21.6.20

Sarah Hijazi


Sarah Hijazi morta suicida in Canada, dove aveva trovato asilo dopo mesi di prigione in Egitto, torturata e violentata. 

Cit. Venditti

Sarah
svegliati è primavera
le nuvole fuggono via
le rondini ridono nel vento
piove solo libertà.

Sarah
corri è primavera
puoi garrire la tua bandiera
nessuno ti farà del male
nessuno prenderà il tuo cuore.

Sarah
vola è primavera
abbraccia il cielo azzurro
sei sopra tutti noi
non hai più confini.

Sarah
non esiste più paura
cavalchi il sorriso
di tutte le donne

ti sei svegliata
al ritorno della primavera.

Ciechi riflessi


Mi leggo
riflesso invisibile
ipotesi d’esistenza
in un metro quadrato
ispessito di vuoto.

Fissavo l’aura virtuale
di un abbozzo strisciante
afferrato a spigoli
meno aguzzi del silenzio.

Accecato e riverso
non guardavo distratto
oltre l’infranto embrione
che dal nulla risale.

C’infiamma perenne
occluso alle spalle
un sole di speranza:

alziamo gli occhi
oltre l’orizzonte finito
insulso tramestio
di un calpestato presente.

In ricordo di Zohra


In ricordo di Zohra bambina pakistana uccisa dai suoi "padroni" per aver fatto fuggire due pappagalli.


Zohra
eri tu
in quella gabbia
cuore sigillato
palpitavi
effluvi multicolori
il capino inarcato
danzavi alla luce

era l’unico gioco
dei tuoi giorni di bimba
strappata all’innocenza

ti sei spalancata
al sogno
di volare fuori
pensavi di trovare
quell’inizio che hai saltato
la bambola mai pettinata
il pallone mai calciato
la mamma mai abbracciata
il papà mai coccolato

c’era il mostro fuori
che ti ha strozzato
la vita in faccia.

Il privilegio del volo


Abito
in uno scorcio di sogni
dove corrono
selvaggi e maestosi
desideri argentini
si avvitano spirali
di palpiti eburnei
dove invoco sospiri
scagliati sul mare

non mi occorre rullare
per incalzare i venti
percorro l’orizzonte
raggranello silente
scampoli d’estasi.

‪A passo d’ali‬
‪aggrovigliato‬
‪in un buio friabile‬
‪accedo ad altezze‬
‪dove il tuo viso‬
‪è concerto di nuvole‬
‪e gorgheggia‬
‪il mio silenzio‬

avanzo rapito‬
‪perdendomi‬
‪nella tua infinità.‬

Spazi d'infinito


Frugare
dietro gli spigoli
di un dolore frusto
accecando sbalzi
d’impalpabile silenzio

svuotare
recipienti d’ombre
invocando maree
d’insondabile nonsenso

accogliere
abbracci d’infinito
cantando sospiri
d’indicibile ebbrezza.

A passo di danza


A passo di danza
scavalco il destino
non mi servono sfide
ma la leggiadria del volo

fatti fummo per puntare il sole
ma ignari scrutiamo il fondo
e il tempo ci sciorina ansia
secca zavorra di muffa

tendiamo i muscoli del bello
aspiriamo essenze d’abbracci
vendicatori di bontà
occupiamo lo spazio
degli amori permanenti.

La ricetta dell'amore


L’amore
ricetta illeggibile
formula tantrica
fulmine di orchidee
o di margherite prataiole
canto di usignoli
o di cicale popolari
dipinto di Leonardo
o scolastico acquerello
Cappella Sistina
o castello di sabbia

questo tutto o questo poco

non conosce trincee
valica cordigliere
non ha rifugi di pudore
ma si ferma sul creato
non ha cultura nè tradizione
si nutre d’istinto primordiale

fisseranno dei confini
costruiranno gabbie
insulteranno, violenteranno
ma è nato libero

volerà senza catene
brucerà le convenzioni
porterà la sua scintilla
in mille firmamenti.

Binario morto


Refoli di pensiero
affilano grumi
staffilano piaghe.

Questo tempo
fra assurde parentesi
sgrano come rosario
porpora fibra
incistati nembi
strappati a sangue.

Ogni nota sofferente
raggiunge l'empireo
con voce declinante
inferisce attonita lama

dall'ugola frantumata
dolce condanna
"ti amo" stormisce.

Resto un'ombra
che viaggia perenne
disegnata in opaco
sui treni del tempo.

Buona vita
ovunque sia
la tua stazione

ovunque si conficchino
le unghie divelte
del mio rimpianto.

Percezioni del Nulla


Avvolgo
gomitoli di noia
spire insinuanti
aspidi grette
cerco di galleggiare
in oceani di rabbia.

Mi chiedo il senso
se ci sia un dunque
al termine del dolore.

Viaggiamo
sotterrati e barricati
nell'umida cripta
di una preghiera abusiva.

Qualcosa sorgerà
all'alba del riscatto?

O un sole affranto
scoppierà d'inanità?

12.5.20

Il limite del corpo


Tendo alla fuga
divello retrive catene
innesco roventi pulsioni
mi nutro d'impeto
invoco il sublime
annaspo follia.

10.5.20

Dopo la liberazione di Silvia Romano


Vorrei che i miei versi
fermassero la marcia
dei vili senza faccia
che schiumano rabbia
bombardano veleno
ignobili sanguisughe

vorrei che i miei versi
liberassero bellezza
sigillata dagli insulti
esplodessero d’amore
nella vuota pochezza
degli indifferenti

vorrei che i miei versi
fossero grimaldello
per coscienze umiliate
schiacciate vilipese

vorrei che donassero
ali d’argento fuso
ai cuori striscianti
sotto il giogo del Potere

vorrei che i miei versi
gonfiassero bandiere
di gioiosa libertà
vorrei che cantassero luce
nei vicoli dell’ingiustizia

vorrei che i miei versi
fermassero il tempo
e scrivessero nel cielo
un arcobaleno di pace

vorrei che fossero carezza
per coloro che sono fermi
ultimi passeggeri
del treno della speranza.

L'anima del poeta


L’anima del poeta
viaggia sulle note del mito
non teme le ingiurie del tempo
accelera rullando sul dolore

l’anima del poeta è indomita
gracile alle scosse del cuore
ma fugge in alto, impenna
più in alto delle umane miserie

l’anima del poeta è tenera
ma non si fa schiacciare
spiega la sua missione
al destino che volta le spalle

l’anima del poeta è nuda
ma nessuna freccia la perfora
perché ha la corazza del sogno
e pianta radici come quercia

lo sguardo oltre le galassie.

