di una crescita culturale ed economica della città. 

21.7.14

Valerio, il meccanico dei cuori.




Tutte le macchine che ho avuto, dopo il primo tagliando obbligatorio, non hanno conosciuto altre mani se non quelle di Valerio. Quasi camminavano da sole per recarsi da lui al momento del bisogno. Ricordo quando lo conobbi, esule, tornato profeta in patria, con l’amico architetto. Tirò su la sua saracinesca e subito capii che la sua non era una semplice officina. Quando oltrepassavi la soglia, da una radio a transistor effluiva una melodia insolita, che sorprendeva i nostri padiglioni auricolari poco o male educati: era jazz. O musica classica/sinfonica. Alle pareti, non calendari con donnine seminude, ma locandine di eventi musicali o culturali. Perché i promoteurs avevano capito che quella non era una semplice officina, ma un luogo di happening dove si parlava di argomenti “alti” come la politica, la musica e il calcio, ma non quello del processo del lunedi, quello della tattica e delle belle giocate. Si ci si vedeva “da Valerio”, come un bar o una libreria, solo con la scusa della macchina che non va. E quando finalmente si entrava nel merito dello scopo meno importante per il quale si era lì, la domanda era sempre la stessa: “che rumore fa?”. Si, il rumore era la voce del mezzo, un linguaggio a noi sconosciuto, comprensibile solo a pochi eletti, tra i quali c’era Valerio. Lui voleva sempre sapere la nostra impressione sul rumore; poi quando aveva capito che avevamo scambiato il rigurgito del bambino per un problema alla cinghia di trasmissione, allora proseguiva il suo dialogo da solo con la macchina, lasciandoci avvolti nella nebbia. E tornavamo sempre da lui, ammaliati da quella accoglienza, da quei modi sorridenti, da quella solida rettitudine, mai scalfita dalle difficoltà quotidiane. Intellettualmente e di fatto, integro fino all’osso, onesto e coerente. Era riuscito (fatto davvero raro) a cambiare squadra del cuore, non per piaggeria, come fanno molti, ma perché il Presidente gli stava proprio sullo stomaco. Il suo concetto di giustizia aveva a che fare con la sua arte. Gli ingranaggi della vita dovevano collimare ed essere oliati e registrati alla perfezione. L’arroganza e la violenza del potere, e del denaro dovevano essere banditi come acqua nel serbatoio del carburante, come polvere nel filtro dell’aria. Valerio era uno dei quattro amici al bar di Paoli, l’ultimo, quello che rimane fino alla fine, convinto che si possa cambiare tutto e lo vuole spiegare ai ragazzi che seguono. Il destino ha voluto donarmi un figlio col suo nome: scherzando gli dissi un giorno che se avesse voluto fare il suo mestiere, avrebbe fatto apprendistato da lui e un domani non avrebbe neanche dovuto cambiare l’insegna. Valerio era il meccanico dei nostri cuori, motori che si arricchivano di ossigeno sentendolo parlare, guardandolo lavorare con in sottofondo Al Di Meola o Wagner. Valerio continuerà la sua opera da un’altra officina, aiutandoci ad aggìustare questo mondo che non ci piace, che deve andare assolutamente in revisione.

17.10.13

Romani come Diocleziano (*)




“Dìvide et ìmpera” è una locuzione latina che definisce una strategia ben definita che punta alla frammentazione delle forze che (anche solo potenzialmente) potrebbero opporsi al potere costituito, con il risultato che questo potere, numericamente debole, trova ossigeno e stabilità dalla mancata coalizzazione degli avversari, generalmente distratti o blanditi da studiate concessioni. La storia romana è attraversata da questa prassi, ma forse uno degli esempi più eclatanti è rappresentato da Diocleziano, il quale regnò per due anni da solo e poi nel 286 nominò suo “vice” Massimiano Augusto, per arrivare poi a quella genialità chiamata “tetrarchia” nel 293, investendo altri due “cesari” Galeno e Costanzo delle responsabilità di governo. “E se prima eravamo in due a ballare l’alligalli…”.Sarà stato questo il ritornello con il quale il nostro Imperatore Romani, sulle orme di Diocleziano, si è messo a tavolino e ha deciso di cooptare (e dividere) quelle opposizioni finte o querule, che in vari modi minacciavano di sollevare le Provincie dell’Impero. E’ impressionante lo scollamento tra il debordante consenso di cui gode l’Imperatore tra la gente e l’assedio affamato del branco di squali-tigre che lo circonda: se ci fosse anche qualche magistrato comunista che lo perseguita mi ricorderebbe qualcuno. Ed è proprio questa ansiosa necessità di puntellare il suo governo che induce a qualche riflessione. Questa distribuzione di prebende pone il dubbio che, nel corso del Primo Impero, si sia aperta qualche corsia preferenziale in settori ed ambiti delicati e/o strategici, quali PUG, concessioni, gestione dei contributi ecc. che non sia stata digerita e tale costipazione ora torni come arma di pressione impugnata dagli scontenti. Nella frenesia di volersi ancorare al trono nella maniera più salda possibile, all’alligalli sono stati invitati a ballare anche schegge dell’opposizione, alcune “gravide” (splendido, il nostro dialetto, quando classifica alcune “formae mentis”), altre forse solo ingenuamente desiderose di rendersi utile (nella migliore delle ipotesi). Per il resto, dalla minoranza, solo voci isolate (Papio, Comes) si levano indocili. Gli altri ex candidati Sindaco, impavidi e battaglieri in campagna elettorale, che fine hanno fatto? Uno esule in Montenegro, mentre all’altro hanno aperto un ufficio sotto casa. Sul territorio, comitati di cittadini si organizzano a tutela di interessi circoscritti e definiti (commercianti, residenti Ina-Casa). Un altro significativo pezzo di Istituzioni sta prendendo congedo dalla città senza che il Sindaco abbia deciso di dormire in Tribunale come fece al S. Giacomo: qui non c’è Vendola da attaccare e si può “surfare” morbidamente sull’onda lunga delle larghe intese. Insomma, ci sono le premesse perché l’Imperatore possa festeggiare i “vicennalia” come Diocleziano? Può darsi, ma la sensazione è che ci sia più di un terreno minato sul quale le legioni potrebbero marciare con esiti devastanti.
La questione dei rifiuti, in primis. Il fatto che sia stato collocato un principe del foro a monitorare la situazione lascia intendere che non ci si aspettano sviluppi tranquilli su quel fronte. E’ tollerabile inoltre che i cittadini continuino ad essere (tar)tassati per un servizio inefficiente e inquinante? Ci sono presupposti per una class-action?
La questione della Cementeria. Ci saranno ancora scritture e riscritture, cancellazioni e refusi sul progetto in itinere? E la demolizione, alla quale è stata data una promo-accellerata poco prima delle elezioni, si svolgerà senza intoppi o rischi ambientali? 
La vendita/svendita di immobili comunali. Mentre una parte di personale scolastico ancora vaga come rom nella città e altre parti sono trattate come cartone pressato, si continuerà a far cassa su tutto senza che nessuno sollevi dubbi su opportunità e liceità di queste operazioni?
Domande che gravitano nell’aria di questo incombente autunno in cui la nostra città, chiassosa e gaudente d’estate, si prepara al consueto, soporifero e apatico inverno.


(*) Pubblicato sul numero di ottobre 2013 di "Report.m"

4.10.13

Morte per acqua. (T.S. Eliot)






Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l'ossa in sussuri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

28.9.13

Remigio e Gemma: un amore sotto le bombe.


Sul numero di ottobre di Report.M viene ricordato l'incontro dei miei genitori. Come tante vicende accadute nel periodo bellico essa è avvolta da un alone misto di romanticismo e dramma. Io l'ho voluta ricostruire così, come me lo dettava il cuore e scarni frammenti di racconto, sfarinati nella memoria.

Quella mattina Antonietta, come al solito, era in piena attività. Erano solo le sei e fortunatamente la notte a Torino era trascorsa tranquilla. Dopo il coprifuoco nessuna sirena aveva lacerato il silenzio e così aveva potuto riposare. Aveva preparato il cestino per Paolo, suo marito ferroviere, che di lì a poco sarebbe venuto a bere il suo caffè nero e bollente. In quel plumbeo mattino di gennaio del 1945, Antonietta si fermò un attimo e pensò a quelle tre pesti che aveva messo al mondo e che anche oggi avrebbero preteso uscire per la loro missione. Pericolosa, aggiunse dentro di sé. Gemma, Rita e Giovanna, le loro figlie, erano fisicamente simili, ma con caratteri completamente diversi. Giovanna era bonacciona e ingenua, si faceva trascinare e non aveva ancora una personalità ben definita. Rita era saggia ed accondiscendente, paziente fino allo sfinimento, una vera donna di casa, sapeva già far tutto. Gemma, oh! Gemma! Era un castigo di Dio! Certe volte Antonietta si chiedeva se fosse davvero sua figlia o se non l’avessero scambiata nella culla. Poi interveniva Paolo e metteva le cose in chiaro: “E’ tua figlia. Non avere dubbi a riguardo, ci hai messo tutto del tuo….” Quelle tre le stavano dando delle apprensioni. Gemma aveva convinto le due sorelle che sarebbe stata un’opera meritevole sfamare ed assistere i soldati italiani di stanza nella caserma “Riva” che si trovava a circa due chilometri dalla loro casa. Durante l’inverno ne erano arrivati a frotte, superstiti dai vari fronti dove si combatteva e che avevano scelto, molti loro malgrado, di rimanere, dopo l’8 settembre del ‘43, nell’orbita dei Tedeschi sotto il regime di Salò. Pativano la fame e il freddo quei soldati, già reduci da stenti e privazioni. E così le tre sorelle trasformatesi in crocerossine, si caricavano di pane, frutta, biscotti, vestiario di lana e altri beni di prima necessità e si recavano alla caserma, sfidando ed eludendo i posti di blocco dei nazisti. E Antonietta era sempre in ansia. Non avrebbe voluto acconsentire, ma Paolo le disse: “Le tue figlie hanno un cuore grande e tu avresti fatto la stessa cosa al loro posto”. Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da Paolo che le venne incontro, la baciò sulla fronte e le disse: “Buongiorno, dormito bene? Stanotte tutto tranquillo grazie a Dio…E le bambine? Ancora a letto?” – “Tutto bene….ehm…(sempre bambine le chiamava!)…Non sarà il caso che si fermino un pò?” – “Sta tranquilla. Sento che questa sporca guerra è agli sgoccioli e….non so, mi aspetto belle novità, sono ottimista e fiducioso!”. Le sue parole la rincuoravano sempre, la sua voce profonda era un calmante naturale. Antonietta sospirò e gli porse la tazza del caffè. Dopo che Paolo l’ebbe lasciata, andò in punta di piedi nella stanza delle ragazze e trovò Gemma già sveglia che si stava vestendo. “A te non ti fermano neanche le bombe, eh?” Per tutta risposta lei le chiese: “Hai preparato i cartoni?” – “Si, sono sul tavolo.” – si rassegnò Antonietta. Gemma chiamò sottovoce le sorelle si avviò in cucina e cominciò a infilare nei cartoni il pane e altre vettovaglie. Venne raggiunta da Rita e Giovanna, dopo grandi sbadigli, e tutte e tre indossarono degli ampi cappotti, ciascuna prese un cartone legato con lo spago e uscirono nel freddo e grigio inverno torinese, inseguite dalle insistenti raccomandazioni di Antonietta, sempre più flebili man mano che si allontanavano dal giardinetto di casa.