Ciottoli di rabbia



Mentre sfila
su tacchi da entraneuse
la memoria si rimpalla
torce ancora le viscere
di giorni disassati

cavalca un cielo
rosso rubino
rimesta nembi
di fango colloso.

La tensione perpetua
l’olocausto del volo,
l’eutanasia del sogno,
il suicidio dell’eccesso.

Ho sete di veleno
che secchi l’anima blesa
smonti fumose ragioni
incastrate ed accartocciate.

Offro il mio senso nudo
ad una lama benigna
che penetri l’alveo
dei sussurri cementati
nelle orride prigioni
in cui macero fiele.

Affaccio sul mondo


Ho aperto
una finestra sul mondo
ho visto scorrere la vita

non sapevo
con che occhi guardare
lo sciabordio del sole
sulle acque chiare

non sapevo
con che cuore toccare
la gioia dell’alba
riflessa d’azzurro

non sapevo
con che sorriso amare
il volto del cielo
versato sulla mia anima.

La saga di Gilgameš



Era distratto
quel giorno Gilgameš
scrutava i confini del mondo
palleggiando con la Terra
sui gradini del tempo
freestyle in canotta
la grazia di un bulldog.

Sotto gli Archi di Vanagloria,
Mestizia e Furore
tiravano a dadi
la sorte degli apogei:

“lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta
lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta”.

E un Sudario
infracidito di Senso Comune
organicamente spaiato
copriva vergogne sataniche.

“Ma qual è il geomètra
chetuttosaffige?”

Sbalestra la bussola
puntando la prora decisa
sulla rotta dove Angeli e Demoni
si rincorrono su dune di corallo.

Ištar sporge i seni
offrendo voluttà
ma i denti da vampira
affondano nel cuore.

Hubaba lo spaventa
nella Foresta dei Cedri,
lo bracca il Toro Celeste
sul Mare della Morte.

“Ho ucciso divinità
per fuggire dal dolore:
dove sei Utanapistim?
hai sconfitto il Diluvio
rovescerai la mia clessidra.

Ma il serpente ha divorato
la Pianta della Gioventù:
sono solo Gilgameš
e non sarò immortale
non posso più giocare
con la Terra e con il Fato.

Enkidu, amico mio,
mi hai letto deferente
la scritta sul fondale
del Tempio dei Morti
dove stalattiti di ghiaccio
colavano pece fumante
su piaghe purulente:

lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta
lei è morta ma non sepolta
lei è sepolta ma non è morta”.

14.4.20

Ad Alda Merini


Alda 
è il percorso dei poeti
un’ombra ci accompagna
ci contraddice ci separa
scava fra le macerie
brucia i destini

travolge affetti
tortura desideri
ci combatte contro
perenne scrupoloso
cilicio dell’anima

e da questa guerra
unici reportage
i versi contorti
esangui brutalizzati
ma vividi di sogno
proiettati su orbite
d’amore invisibile

noi esseri bipolari
eternamente uguali
metastaticamente soli.

I sensi del silenzio


Aprirsi d'incanto 
sulla vastità del silenzio
abbracciare la rotonda
mestizia dell’infinito

cercare un senso
un’iconica trasparenza
veleggiare come onda
seguendo le curve
armoniose dell’anima

dove si ferma il sogno
dove abita l’eterno.

Stanze vuote



Stanze vuote
ove aggrovigliato
il mio senso geme
ove spiriti antichi
pronunciano silenzi
in fa diesis

stanze vuote
ove s’aggira stentata
una trama di specchi
ove in punta di piedi
cerco un colore
che m’imbratti dentro

stanze vuote
non scontate
renitenti, disadorne
che avrei riempito
di futile quotidiano
fantastica routine

stanze vuote
inusitato rigetto
stuprati orizzonti
ove cala il meriggio
e s’arena il rimpianto.

Mi è arrivato un sorriso


Il vostro sorriso
ha scalato il cielo
più leggero del coraggio
più musicale del silenzio

noi viventi a testa bassa
affondati nel grigio
rancorosi distratti
basta un raggio
di una piccola stella
a illuminare il cammino

basta poco per volare
leggeri sulle onde
di un tempo nuovo
grazie del vostro dono

quando riapriremo
le porte al futuro
vi incontrerò nella vita:
ci faremo un cenno
e quel sorriso
risplenderà perenne.


A Papa Francesco


Signore 
sono solo pulviscolo
disordinato di cellule
ascolta questa invocazione
laica, esterna
da chi ha sempre avuto dubbi
da chi ha sempre creduto
negli atti degli uomini
piuttosto che nelle benedizioni

da chi ha sempre pensato
che il libero arbitrio
sia un comodo rifugio
per illusi impenitenti
e filosofi impacciati

è giunto il momento:
non ascoltare i nostri
contraddittori lamenti
le nostre ambigue
professioni di bontà
noi attenti al nostro
temporaneo vacillare
ma ciechi al mondo
che si sfalda;

c’è un grand’uomo
assiso sul Soglio di Pietro
se vuoi battere un colpo
hai la tua volontà
tra le sue mani
hai la tua immensità
nel suo cuore.

Saluto ai pescatori



Gente 
scopritevi il capo
passano i pescatori
solcano il cielo
cantano all’abbondanza
portano fiori
nei vasi del tramonto

gente
aprite le finestre
passano i pescatori
accendono le lampare
cantano alla fertilità
portano coraggio
alle anime affrante

gente
alzate le braccia
salutate i pescatori
svuotano le stive
cantano all’amore
portano speranza
alle nostre prigioni.

Italia, resisti


Un canto di bimbi 
acuto nel cielo avanza
ed io in questa stanza
ho preso un volo brillante

Italia mia tenera amante
stremata piangente ferita
i bimbi ti sanno curare

Italia culla dei miti
nobile ostetrica di geni
fucina d’arte sublime
resistente generosa

ti terremo la testa
fuori da quest’acqua fetida
ti respireremo nei polmoni
ti restituiremo ancora
il sole ballerino
la luna innamorata
la gioia della musica
la danza dei poeti

Italia risorgi
i bimbi ti amano
e ti vogliono scoprire
intatta meravigliosa
eterna.