La strada per arrivare alla caserma era battuta dalle ronde a tutte le ore e quindi loro cercavano di percorrere vicoli alternativi. Ogni tanto si bloccavano perché arrivava loro l’eco della marcia tedesca: “Eins, zwei, drei, mach' mich frei, vier, fünf, sechs, was kann die Hex!” e il selciato trasmetteva i colpi degli scarponi. Poco prima di arrivare sulla piazzetta prospiciente la caserma, incapparono in due soldati della Wehrmacht che gironzolavano non inquadrati. “Halt! – Wohin gehen sie?” – “Abbiamo del pane e biscotti. Ne volete un po’?” Avevano imparato a comprare il silenzio dei tedeschi. Allungarono loro un filone e due sacchetti di biscotti e loro si fecero da parte. Con le gambe un po’ tremanti arrivarono vicino al cancello della caserma. La sentinella le conosceva e aprì. Dettero un pacco di biscotti alla sentinella e percorsero una ventina di metri fino al portone. Le stavano aspettando. Decine e decine di mani si alzarono spuntando dalle maniche troppo larghe dei cappotti. Misero i cartoni per terra e distribuirono il contenuto. “Grazie, che Dio vi benedica!”. Stavano per fare dietro front e allontanarsi quando Gemma fu attirata da un giovane ufficiale che non badava a prendere la sua parte, ma si era fermato e le stava sorridendo. “Hai la grazia di un cerbiatto e il coraggio di un leone!”, le disse. Il suo era un accento strano, Gemma non lo aveva mai sentito, ma le parole furono come un cuneo nell’anima. Rimase attonita e un rossore diffuso colorò le sue guance. “Come ti chiami? – chiese il giovane. “Gemma” – “ E io Remigio. Sono arrivato la settimana scorsa. Tu vieni sempre qui?” – “Si, ogni settimana, il martedi”. “Bene, io ci sarò. E la prossima volta vorrei poter parlare con te”. Si rividero. Si parlarono. Gemma interrogò il suo cuore e la risposta fu che palpitava per quel giovane ufficiale dai modi gentili, dallo strano accento, ma dalla favella sciolta e forbita. Il quarto martedì lui le disse. “Fuggiamo insieme. Ti porterò con me a casa mia e ti sposerò.” – “Ma dov’è casa tua?”- “Lontano, in un paese caldo e accogliente, dove ci sono il mare e le colline e il sole li tiene uniti come due teneri amanti…Si chiama Monopoli”. Per Gemma poteva chiamarsi anche il Paese Di Gianburrasca. Era innamorata di quel giovane che parlava strano e le scriveva poesie. E lo avrebbe detto al papà. E poi il papà lo avrebbe detto alla mamma. E poi il papà avrebbe convinto la mamma. Successe proprio come aveva pensato e mamma Antonietta piangeva di notte per non farsi vedere. Remigio dichiarò domicilio in Via Ticino 13, casa di Gemma, sul Lungodora. Venne aprile e i primi di maggio: il giorno stabilito. Fuori, Torino appena liberata, ma ancora insicura. Gemma abbracciò tutti e promise che sarebbe tornata appena possibile. Mamma Antonietta si nascondeva dentro un fazzoletto. Papà Paolo la baciò sulle guance e le disse: “Se ti trattano male, torna da me. Sùbito.” – “Non temere papà. Mi fido di lui”.
Da quel momento in poi un turbine di emozioni.. Remigio indossa abiti civili, da operaio delle ferrovie, in tasca dei lasciapassare delle brigate partigiane. Anche una tessera dello PSIUP. Troppo rischioso prendere il treno da Portanuova. In cammino verso sud, con solo in una borsa pane, biscotti e tanto coraggio; in aperta campagna saltano muretti, guadano stagni, scavalcano collinette. Finalmente arrivano al paesino di Villanova e si fermano alla stazioncina. Dopo un paio d’ore arriva un merci. Salgono su un carro bestiame: stipati all’interno una dozzina di persone, babele di lingue e razze, fuggiaschi come loro. Gemma cerca di ignorare il tanfo che aleggia. Il treno si muove. Asti. Alessandria. Genova. La porta del vagone si spalanca: “Ci sono fascisti qui?” - Tutti con il pugno alzato. – “No compagni! Torniamo dalle montagne!” Il viaggio prosegue. La Spezia. Ancora ronde, controlli, Bella Ciao e Internazionale. Viareggio. Firenze. La tensione si scioglie. Giù verso Roma. Si socializza. Ci si scambiano nomi, indirizzi, promesse. A Roma ci si separa. Tranquilli, ormai è solo chewingum e coca cola. Altro merci ancora più scalcagnato. Napoli. Si sente il tepore del sole. Bari e tutti parlano come Remigio. Un camion militare per Monopoli. Sono passati 4 giorni e 4 notti, ma dove mi hai portato Remigio? In Africa? Ecco, ci siamo. Un mucchio di casette bianche. Un calore di terra e umanità. Un abbraccio d’azzurro. Il mare. Odori e sapori di pace. Benvenuta Gemma. Bentornato Remigio. Grazie infinite. La vostra storia, la mia storia.


Protagonisti:
Paolo Binando (mio nonno)
Antonia Cavallo in Binando (mia nonna)
Margherita e Giovanna Binando (le mie zie)
Gemma Binando (mia madre)
Remigio Ferretti (mio padre)
Varia Umanità

17.9.13

PD: Politici in cerca D'autore (*)


Quando mi si è sollecitata una qualche riflessione sull’attualità politica locale ed in particolare, su ciò che sta accadendo nella galassia PD & affini, ho avuto serie difficoltà nel trovare materia dirimente sulla quale innestare spunti più o meno degni di approfondimento. Un non-Segretario che si dimette senza essere stato eletto, per protesta contro la condotta di un non-iscritto, pupillo di un capogruppo divenuto tale in quanto ex non-candidato, ma autocandidatosi Sindaco. Roba da manuale di psicanalisi. Le sportellate, tanto più assordanti quanto regredenti sul piano della materia grigia, alle quali stiamo assistendo, fanno parte ormai di una drammaturgia che si avvicina al pirandelliano “teatro nel teatro”. Nella famosa Trilogia “Sei personaggi in cerca ‘autore”,” Stasera si recita a soggetto” e “Ciascuno a suo modo”, viene esplorata la dimensione del meta-teatro, quella dimensione cioè nella quale attori, ruoli interpretati, vicende umane e sceneggiature si confondono e si sovrappongono, ponendo questioni filosofiche sulla natura e il limite (e se vi ha da essere addirittura un limite) della recitazione, in quanto ognuno di noi, anche nella vita reale, interpreta una “parte” drammatica. Il canovaccio al quale stiamo assistendo appare così similmente confinato sul terreno della meta-politica, un terreno sul quale ognuno sta recitando un ruolo che ritiene più o meno consimile ai propri interessi, bassi o alti che siano. Sullo sfondo tante rese dei conti da compiere. C’è il burocrate intransigente che passava per caso di lì, c’è l’uomo del fare e (dis)fare che alza il sopracciglio verso tutto ciò che giudica radical-chic, c’è il narciso opportunista, c’è il palafreniere pentito e tutti coloro che si sono pentiti di essersi pentiti. C’è tutto tranne che un partito. Ma ormai il PD ha iniziato a cessare di essere un partito da quando correnti di profughi democristiani ne hanno scalato le gerarchie, occupato le dirigenze, obnubilato la progettualità, svenduto le coerenze. Taluno si è inventato il renzismo, malattia infantile dell’ecumenismo, parafrasando Lenin. Tali correnti, quando esisteva lo scudo crociato, avevano una ragion d’essere in un partito votato all’occupazione del potere, che aveva scannerizzato la sua struttura interna sulla base di quella dello Stato o dell’Ente locale amministrato. Ma quando quella struttura ha da essere riformata, quando occorre mettere in campo energie positive, quando conta il cuore più che il cervello, le correnti manifestano malessere, scorréggiano, sgomitano e calpestano, generando un tumore linfatico che non lascia scampo. Quando si è all’opposizione occorre un progetto alternativo. Punto. Se si è fatta un’analisi corretta e puntuale della mala-gestione del Primo Impero Romani è dovere di un'opposizione degna di questo nome dotarsi di uno strumento programmatico che abbia una scala di priorità sulle quali confrontarsi con la Giunta insediata. Se per mera casualità accade di potersi allineare alla maggioranza su particolari problematiche che possano risolversi a beneficio della cittadinanza, nulla quaestio. Per far questo non c’è bisogno di azzannare al volo deleghe pelose come fossero mangime per porcilaie. Altrimenti rigore, controllo serrato e circolazione virtuosa di idee nuove. Solo questo chiede un elettore medio, non la rivoluzione d’Ottobre. Non credo che sia complicato, per un partito che voglia ricostruire una certa credibilità, trovare unità d’intenti su questo. Tutto il resto sono scorie radioattive democristiane di cui non abbiamo nostalgia.

(*): Pubblicato sul numero di settembre 2013 di Report.m

4.9.13

La tastiera spuntata




Nelle giornate scorse ho letto una stuzzicante querelle su una locale testata on line (Monopolipress) sollevata da un attento lettore il quale rilevava l’ingiustificata omissione, nell’ambito della notizia di cronaca, di un provvedimento emesso ai danni di un caseificio cittadino, della sua identità. La redazione della testata ha addotto ragioni inerenti il codice di deontologia professionale dei giornalisti. Tale posizione, già di primo acchito, mi è sembrata pretestuosa, ma ho voluto approfondire spinto dal fatto che sono già persuaso da tempo che il proliferare d’informazione locale, anche sul web, non corre di pari passo con la sua qualità e indipendenza. In più di un’occasione si nota palesemente come si preferisca dare spazio maggiore alle notizie basate sul gossip e la cronaca nero-rosa, alle diatribe tra i politici cui piace fare le prime-donne senza alcun costrutto, piuttosto che alle voci autenticamente critiche e agli interventi di peso culturale innegabile e si sta molto attenti a quali piedi si possono pestare. Ho consultato il citato Codice Deontologico dell’Ordine dei Giornalisti che all’articolo 12 recita:

Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali.


1. Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'art. 24 della legge n. 675/96.


2. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'art. 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'art. 5.

Quindi “ex scripto” si evince già di per sé che il codice tende a superare dei limiti più che ad imporli. Sono comunque andato a verificare i riferimenti legislativi. In realtà l’articolo 24 della legge 675/96 non fa che riportare quanto stabilito nel Codice Deontologico il che rende addirittura superfluo il punto 2 dell’articolo 12 su riportato:

Dati relativi ai provvedimenti di cui all'articolo 686 del codice di procedura penale.


1. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del codice di procedura penale, è ammesso soltanto se autorizzato da espressa disposizione di legge o provvedimento del Garante che specifichino le rilevanti finalità di interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati trattati e le precise operazioni autorizzate.

Restano da esaminare i commi dell’articolo 686 c.p.p. che descrivono le annotazioni nel Casellario Giudiziale che sono:

a) nella materia penale, regolata dal codice penale o da leggi speciali:


1) le sentenze di condanna e i decreti penali appena divenuti irrevocabili, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali è ammessa la definizione in via amministrativa o l'oblazione ai sensi dell'articolo 162 del codice penale, sempre che per le stesse non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena;


2) i provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali dell'esecuzione non più soggetti a impugnazione che riguardano la pena, le misure di sicurezza, gli effetti penali della condanna, l'applicazione dell'amnistia e la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere [666];


3) i provvedimenti che riguardano l'applicazione di pene accessorie;


4) le sentenze non più soggette a impugnazione che hanno prosciolto l'imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità o disposto una misura di sicurezza o dichiarato estinto il reato per applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato.

Quindi il punto 2 che racchiude nella sua tipologia i provvedimenti come i sequestri di stabilimenti o merce a titolo preventivo nello svolgimento di indagini, fanno parte di quelle vicende che possono essere liberamente oggetto di completa diffusione informativa proprio perché non si applicano i limiti previsti dalle norme appena citate. In sostanza la mancata o incompleta citazione dei fatti nel caso in questione non è giustificabile né da comportamenti esemplari dal punto di vista professionale, né dal timore di violazione di leggi. Appare invece la sua natura di volatile foglia di fico. Ben vengano le prese di posizione del lettore che argutamente ha sollevato la questione.

29.8.13

TARES & Co.