Immunodepressi


Numeri
scarni freddi
contatori.

Atoniche voci
sciorinano elenchi
dove in fondo
sottovoce sbrigativa
una stringa e una giustifica:
MA.

Non erano MA.
Erano i nostri padri, madri
erano i nostri nonni
i nostri piccoli sfortunati
che forse sorridevano ancora
sulle loro cigolanti carrozzelle.

Non erano MA.
Erano complessi di cellule
impazzite di vita
tenute insieme
da circonferenze d’amore.

Non erano MA.
Erano come noi
in mezzo a noi
correvano ancora
nei nostri pensieri
baciavamo le loro scie
benedivamo ogni minuto
del loro tempo insieme.

Non erano MA.
Non metteteli più
all’ultimo posto.

Loro sono NOI.

9.3.20

Il mio occhio


Il mio occhio
strale di luce
dardo inclemente
inchino all’avvento.

Scava solchi perversi
insinuando artigli
in profonde cateratte.

Umettami di nettare
spremi grani vitali
trascinami gaudente
ai confini dell’ignoto.

4.3.20

Pertugio


E mi ritrovo ancora
aggrappato a lembi
di nuvole sgraffiate
pennellate talentuose
che recitano ghirigori
ad un cielo intorpidito.

E salgo cado risalgo
una nenia beffarda
eco struggente
nei meandri del già visto
già cercato già perduto.

Salgo cado risalgo
metronomo inclemente
becero coro di gazze
scherno di foglie rutilanti
pompose naiadi
nell’empietà del caos.

Salgo cado risalgo
ho lasciato le unghie
conficcate nel passato
vaga è la meta
facile urtare la nebbia
infido coro delle sirene.

E salgo cado risalgo
su picchetti avvitati
profondi cilici
chiodi scarnificanti
il ventre del probabile.

Ma salgo cado risalgo
presto la luce ferirà
un pertugio resiliente
spaccato sul tramonto
e mi fermerò assorto
a rimirar la gioia.

Pandemia


Ci vietano gli abbracci
ombre siamo nel divenire
corpi vuoti
anime purulenti.

Ci plasmano i destini
spettri stanati dalle tane
orridi nani
storpiati vilipesi.

Ci stuprano il DNA
colpevoli di superbia
bordeggiamo il confine
tra Amore e Morte.

Quel che resta
è tremula cenere
piatta latenza
secca angoscia.

Il gravido imbuto
crepa il tempo
dove rotolano
i gusci vuoti
del mio esistere.

24.2.20

Icaro



Dietro l’angolo
del dubbio
alla fonte
del disvelarsi
sul versante
del tentennare
ascolto i miei passi furtivi
restii all’osare.

I sensi arresi
all’assedio del falso
d’incanto vigili
al vento del dolore
pongono queruli dubbi
sfangano tremori
di sterile incoscienza.

Il passaggio incombe
veste maschere irridenti
al vuoto del vivere
orlato di menzogne 
cantate al mostrarsi

Avanzo gravato
da miglia di voli
con eliche stanche
negletto di nuvole sporche
esalando vuoto.

Mi spingo a cercare
pianure infinite
dove rullare felice
perdermi d’azzurro
tornare lassù
dove il canto del sole
è preda di anime elette.

18.2.20

Maestrale


L’aria rassodata
da frange rubino
screziato d’avorio
trattiene refoli
resilienti, tenaci
uncinati ad uno sbavo
di tempo soffuso

la tua ombra
emerge dal cerchio
paludato ove stremato
arginavo il dolore.

Ma da lungi s’annuncia
parto di rupi glaciali
imperioso irruente
scavalca gli indugi:

Salute a te
provvido Maestrale
principe dei venti
vindice di rassegnazione
sacro purificatore
dei vicoli del cuore

oggi volo
sui gracili percorsi
della memoria
il passo ritmato
inclino e raccolgo
folate d’ebrezza

portami sul dorso
del senso fugace
rigenera smorte cellule
alzami benigno
in cima al destino.

10.2.20

La mia corsa con un amico

E’ un pò che corriamo
amico mio
e se proviamo a girarci indietro
chissà da dove veniamo.

Siamo stati bene
in fondo io e te
all’unisono, in sintonia.

Dolore quando c’era
e amore, gioia, follia,
abbiamo bevuto vento
e bonaccia
a picco sul mare dei sogni
unite le nostre urla di sale
salivano avvitate al cielo.

E corriamo ancora
ventricoli allineati
al ritmico stormire
di queste foglie d’autunno:

ci piace ancora darci la mano
e sfiorare con le dita le nuvole
le gambe intontite
pesano sempre più:
non ci pensiamo, forza!

Se ci dovessimo fermare
vorrei che fosse di corsa:
sempre mano nella mano
mentre un fulgore di stelle
ci spacca le vene
e lentamente ci adagiamo
sulle servizievoli onde
di un mare adamantino.

Ma noi,
mio pulsante amico,
avremmo fatto il nostro:
rincorso, pregato, perdonato
stretto patti inverecondi
e poi penitenti, a capo chino,
scossi da febbri e sudori
a ripercorrere l’eterno
cerchio della vita.

Alla fine abbiamo amato
straziatamente
fino alle porte degli inferi
e, scavalcate,
abbiamo bussato a quelle
del paradiso.

Siamo paghi
vecchio amico mio
continuiamo la nostra corsa
fino all’ultimo sorso di fiato.

Fai rumore (*)


Sommerso 
da un silenzio vorace
una voragine spettrale
in cui la ragione
rimbalza tra pareti aguzze

graffiata abrasa
la mia anima si sfibra
sfilaccia atomi di resa

mi trascino sul piano
della sconfitta ombrosa
avvolgendomi di polvere
e lacrime
provvidi unguenti

ma ti prego fai rumore

che venga dal profondo
dal covo della memoria
dal periplo dell’eterno

fammi percepire
una presenza nell’assenza
un picco sul monitor
di brutale splendore

fai un flebile rumore

che possa ridondare
tra valli raggrinzite
paesaggio lunare
dove cieco mi aggiro.

(*) Ispirata dalla canzone vincente - Sanremo 2020

Grazie Roberto (*)

Non avremmo creduto 
di avere la forza
di separare le montagne

non avremmo creduto
di respirare orizzonti
avvolti d’immenso

non avremmo immaginato
di sprigionare urli di sole
fuochi di vento
armonie infinite

avevamo rimosso
di possedere amore.