Tra tutte le imposte che oggi gravano sulla testa dei cittadini, forse quella percepita come più iniqua e vessatoria è non tanto la famigerata e sbandierata IMU, ma quella che dovrebbe coprire i costi dello smaltimento dei rifiuti, ex TARSU ora TARES. Tale repellenza si manifesta ancor più nella cittadinanza monopolitana, costretta ormai da anni ad assistere impotente a indecorosi e vergognosi spettacoli d’inaffidabilità, inefficienza, malcostume e incompetenza sia da parte della municipalità affidataria che delle ditte appaltate. La novella TARES, come la ex TARSU, fa parte delle c.d. “imposte di scopo” che si affianca alla ISCOP (destinata alla realizzazione di opere pubbliche), il cui gettito dovrebbe coprire il servizio di raccolta e differenziazione dei rifiuti, nonché la fornitura dei “servizi indivisibili” forniti dall’ente locale, come l’illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade, la polizia locale, le aree verdi. Non è difficile immaginare i pensieri dei nostri concittadini che stanno ricevendo in questi giorni gli avvisi di pagamento relativi all’imposta in questione, per ora allineata alla TARSU, ma con una promessa di un lauto conguaglio a marzo 2014: si va dal sorriso ironico, alla smorfia dolente, passando dall’invito a fare un viaggio in un paese lontano ai responsabili di questo scempio, al desiderio di strappare e gettare tutto….ma dove?? In che giorno? A che ora? E’ un cabaret e ci sarebbe da ridere se le nostre tasche non fossero ormai stremate dalla crisi. Mentre i rifiuti ci salutano allegramente nei nostri puzzolenti itinerari da città turistica, offrendo sollazzo e proliferazione a fauna variegata e persino esotica, altri comuni, anche a noi vicini, senza pavoneggiarsi con Bandiere Blu low cost o effimere vocazioni, si fregiano, a ragione, di essere fra i più virtuosi d’Italia nella raccolta differenziata. Parliamo di Rutigliano, ad esempio. 18.700 abitanti, percentuale della RD 78,72%, 364° nella classifica assoluta nazionale, ma secondo nell’Area Sud Italia per i comuni al di sopra dei 10.000 abitanti. (Fonte Legambiente www.ricicloni.it). Il servizio è affidato alla locale ditta Vito Gassi di Carmine Esposito & C. Sas che è partita da un 56% del novembre 2011. La raccolta è “porta a porta” e, prima di iniziare il servizio, la cittadinanza è stata compiutamente informata da dei “facilitatori ambientali”, giovani a cui è stato affidato il compito di istruire a domicilio le famiglie e gli operatori commerciali. Insomma siamo in presenza di qualcosa che funziona e che qui a Monopoli per ora è solo fantascienza. La funzione e la valenza stessa dell’imposta di scopo sono, di fatto, state disattese. Per questo motivo non sarebbe male che, qualora ciò si verifichi, ai Comuni inadempienti e recidivi venga previsto un sistema sanzionatorio che arrivi anche al commissariamento “ad acta” dell’Ente e che si accertino civilmente le responsabilità manifeste di amministratori e ditte appaltate.

15.7.13

Minime.





Dialoghi immaginari di Diogene di Sinope:

Enrico Bondi: A inquinare l’aria di Taranto, a provocare leucemie infantili, a flagellare di malattie tumorali i quartieri di Taranto non è l’Ilva, ma le sigarette e l’alcol.
Diogene: Se anche tu avessi lavato la verdura non avresti dovuto coltivare l'amicizia con Riva.

Angelino Alfano: Non sapevo nulla dell’espulsione della Shalabayeva.
Diogene: Lèvati dal sole.

Roberto Calderoli: Il ministro Kyenge sembra un gorilla.
Diogene: Ho rinunciato a cercare l’uomo.

5.7.13

L’odonomastica: uno strumento prezioso.







Ripropongo oggi un pezzo di Remigio Ferretti che ci accompagna per le vie della città. Ci sarebbe molto da aggiungere a integrazione e sviluppo delle argomentazioni, comunque molto attuali, riportate; mi limito a evidenziare l’inutilità di avere ancora vie denominate “vecchia” (S.Antonio, S.Francesco da Paola, Ospedale??) e poi desidero condividere un sogno di una notte di mezza estate: quello che possa essere realizzata una “cittadella della cultura” che veda come perno il plesso della Galilei, comprendendo il cinema Vittoria evoluto a contenitore multimediale (domanda: ma il Comune ha mai provato a fare un’offerta ai fratelli Caforio? Non è che forse si spenda di meno che con la - comunque auspicabile - ma finanziariamente impegnativa ristrutturazione del Radar? La butto lì…) e la Casina Del Serpente trasformata in museo. Il tutto  circondato ed abbracciato da un tracciato di vie (tratti di ex Lepanto, Cadorna, Cialdini, Europa Libera, Cappuccini e Vico) intitolate ai personaggi che hanno nobilitato l’istruzione e la cultura della città nel secolo passato: Gregorio Munno, Luigi Reho, Luigi Russo, Giacomo Campanelli, Angelo Menga e Remigio Ferretti, buon ultimo tra cotanto senno.


E LA MONTAGNA PARTORÌ… LA TOPONOMASTICA  ("L'Informatore del 28/6/1986)

Chiediamo venia ai nostri concittadini se, ai pochi di essi che per caso siano sprovveduti o disinformati, osiamo spiegare il significato della parola “toponomastica”: essa non ha nulla a che vedere con i noti animali roditori, i topi, di cui uno, piccolissimo, fu partorito, con sproporzionato fragore, da un'immensa montagna, né il verbo “masticare”, voce nobile se riferita, in senso proprio, al lavorio fisiologico delle mascelle che, triturando il cibo, compiono la prima fase della digestione.
Il significato della parola, di derivazione greca, sta a indicare quel ramo della linguistica che tratta lo studio dei nomi locali (toponimi) di una città, al fine di ricordarne e tramandarne i fatti salienti e i personaggi illustri. Infatti, in greco, “topos” sta per “luogo” e “onoma” per “nome”. In quanto alla desinenza “astica”, essa non è rara in italiano: basti pensare a “scolastica”, a “ginnastica”, ecc.
Si può aggiungere che altrettanto importante sia la “onomastica stradale” di qualsiasi centro urbano, cioè la “nomenclatura” delle sue strade, che serve non soltanto ad ovvi fini pratici, come peraltro prescrivono leggi “ad hoc”, ma anche a rappresentare la “memoria” della comunità civile, piccola o grande che sia, onorando i nomi di uomini o eventi di notevole rilevanza nazionale, ma anche di personaggi e di luoghi strettamente legati alla sua storia locale.
A tal riguardo ci sovviene di una osservazione del grande storico Gregorovius (1), riportata nel suo libro di viaggio “Nelle Puglie”. Egli, percorrendo le strade della nostra Regione e visitandone le città, notò che vie e piazze recavano i soliti nomi dei padri e protagonisti del Risorgimento, mentre quasi assenti erano quelli degli artefici della “storia patria”. Il famoso “promeneur” (2) di Germania riteneva giustamente che la storia di una nazione si edifica dalla periferia (3).
La “onomastica stradale” di Monopoli non offre un quadro molto consolante. Prescindendo dal pessimo stato di manutenzione delle targhe indicatrici, dalla loro scarsezza e difformità, emerge una ben piú importante considerazione: le scelte infelici, le omissioni, i guasti operati dai nostri progenitori tra l'Ottocento e il Novecento, peraltro in un'ottica un pò “oleografica” e non certo critica del processo unitario appena concluso, trovano la loro immagine speculare in quanto è stato fatto di recente per la spinta dell'ampliarsi della città e del moltiplicarsi delle anonime “traverse”. Si è operato all'insegna di un incolore meccanismo, il velleitarismo culturale, di frettolosa superficialità, nell'assenza di una visione organica del rifacimento e completamento della nomenclatura viaria, augurabilmente omogenea per quartieri. Ci si è limitati ad intitolare le nuove arterie, tirando fuori dal cilindro del “prestigiatore”, alla rinfusa, nomi noti o ignoti (una vera…perla è via Ligabue), troppo lunghi o di difficile pronunzia, in buona misura estranei alla realtà coscienziale e storica del nostro popolo. Il caso limite è rappresentato dalle strade dedicate agli architetti Luigi Piccinato (4) e Vera Consoli (5) che, lungi dal costituire riconoscimento per i…meriti acquisiti tra noi, sono piuttosto il frutto abortivo di una visione della vita impastata di servilismo, compromesso e provincialismo.
Tra questa…erbaccia, per dir così, "indigena", si levano le piante antiche e odiose delle carenze dello Stato e dei suoi organi periferici che, nell'occasione, hanno finto di ignorare, forse perché “fascista”, il D.M. 10.5.23, n. 1158, nonché la legge 23.6.27, n. 1188, che, tra l'altro, prescrivono il divieto assoluto di dedicare strade a qualsiasi cittadino, prima che siano passati dieci anni dalla sua scomparsa, a meno che non si tratti di “Caduti per la Causa nazionale”.
Non si è posto mente acché alcuni “antroponimi” (6) di sapore squisitamente locale e certamente cari al cuore dei nostri concittadini, diventassero “toponimi”. Perché, ad esempio, chiamare via Accademia dei Venturieri una strada a ridosso del Calvario e non il tratto di via S. Domenico dove effettivamente sorgeva il Palazzo Petraroli (ex Rossani) sede di quella Accademia? Perché “esiliare” il compianto Preside Gregorio Munno, valoroso umanista, in una traversa del viale della Rimembranza e non dedicargli una strada nei pressi del vecchio o del nuovo Liceo Classico, da lui fondato, o un tratto di via Palestro, ove è sita la casa che egli abitò, e tanto studiò e scrisse? E perchè non dedicare all'eroico carabiniere Farulla proprio la traversa dove egli, nell'adempimento del suo dovere, immolò la sua giovane vita? E perché a Palmiro Togliatti viene intitolata (con pieno merito) una strada ampia e lunga, una delle piú belle della città e a Giovanni XXIII, uno dei piú grandi Pontefici della Cristianità, un budello seminascosto, al di là di via Trieste? Misteri e scompensi di quella piaga che si chiama “lottizzazione”, non estranea neppure al settore della “onomastica stradale”.