(*) Per Benigni declamatore del Cantico dei Cantici - Sanremo 2020

7.2.20

Lucciole


Ho raccontato una fiaba
alle lucciole impazzite
una storia di senso incompiuto
una poesia inventata
dagli angeli della fantasia
un canovaccio di simboli
disegnati sul nulla
che avevano vita propria.

Quando la luce ha deriso
il sonno del poeta
ha lasciato devastato
il paesaggio del tormento.

Ma tant’è.

Un sogno resta sogno
anche se ti frusta l’anima.
I vuoti da colmare
sono qui
innanzi agli occhi del coraggio.

Pensieri circolari


Assorto
in meandri antelucani
le mani afferrano
scampoli di senso

chinato sul grembo
clemente del fato
sogni liquidi galleggiano
propagano incuranti
delle tempeste dei cuori

anarchiche rotondità
si flettono amorevoli
sul limitare del dubbio.

28.1.20

Altitudini


Denaro, potere, dominio
perverse lusinghe
non possono forzare
le inaccessibili serrature
le vergini coscienze
degli spiriti alati

noi sorvoliamo le miserie
di un senso comune
immorale e gracidante

noi restiamo immuni
dalla melma putrida
che corrompe l’umano

noi falchi pellegrini
cantiamo alla natura
un empireo di voli
picchiate, planate

noi figli del vento
cavalieri del sogno
facciamo l’amore
tra nuvole giocose

chi ci ama ci segua
sveleremo il segreto
per cancellare l’ombra
da uno stolido pianeta.

18.1.20

Foglia rotolante



La vita gira come foglia
morbida rotola succube
su ripiani stabiliti dal fato
incalzata da venti confusi
essa plana docile
impunta imbizzarrita
sciama nella folla
popola deserti.

Oh vita mia come foglia
alla mercé di pulsioni
contrarie ambigue
ferite da spigoli aguzzi
strappata all’albero nativo
per un’alba indocile
t’accolgano solerti sponde.

Per un’amica



Voglio bene ad un’amica
un’anima leggiadra
che filtra raggi virtuosi di sole
tra fenditure di bastioni
eretti su un pianeta di saccenti,
di razzisti, di scurrili.

Voglio bene ad un’amica
che porge mani invisibili
che lancia un pensiero
lontano, nel buio di un sospiro, 
vicino, nel vulnus di un lamento.

Voglio bene ad un’amica
tanto ma tanto bella
una stella luminosa
al mio triste crepuscolo. 

Voglio bene ad un’amica
tanto ma tanto bene
ed è cosa rara
una congiunzione di pianeti
contigui nel linguaggio dei giusti. 

Ricordati sempre di volermi bene
amica mia unico tronco
al quale afferrare le mie radici.

Ad una creatura mai nata


Tu sei restato cielo
mistero di atomi scomposti
nugolo di desideri intonsi

sei restata brezza
che lèva dalle selve d’oriente
voce di terra feconda

tu
sei restato canto
di policromi usignoli
danza di fate garbate

sei restata mare
carezza di placide ninfee
bacio di lontane sirene

tu
sei rimasta eterna domanda
incastrata tra le nostre vite
macerato dubbio
asfittico silenzio.

12.1.20

Eclissi


Luna graffiata
unghie striate
raggi di velato tepore
sbavati da orli merlati
grottesca maschera di cielo
invito a genuflesso stupore

sussurrate vibrazioni
armonie d’incanto
cerco di vergare
spiccioli di futuro
versi sfrigolanti nebbia

il tuo profumo pervade
inebria la pianura sottesa
tu padrona dell’opaco
custode di freddi giacigli

mie biascicanti cellule
rotolanti vani sproloqui
vinte da prosaici fumi
afferrano i tuoi virgulti

porgimi salvifica mano
onirica Dea del silenzio
sfarina questo firmamento
di mestizia e di sale
regalami giocattoli d’alba.

7.1.20

Antonio e Piero Brescia: sottobraccio sul sentiero dell'arte.


Il 4 gennaio Piero Brescia ha regalato alla città una parte della produzione artistica del fratello Antonio presentando il volume "Totemanzia" nella sala della Biblioteca Rendella. Come già accaduto in passato, quando mi ha "raccontato" di persona il talento di Antonio, consentendomi di tracciare un mio personale ritratto del poeta, sulla base delle sue precedenti pubblicazioni (cfr. su questo blog: "Antonio Brescia l'uomo che ha scalato l'infinito a mani nude"), anche in questa occasione il mio sentire è stato scosso da intense vibrazioni che mi hanno portato ad un altro spontaneo omaggio alla sua arte e all'inestimabile patrimonio d'amore che lega i due fratelli. 


Notti insonni
disteso sulle ombre
piegato sul buio
assurde sentenze
devastanti ferite
piaghe ulcerose
scavate nel petto.

Ma tra gli intrecci
dei ventricoli pulsanti
rosso di linfa vitale
galleggia immenso il Dono
un incrocio di armonie celesti

Tu mio clone spirituale
mio mentore e guida
hai dipinto il mio
esangue tappeto
di indicibili colori
hai acceso la miccia
esplodendo il mio torpore

Hai forgiato un miracolo
di versi inesistenti
sulle pagine del mondo
sei assurto Totemante
deridendo i Nuovi Filistei

Mi hai preso per mano
conducendomi all’Intuizione
non mi hai più lasciato:
Camminatore delle galassie
Pioniere dell’Invisibile
fratello mio in eterno
la tua scia luminosa
è il sentiero che percorro.

1.1.20

Argini celesti


Librato sul limitare
vorticoso del dubbio
anelo dissolvermi
nebbia sanguigna
o ergermi impavido
alle frane del gelo
che plasma il tuo cuore
e svelarmi anima nuda
al cospetto dell’ovvio.

Nuvole sghembe
spazzano e spaiano
visi abbozzati
reietto mio cuore
aggrappato a raggi inerti
sublimo spasmi di sogno

la tua calda presenza
in una notte infinita
dove pullulano Elfi
danzano Naiadi
sfilano Camene
adagio nell’oblio.