(1) Ferdinand Gregorovius (Neidenburg Prussia Orientale (oggi Nidzica Polonia), 19 gennaio 1821 - Monaco, 1 maggio 1891) fu uno scrittore e storico tedesco, specializzato nella storia medievale di Roma. È anche molto noto per i suoi “Wanderjahre in Italien”, (Pellegrinaggi in Italia) i resoconti dei suoi viaggi in Italia tra il 1856 e il 1877, in cinque volumi in cui descrive località, personaggi e curiosità del nostro paese.
(2) Viandante.
(3) Scrive Gregorovius: “Dopo l’ultima rivoluzione è sciaguratamente diventato in Italia una vera mania il barattare ad ogni costo i vecchi nomi delle strade nelle città, con quelli de’ personaggi principali o de’ più notevoli avvenimenti della storia più a noi prossima. Il patriottismo, certo, è una bella e santa cosa; ma Anch’Esso ha i suoi limiti ragionevoli. I nomi antichi delle strade sono come tanti titoli de’ capitoli della storia delle città, e vanno perciò rispettati e mantenuti quali monumenti storici del passato. Ora intanto le città d’Italia dalle Alpi al Lilibeo si sono provviste tutte de’ medesimi nomi moderni di strade, i quali non stanno in alcuna relazione col luogo, non hanno con questo proprio nulla a che vedere. Fossi io il re d’Italia, ovvero Garibaldi o il Principe ereditario, vorrei pregare che si smetta dall’abusare siffattamente del nome mio. Questa uniformità di nomenclatura comincia a diventare ristucchevole e disgustosa. In quale che siasi la città italiana ove si vada, bisogna aspettarsi di trovarvi un Corso Vittorio Emanuele, o Garibaldi, o Umberto, e su’ canti delle strade le leggende eternamente e monotonamente ripetute delle battaglie di Magenta, Solforino, Castelfidardo, Montebello, Marsala, ovvero, ciò che ispira maggior nausea ancora, d’imbattersi in concetti astratti e totalmente vuoti, quali Piazza del Plebiscito, dell’Indipendenza, dell’Unità.”.
(4) Luigi Piccinato (Legnago 1899-Roma 1983) architetto ed urbanista, interprete del cd. “razionalismo architettonico”, corrente di pensiero sviluppatasi in Europa agli inizi del Novecento, sulla scorta dello sviluppo della rivoluzione industriale, propugnò il ritorno a forme e volumi semplici nelle costruzioni, a colori base e a materiali economici. Sulla falsariga delle teorie, molto in voga negli States, dell’architetto Frank Lloyd Wright (urbanistica “organica”) sulla crisi della metropoli, incaricato della realizzazione dell’abitato di Sabaudia, ne tratteggiò il disegno che divenne il manifesto del razionalismo in Italia. Nel 1975 venne incaricato della stesura della “Variante generale al PRG” di Monopoli”. Nel 1984 il Comune di Monopoli retto all’epoca ancora da Walter Laganà, a meno di un anno dalla scomparsa del Piccinato, contravvenendo alla normativa contenuta nella L. 23 giugno 1927, n. 1188, art.2 (limite dei dieci anni dalla morte per la denominazione di strade o piazze pubbliche), gli intitolò una via (divenuta poi simbolo di un quartiere-dormitorio ancora in lenta fase di “civilizzazione”), quasi che svolgere un incarico per il quale si è stati legittimamente e profumatamente retribuiti (25 milioni di vecchie lire dell’epoca), costituisca requisito di benemerenza assoluta al pari delle gesta dei grandi concittadini che hanno fatto la storia della città.
(5) Architetto, collaboratrice di Luigi Piccinato.
(6) Notazione specifica adottata da una comunità o da un organismo amministrativo allo scopo di identificare e distinguere una persona che si distingue dai toponimi che servono per identificare un luogo.

19.6.13

Cala Portavecchia, l'accoglienza della città





Io e Franco Muolo stavamo navigando nello stesso mare a nostra insaputa. Un mare periglioso ed infido, ma proprio per questo intrigante e sensuale, non per la presenza di omeriche sirene tentatrici, ma per il trasporto che nutriamo per questa nostra città e per il desiderio di rivedere la bella Monopoli che fu, rivisitata e agganciata ai tempi. Navigavamo bordeggiando sotto costa, sfiorando con lo sguardo Cala Portavecchia e rimembrando antichi attracchi, stabilimenti e cabine di legno, pini secolari, ponticelli rustici, giochi di bambini scalzi e arrossati, tuffi e immersioni fra le pentime. Lui, Franco, con il piglio del tecnico, già disegnando schizzi di bracci e dighe; io, più modestamente, incapace di disegnare geometrie, ma solo voli della fantasia, immaginando soluzioni più accessibili, considerate sia l'attuale miopia che ci amministra, che non ci ispira fiducia al di là dei facili laterizi, sia l'attuale fase di “spending review” (una frase molto elegante per definire il famoso “piombo a denaro” del mitico tressette). Cala Portavecchia è sempre stato il rifugio naturale per chi, veleggiando o remando contro il Maestro, non riuscendo a superare l’ultimo ostacolo delle mura da circumnavigare, si arrestava sotto di esse, riposando e attendendo la fine della burrasca. Un paesaggio fiabesco circondava l’avventore, con le mura illuminate da cento stoppini e la spiaggia accogliente a poche braccia. La mia idea: pensavo a come è stato protetto il lungomare di Bari. Semplici barriere frangiflutti. Bruttine a vedersi, questo lo ammetto. Ma con il grande pregio, credo, di essere la soluzione più economica per quello che vogliamo ottenere. Una barriera frangiflutti che sbarri il passo ai marosi prodotti dai venti spiranti dal quadrante meridionale e che copra la zona che va dalla punta di Porto Rosso all’ingresso in Portavecchia. Metodiche e posizionamenti saranno di competenza dei tecnici specializzati, il cui abile lavoro consentirebbe:

1) La realizzazione di un vero e proprio stabilimento balneare PUBBLICO, sulla spiaggia di Portavecchia, con spogliatoi e servizi igienici scavati nel cemento sotto il manto stradale, servizi di docce, di sorveglianza e di salvataggio.
2) Un pontile in legno che parta da sotto la muraglia, dietro la barriera frangiflutti, destinato esclusivamente all’ormeggio dei nostri splendidi e unici “gozzi”, che offrirebbero la possibilità di noleggio per visitare le mura e il Porto dal mare.
3) Il ripristino definitivo del ponte sull’isolotto che potrebbe nell’occasione essere dedicato al “Pescatore Monopolitano”, adornandolo con le reti e le attrezzature tanto care alla nostra gente di mare.
4) La rivalutazione delle tre ultime spiagge libere cittadine rimaste, cioè L’Acqua di Cristo, Porto Bianco e Porto Rosso, anch’esse più protette e ricche di arenili più stabili alle correnti.




Non sono in grado di dire se tutto ciò può funzionare solo nella fantasia o se ci siano presupposti tecnico/operativi perché possa dirsi realizzabile, ma mi piace pensare affermativamente. Se poi soluzioni di più alto profilo fossero avvicinabili, magari con fondi europei (qualcosa del genere ha fatto la Regione Toscana per la “riqualificazione del litorale”), ben vengano. Franco ricordava i fasti e gli onori della Monopoli che si riscattava dagli spagnoli. Più sommessamente è da sperare che piccole operazioni “culturali”, come quella fin qui descritta, possa, se non innescare una “età dell’oro”, almeno cambiare un poco le prospettive di sviluppo per questa città che non deve più soffocare nel cemento, ma trovare nella creatività, e nella valorizzazione delle risorse naturali ed artigianali, nuovi stimoli e propulsioni.