28.12.19

Assenze


S’insinua tremula
subdola morbida
evanescente quasi
assottiglia le trincee
scivola sotto le rocce
frantuma le scorze
ha una lama di specchio
che brandisce con sussiego
ha una corda di ferite
che disegna sulle spalle

mi carpisci scrupolosa
mi avvolgi incessante
mi arrendo al tuo volere
infame malinconia.

Vengono da lontano


Vengono da lontano 
dove sorge il dolore 
camminano sui cocci
di un tempo diroccato 
spinti da un vento bugiardo 
cercano otri di abbracci 
assetati di pace.

Tranciamo le funi
che stringono il cieco
osceno furore 
del nostro piccolo mondo
le nostre braccia
il porto sicuro
dove carezzare gli angeli.

18.12.19

Noi


Noi
condannati alla smodata
ricerca di un quanto
abbiamo smarrito il come
e vorremmo tornare ad essere
strisce di luce pulsante.

Noi
pulviscolo nel vuoto,
noi cenere di stelle
plasmati di follia,
noi anime perdenti,
fagocitati annientati.

Noi inchiodati alle inezie,
siamo tanti Icaro:
ci manca riprendere il volo.

Delfini



Quieti nell’attesa
carezze di rena sulle squame
ghirigori di brillanti sorrisi
fughe e rincorse
risa bagnate d’azzurro.

Poi ecco la brezza che sale
“amore dammi la pinna
in volo saremo abbracciati”
l’onda s’accuccia
tende muscoli di vento
gonfia vene di schiuma

il sole ci esplode rotondo
siamo in alto
più in alto del cielo più alto
noi sfidiamo le leggi
della natura che ci ingabbia
siamo ali di eterna primavera.

26.11.19

In paese tra sogno e realtà

                                                 La città nel sec. XI con la posizione del Castello


In questo articolo pubblicato qualche settimana dopo la sua morte, Remigio Ferretti ci invita ad una passeggiata che unisce utile e dilettevole nel centro storico, mai immaginando che quest'atmosfera di pace idilliaca si sarebbe, di lì a pochi anni,  persa nel turbinio della "movida". Mie le note in calce. 

Monopoli, anni 30: il caffè Napoli, fondato nella seconda metà dell'’800 da una famiglia di pasticceri partenopei (il che spiega la bontà dei suoi famosi babà e spumoni), era sin d'allora un angolino grazioso e privilegiato, a riparo dal sole estivo e dai venti del nord. 
Inserito nel prospetto della casa comunale (un tempo convento francescano[1]) ancor oggi è nobilitato verso ovest, dalla superstite parete cinquecentesca della Chiesa, appunto dedicata al Santo d'Assisi. 
Al suo interno, a mattino inoltrato, si faceva la “politica”, la sera, al discreto riverbero degli “abat-jours” multicolori (che avevano avuto il loro momento di gloria e di splendore qualche anno prima, sullo “chalet” della pro-Monopoli), le signore imbellettate, di antico e recente censo, sfoderavano cappelli a larghe tese, sorrisi e gioielli. 
Monopoli, anni 30: è bello riandare alle notturne escursioni estive nel centro storico o, come si dice con espressione più “nostra”, nel “paese vecchio”, magari al chiarore della luna, tra “case palazzate” e antiche chiesette abbandonate, per vie strette ed afose, ora, ahimè, profanate dall'asfalto. 
Qui l'aria è immobile, come di vetro (meno che nella unica e sola “stretta del vento”, lungo il fianco di Palazzo Palmieri, l'imponente edificio settecentesco, di sapore vanvitelliano). 
Era tempo di serenate (chitarra, magari una di quelle di Garganese[2], famose nel mondo, mandolino e una voce calda e innamorata), tra persiane socchiuse e improvvisi squarci di cielo e di mare. 
Ma la passeggiata classica era quella lungo via Barbacana-via Comes, già via del Castello, che ancor oggi collega la Cattedrale, centro della vita spirituale della Comunità, con la fortezza di Carlo V, simbolo del potere civile e militare spagnolo e borbonico. 
Può dirsi, scimmiottando Marotta[3], che essa sia una specie di “Spaccamonopoli”, una lunga ferita nel ventre della città, gravido di antichi umori e suggestive sensazioni. 
La parola “Barbacana”, è certo un toponimo, ma non riguarda alcuna famiglia patrizia dei secoli passati. “Barbacana” è parola che ha facile sito nei vocabolari di lingua italiana e significa, in particolare, qualsiasi costruzione che faccia da supporto ad antiche mura o porte di città[4]
Ora la palla passa ai nostri lettori archeologi perchè precisino gli eventuali rapporti tra il nome “Barbacana”, le prime mura della Monopoli del 1000 e un antico Castello (http://altairquattro.blogspot.com/2013/04/1414-monopoli-si-ribella.html) che sorgeva nel punto più alto della città vecchia (dove ora trovasi il Palazzo Vescovile), incendiato e distrutto a furor di popolo nel XV secolo e la relativa porta chiamata, appunto “Porta Castri”[5]
Monopoli, anni 30: realtà e sogno, memoria e disinganno, l'eterna altalena dell'uomo, che dà senso doloroso e pregnante alla sua vita e al suo destino. 

“Dilectus” del 15/6/1991. 

[1] La costruzione originaria della Chiesa di S. Francesco d’Assisi ed annesso Convento avvenne nel 1275 come risulta da un documento dell’Archivio di Stato di Napoli citato dall’Olivieri (“I Vescovi di Monopoli”). La sua posizione era poco fuori le mura a nord-ovest dominante la zona delle Fontanelle-Porto Aspero. L’odierno complesso è stato edificato nel 1531 su disposizioni di Carlo V che, dopo le vicende belliche degli anni precedenti con i veneziani, aveva dato disposizione affinchè tutti i “monasteri, casini e torri” venissero riportati entro le mura, per ragioni di sicurezza. Una importante ristrutturazione avvenne nel 1740 sotto la direzione dell’architetto Michele Colangiuli di Acquaviva. Nel 1825 il primo piano del Palazzo Rendella venne adibito a sede dell’Amministrazione Comunale; dal 1841 iniziò una coabitazione con la sede del Teatro Rendella che si prolungò fino al 1885 quando fu ristrutturato il convento di S. Francesco su progetto dell.ing. Alvise Collavitti, che ospitò il nuovo Municipio. 

[2] Rinomata famiglia di artigiani di fine ‘800, Vitantonio Vito e Antonio, specializzati nella creazione di “terzine”, cioè chitarre accordate una terza minore sopra, il che vuol dire avere una tessitura più acuta e squillante che diventa complementare per esempio con un'altra chitarra in duo, o nell'ambito della musica da camera, o ancora in quello di un'orchestra, dove risalta con un suono brillante, ironico, pungente. (Paolo Pugliese). 

[3] Giuseppe Marotta (1902-1963), scrittore napoletano esponente del neo-realismo, Si trasferì a Milano nel 1925, dove si dedicò al giornalismo. E’ noto per i suoi racconti, specie d’ambiente napoletano, intessuti di umorismo, di fine osservazione dei fatti e dei caratteri, di un'abbondante ma non corriva vena sentimentale. Collaborò a diversi giornali (tra i quali il “Corriere della Sera”), compose varie sceneggiature, soggetti cinematografici e testi teatrali. “L'oro di Napoli” a cui si fa riferimento nel testo, è stato pubblicato per la prima volta nel 1947, e costituì l’ispirazione per l'omonimo film di Vittorio De Sica. Una serie di racconti, intitolati “Spaccanapoli”, è stata pubblicata sempre nel 1947 dallo scrittore Domenico Rea (1921-1995). 
[4] Il barbacane (o barbacana) è una struttura difensiva medioevale che serviva come sostegno al muro di cinta. Tale fortificazione era spesso solo un terrapieno addossato alle mura in vicinanza delle zone più vulnerabili di un castello o di una casa forte. Fr. barbacane; prov. e sp. barbacana; port. barbacào: dall'ang. Sass. BARGE-KENNING che ha identico significato e trova spiegazione nel m.a.ted. BERGEN coprire, porre al sicuro (ond'anche l'a. nord franco BERG-FRID torre di guardia) e KENNING vista da KEN scorgere, vedere (ted. KENNEN conoscere): propr. luogo difeso con vedette. Il Devic però accenna all'arab. BARBAKH chiavica, ed anche galleria che serve di bastione a una porta, a un valico, che abbinato col pers. KHANEH casa (quando, come ritiene lo stesso Devic il secondo elemento, CANE., non sia mera desinenza) avrebbe dato la voce Barbacane. Il Wedgwood finalmente propone il pers. BALA-KHANECH (onde si trae anche la voce Balcone) cioè stanza sull'alto della casa a scopo di guardia. In origine col nome di Barbacane si designarono certe piccole aperture verticali nei muri di un castello e di una fortezza per potere tirare al coperto sul nemico (Littré); indi il Parapetto o Contrafforte con le dette aperture o feritoie, che nei tempi passati si costruiva per difesa avanti alle porte o al muro principale di una fortezza: (come attesta il Du Cange): rna negli antichi scrittori di cose militari è usato ad indicare anche diverse altre opere di fortificazione. Generalmente è quel rinforzo che si fa in forma di scarpa nella parte inferiore di un muro per maggior sicurezza o per sostegno. 
[5] Anche qui la denominazione della porta, accanto al castello, richiama la presenza di avamposti militari.

20.11.19

L’antifascismo di una “tranquilla” Monopoli Anno 1933



La memoria è un valore da preservare caramente. In particolar modo quando attiene ad episodi che fanno parte della storia di un'epoca che ha spazzato via una dittatura ed ha dato alla luce il nostro Stato democratico. La memoria è tutta importante: quella degli Stati e quella dei piccoli paesi. Remigio Ferretti ci racconta un interessante squarcio di vita cittadina. Mie le note in calce.

Monopoli è, per antica tradizione, una “città tranquilla” ché, per vari motivi, le sono estranee gravi, accese tensioni sociali e, ancor più, certe pagine di estrema violenza che hanno caratterizzato la storia, antica e recente, di altre città e paesi d'Italia. 
Riflettendo su codesta “tranquillità”, vien di pensare, ovviamente, all'indole, al carattere, alla tendenza al “privato” della nostra gente; anzi, si è tentati di cogliere, in alcuni suoi comportamenti, un senso di pigrizia o abulia, forse giunto sulle ali del vento tiepido della non molto lontana Sibari. Ma che si tratti invece di tolleranza, di pazienza, di equilibrio, tipica “misura” della migliore gente del Sud? 
E però più logico riconoscerne i motivi nelle condizioni economiche della cittadina, soddisfacenti, in relazione ad altri centri e zone della Regione, anche per la situazione geo-climatica di cui gode: la sua economia, pur risentendo dei limiti e condizionamenti di natura generale, variamente articolata e sorretta da crescente spirito di iniziativa, non patisce di forte “depressione” ed è immune, per fortuna, come nel passato, da veri e propri “traumi sociali” o duri “scontri di classe”. 
Persino durante il fascismo, avversato da pochi cittadini, coraggiosi e coerenti, certo espressione di un più largo e sommerso dissenso popolare, non si verificarono, ai soprusi dei primi “squadristi” ai fermi arbitrari e, successivamente, ai processi, alle condanne e alla detenzione di alcuni antifascisti, reazioni massicce o di estrema gravità. 
I primi seguaci del movimento fascista a Monopoli furono una trentina di giovani, di modesta estrazione sociale, quasi tutti senza fissa occupazione, desiderosi di un “cambiamento”, cui si aggiunsero alcuni reduci della guerra '15-‘18. Ad organizzarli pare sia stato un uomo venuto dal nord (forse livornese), impiegato presso la locale Società Italo-Americana per il Petrolio[1] tale Spartaco Conti; la prima sede mi dicono sia stata in via Mazzini. Questo gruppo partecipò ad alcune “spedizioni punitive” in città e nei paesi vicini, nonché alla “marcia su Roma” anche se giunse solo a San Severo, perchè ivi sorpreso dal noto epilogo “romano” della “rivoluzione”. La quantità (e qualità) degli adepti migliorò con l'adesione al fascismo dei “nazionalisti” di Federzoni[2]. Dopo l'eccidio di Matteotti, il fascismo, proprio mentre diventava “regime”, si andò imborghesendo e generalizzando, un pò per paura (nel '27 ci furono alcuni processi e condanne di noti antifascisti) un pò per necessità (obbligo della tessera per gli impiegati del pubblico impiego). Mentre alcuni “spavaldi” vivacchiavano ai margini del “partito unico”, compiendo a volte abusi, una “elite” (professionisti, industriali, benestanti, anche culturalmente dotati) ne rappresentava l'aspetto più civile, pulito e accattivante. Il fascismo in verità, nella ridente cittadina adriatica, non ebbe, come in altre zone (ad esempio in quelle, non a caso “calde”, della Murgia) una matrice “agraria”. 
Negli anni successivi alla grande crisi del '29, in particolare nel biennio 1932-33, si fece sentire anche a Monopoli la nota depressione economica che, dopo l'America, aveva colpito l'Europa e l'Italia: pesante era la disoccupazione, assai diffuso lo scontento. I gerarchi locali, divisi tra loro per questioni di potere, non riuscivano a realizzare un indispensabile piano di lavori pubblici, che desse aiuto e sollievo ad imprese e maestranze. Ed ecco che, in tale situazione di incertezza e disagio della classe dominante, un Prefetto coraggioso[3] nomina Commissario al Comune un avvocato di Monopoli, Giacomo Caracciolo[4], di ottima famiglia, onesto ed austero, ma tutt'altro che gradito agli uomini del regime, anzi, si andava sussurrando, vicino ai circoli liberal-massonici. Egli, insediatosi al Palazzo di Città, lavorando sodo, avvia importanti opere di pubblico interesse, con grande soddisfazione della cittadinanza. E’ vero che parecchie di esse sono state predisposte dal Podestà che lo ha preceduto, ma la gente, si sa, crede in ciò che vede: capannelli di cittadini si formano, per assistere ai lavori sulle banchine del porto o a quelli della pavimentazione, con mattonelle d'asfalto, delle strade intorno al “borgo” e dello “stradone”.[5]
Ma i gerarchi non se ne stanno inoperosi: non solo premono “in alto loco” per sbarazzarsi dell'incomodo Commissario Prefettizio, che rischia di compromettere il “prestigio del regime”, ma, se non inventano, è presumibile che incoraggino una certa “voce” secondo cui il discusso avvocato porterebbe “iella”.
L'operazione dei “capi” finisce con l'aver successo. Si sparge, un bel giorno del '33, in tutta Monopoli, la notizia che il Commissario Caracciolo è stato “sollevato dall'incarico”. A questo punto accade un fatto nuovo e straordinario: la popolazione si muove, si agita, organizza fitte e rumorose manifestazioni, scende compatta in piazza. La gente, soprattutto quella del vecchio abitato, fa calca in Piazza Plebiscito, minaccia di occupare il Municipio. L'ordine pubblico è turbato, le autorità si allarmano e chiedono rinforzi, che presto arrivano. C'è qualche tafferuglio, la polizia opera qualche fermo. L'idrante (quello del Comune che, d'estate, serve ad innaffiare le vie cittadine) fa il resto, spazzando via le ultime resistenze. I giochi sono fatti: il regime ha vinto, soffocando l'unico sussulto antifascista di Monopoli, “città tranquilla”.