12.6.13

Riprendiamoci le spiagge


Amiche ed amici lettori di questo blog: 

La lenta ma inesorabile occupazione delle spiagge libere della nostra città è sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse ed i proclami effettuati da tutte le forze politiche e dalle diverse Amministrazioni che si sono succedute negli ultimi 20 anni, ad ogni stagione estiva ci ritroviamo a fare sempre le medesime considerazioni e a vedere sottratti o limitati al pubblico sempre più accessi al mare. Sotto forme svariate e mascherate, dove la fantasia arriva a livelli smisurati, si elargiscono permessi che nascondono speculazioni a danno della cittadinanza che vuole godere della spiaggia come bene comune, così come accade per l’acqua potabile. Al di là del colpevole ritardo da addebitare alla Regione Puglia che non ha ancora approntato il Piano Regionale delle Coste, esiste comunque una normativa-quadro (cfr. link in calce alla pagina) che disciplina in modo chiaro e inequivocabile le possibilità di richiedere permessi (temporanei) per attrezzare le spiagge con stabilimenti balneari e garantire libero accesso e fruizione del demanio pubblico. Alla luce di queste brevi considerazioni ritengo che sia arrivato il momento di testimoniare in modo significativo l’attenzione e la sensibilità che su questo tema ha tutta la cittadinanza di Monopoli, evidenziando e denunciando le situazioni illegali o di sopruso, ma anche presentando come virtuoso esempio quelle situazioni laddove, imprenditori onesti e scrupolosi hanno realizzato strutture regolari e pacificamente conviventi con aree riservate al libero accesso. Pertanto invito associazioni, organizzazioni, partiti e cittadini a riflettere sulla possibilità di organizzare una Marcia Per Le Spiagge che si svolga su un percorso da definire, visitando il litorale e che veda la partecipazione da richiedere anche a personalità politiche e culturali di rilievo.
Ovviamente per rendere fattibile questa manifestazione occorre l’adesione di organizzazioni che mettano a disposizione la loro fattiva esperienza insieme alla convinta partecipazione di tutti coloro che vorranno. 

Vi prego di postare sul blog stesso le vostre considerazioni e/o proposte. Grazie. Un abbraccio a tutti.



10.6.13

Elettorato colto? No ma consapevole.

La tesi circolata sui social e su alcuni media cittadini, secondo la quale ci sia un elettorato di sinistra prevalentemente “colto”, mentre invece tutti gli altri stanno a destra, a prescindere dalla veridicità o meno della fonte da cui è scaturita ed al di là della pochezza scientifica in sé, pone peraltro qualche riflessione a riguardo. La struttura della società in cui viviamo è da sempre di tipo piramidale. Ciò che è mutata e si è affinata nel tempo è l’organizzazione delle classi dominanti: il metodo del dominio. Con la fine dei totalitarismi e l’avvento e la stabilizzazione delle forme di democrazia istituzionale, le classi dominanti hanno avuto bisogno di organizzarsi prima in modo sfacciatamente oligarchico e poi in forma di elites. Le elites sono associazioni, consapevoli e non, di soggetti legati da interessi economici comuni e da mutue reciprocità. In una struttura di tipo piramidale le elites si addensano ai vertici di essa, con una corsa ad ottenere i posti migliori, ma, una volta individuato il proprio ideale livello di influenza, esse restano come dormienti, incastonate in un sistema protetto e autoreferenziale. Quello che scorgo di diverso e più raffinato rispetto alle già visionarie teorie di Mosca e Pareto, è la rete di complicità e solidità che accomuna e avviluppa le attuali elites, esclusivamente incentrate su interessi di tipo economico/finanziario. In sostanza il dominio è motivato da ragioni esclusivamente di profitto. Basti pensare al plurinominato, in questo periodo, “conflitto di interessi”. Il conflitto di interessi non è altro che un corridoio preferenziale che raccorda due o più elites e che viene percorso nei due sensi di marcia per sovraintendere alle necessità del gruppo. A nulla valgono forme di governo, istituzioni di rappresentanza, leggi elettorali, se non quali semplici strumenti da piegare e mortificare a seconda delle contingenze in atto. Se guardiamo questa situazione da un osservatorio europeo e mondiale ci rendiamo conto del fine ultimo di tutto questo dibattito. Con la crescente domanda di riappropriarsi di una vera democrazia dal basso, come sta accadendo non solo in Italia, ecco spuntare a contrasto le varie proposte di forme di esautorazione, come il semipresidenzialismo. Su questo ragionamento va ad innestarsi la vexata quaestio sull’efficacia della forma partito nella geografia politica. Seguendo il filo del nostro discorso, è da tempo ormai che anche i partiti sono diventati organizzazioni elitarie. Il che non vuol dire necessariamente negative. Essi accumulano negatività quanto più si allontanano dal rapporto con i propri elettori. La comparsa sul palcoscenico mondiale dei movimenti è il solo vero segnale di contrasto all’oligarchia delle elites. E’ necessario che queste due forme principali di partecipazione prendano reciprocamente l’una il meglio delle prerogative dell’altra, perché diventino entrambe efficaci e virtuose nel contrastare l’involuzione in atto. La “liquidità” dei movimenti deve contagiare l’aristocrazia chiusa ed obsoleta dei partiti e la territorialità dei partiti deve supportare la forte tensione morale e rivoluzionaria dei movimenti. Anche a Monopoli esiste una struttura della società organizzata in modo elitario: si pensi ai costruttori, agli avvocati, ai tecnici, ai commercianti. Anche a Monopoli si affacciano i movimenti, affiancando i partiti. In questo senso va letta l’argomentazione di un elettorato che si divide, ma la contrapposizione è tra coloro che proteggono e rafforzano questa vecchia organizzazione elitaria e coloro che vorrebbero compiere un’azione pedagogica, non demolendo le elites, ma proponendo loro un progetto di società aperta, giovane (non in senso anagrafico), basata sulla cultura, sull’ambiente, sulla solidarietà. L’ideale sarebbe gonfiare di democrazia la piramide facendola tendere alla perfezione sferica: un centro di governo dove le elites non abbiano struttura gerarchica, ma ruotino in sincronia, creando quella forza centripeta che permetta di raccogliere e trascinare gli ultimi, i deboli, non permettendo di espellerli dalla circonferenza della vita.