“Puglia” del 27/7/1983.

[1] Il 4 agosto 1938 è podestà di Monopoli il dott. Alfredo Masulli, dirigente dello stabilimento divenuto nel frattempo Esso Standard. (Stefano Carbonara).
[2] Luigi Federzoni (1878-1967) è stato un uomo politico di discendenza nobile; nel 1900 si laureò in lettere all'Università di Bologna con Giosuè Carducci, conseguendo successivamente una laurea in giurisprudenza. Fu uno dei principali collaboratori di Benito Mussolini; nel 1910 fondò con Enrico Corradini l'Associazione Nazionalista Italiana nel cui ambito sostenne il gruppo de “L'idea nazionale”. Essa rifluì nel 1923 nel Partito Nazionale Fascista. Più volte Ministro delle Colonie, fu Presidente del Senato dal 1929 al 1939. Dal 1938 al 1943 fu presidente dell'Istituto Treccani. Contrario alle leggi razziali votò a favore di Grandi nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943.
[3]Verosimilmente si tratta del Dott. Enrico Cavalieri (Napoli, 1883-1949), Gran Cordone dell’Ordine di Skanderbeg, Ufficiale dell’Ordine Mauriziano, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Immesso in carriera nel 1908 per pubblico concorso, proveniente dai ruoli delle Ferrovie dello Stato. Prefetto di Bari dal luglio 1929 ad aprile 1932, gli subentrò il dott. Ernesto Perez, palermitano, che tenne la carica fino al settembre 1934. 
[4] Dall’Albo degli Avvocati Cassazionisti leggiamo Caracciolo Giacomo, nato a Viterbo il 24/1/1886 ed iscritto in data 28/3/1925 presso il foro di Bari. 
[5] Venne anche ampliato l’Ospedale San Giacomo.

7.11.19

Remigio Ferretti: Lettera aperta a Giacomo Campanelli


Il prof. Giacomo Campanelli (1925-2006) è stato scrittore e protagonista della vita politica cittadina militando nella sinistra socialista. Egli ha condiviso con Remigio Ferretti l’insegnamento al Liceo Classico di Monopoli: Storia dell’Arte il primo, Lettere il secondo. Fu, quello degli anni sessanta e settanta, il periodo aureo del Liceo Classico, nel quale, inizialmente sotto la sapiente ed indimenticata guida del preside Gregorio Munno, ci fu la fortunata coincidenza di docenti di spessore ineguagliabile, come lo furono anche il prof. Menga di Storia e Filosofia e il prof. Riccardi di Greco. Tra Remigio Ferretti e Giacomo Campanelli avvenne quel “miracolo” possibile solo tra intelligenze e sensibilità superiori alla norma: due persone con esperienze, valori, idealità diverse avvertirono il loro “idem sentire”, l’amore per le loro radici, per la “monopolitanità”, proiettata nel cosmo dell’estasi artistica e della “licenza” creativa. Remigio e Giacomo: un unico grande poema da scrivere tra le stelle.

Pubblico l'affettuosa lettera che Remigio Ferretti dedicò all'amico Giacomo in occasione della pubblicazione del suo saggio "La lingua il dialetto e la letteratura" con le mie note.

Caro Giacomo, a differenza del Santo di cui porto il nome, S. Remigio[1], protettore di Parigi, io non posso fare miracoli (chè, altrimenti, ne vedresti delle belle); quindi non io ti ho salvato dal "naufragio degli intellettuali" della nostra città[2], come tu amabilmente affermi, ma tu stesso lo hai fatto, col tuo intelletto, con la tua cultura e col tuo “ésprit”, che ti fa davvero singolare, qualità tutte che, felicemente versate nel tuo libro "La lingua, il dialetto e la Letteratura"[3], lo fanno prezioso e raro. 
L'aggettivo che più spesso saliva alle mie labbra, mentre andavo leggendo e gustando il tuo lavoro, una specie di "epopea popolare" (ma "popolare" è pure la Chanson de Roland[4] e il Cid[5]), era: Delizioso! Il libro, insomma, è una delizia o, come diresti tu, "un delizio". 
Certo, sono ben noti i forzati limiti in terna di comprensione (e di divulgazione) di opere che trattano di storia patria e di dialetto. Ma la tua, non solo ferma nel tempo e nello spazio, per noi e per chi ci seguirà, tutto un mondo, quello della Monopoli del cinquantennio a cavallo del secolo, ma soprattutto scopre ed esalta le forme e il senso di una civiltà, la nostra, per nulla subalterna, antica e pur viva, sapida di sale, quello della ancestrale saggezza greca che lasciò cadere nelle nostre "scuole" e nelle nostre vie Platone, viaggiando per le nostre piaghe e quello ridanciano e caustico dì Plauto. Di tutto ciò tu offri consolante testimonianza, muovendoti, grazie al tuo “lungo studio e grande amore" con avveduta disinvoltura nei meandri dell'"isola" della nostra lingua indigena. 
Chi ti conosce, leggendo il tuo libro, non si sorprende certo della tua ottima conoscenza della letteratura italiana, latina e straniera, né della sicura perizia nel campo della musica e dell'arte. E'soprattutto incantato dal clima in cui tu cali personaggi ed eventi, un clima soffuso di levità e di grazia. La realtà (ma non solo quella cittadina), anche se amara, si riscatta e si illumina sul piano dell'arte per riverberi di fine, saputa ironia, che non risparmia neppure (tanto è proprio delle intelligenze mature) colui che quella realtà vive e fabulosamente racconta.
Le citazioni, che in molti scrittori (e oratori) sono spesso aride figlie dell'erudizione, sono da te invece usate con rara spontaneità, anzi, si adattano “naturaliter” all'elemento che ne porge l'occasione, come veli di serica trasparenza, che, leggermente rivestendolo, ne aumentano dimensione, senso e valore. 
Questo tuo andare oltre il "segno" dialettale e spaziare con voli dosati e pertinenti verso lidi più aperti e conosciuti, ti concilia un pubblico vasto e qualificato che vive, legge e giudica “extra moenia”: cosa non frequente per autori e opere di interesse locale, date anche le ovvie difficoltà fonico-grafiche del dialetto che, per una più ampia fruizione, deve far ricorso allo speciale "codice" universale. 
Che dire dell'interessante accostamento tra il dialetto di Monopoli e la lingua di Mistral[6]? O della sorprendente affinità tra le "battute" del Comico "della macina"[7] e quelle dei monopolitani "veraci", se ancora ve ne sono? 
Il tuo libro, caro Giacomo, va certo riletto e meditato. Spero anche di avere l'opportunità di parlarne insieme. Voglio ora aggiungere, a mo' di conclusione, che l'ultimo tuo capitolo è un vero gioiello: dulcis in fundo. 
La scena da te disegnata, pur ricca di figure e di fatti autentici, respira un'aria stupefatta e quasi surreale, come solo accade quando il cuore di chi scrive, rimosse ormai le spigolose acrimonie di un tempo, colmo di esperienze e ricordi che la "pietas" carezza e smorza, canta alfine con ritmo misurato e commosso: è il canto del poeta, fatto provetto dagli anni e baciato in fronte dalla Musa. 

Tuo Remigio Ferretti 

“L’Informatore” 31/1/1987 

[1] Remigio di Reims (440ca. - 533ca.) fu vescovo cattolico dell'omonima città in Francia. Viene venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Nato probabilmente a Laon attorno all'anno 440, sarebbe stato eletto vescovo di Reims all'età di 22 anni. Riuscì a convertire il re merovingio dei Franchi, Clodoveo I, alla religione cristiana, con l'aiuto della sposa di quest'ultimo, Clotilde. Il re fu battezzato il 25 dicembre 496 nella cattadrale di Reims. La leggenda vuole che lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, portasse l'olio consacrato al vescovo: la cattedrale di Reims divenne quindi in seguito il luogo privilegiato per la consacrazione dei re di Francia successivi. Remigio morì il 13 gennaio dell'anno 532 (secondo altre fonti 533). Le sue reliquie si trovano nella basilica di Saint Remi a Reims
[2] Campanelli scrisse nella dedica del volume: “A Remigio Ferretti per grazia ricevuta. Per essere stato tratto in salvo, giusto un anno fa, da un tremendo naufragio. Con la speranza che non abbia a ripensarci, dopo questo libro, per gettarmi di nuovo in mare.” 
[3] Schena Editore, 1986. 
[4] La Canzone di Rolando o Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell'XI secolo è una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio considerata tra le più belle opere della letteratura epica francese. La Chanson fu scritta in 4002 decasillabi raggruppati in lasse (strofe dalla lunghezza variabile) da un autore ignoto (forse Turoldo, che si nomina negli ultimi versi e probabilmente ne fu solo il compilatore) e canta la Battaglia di Roncisvalle, avvenuta il 15 agosto 778, quando la retroguardia di Carlomagno, comandata dal paladino Rolando, prefetto della Marca di Bretagna e dei suoi paladini, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai baschi probabilmente alleati dei saraceni. 
[5] Il Poema del mio Cid, ovvero il Cantar de mio Cid, è un poema epico formato da 3733 versi di autore anonimo risalente al 1140 circa considerato il primo documento letterario spagnolo. In esso si narrano le imprese eroiche di Rodrigo Díaz de Bivar, il Cid Campeador (dall'arabo sayyd o sìd - signore) eroe leggendario delle lotte contro gli arabi, morto nel 1099.
[6] Frédéric Mistral (1830-1914), poeta francese, fondatore nel 1854, insieme con altri scrittori, dell'associazione denominata Félibrige, nata per promuovere l'uso della lingua provenzale moderna in letteratura. 
[7] Tito Maccio Plauto (240 a.C. circa – 184 a.C.) è stato un drammaturgo latino. Secondo lo storiografo Varrone, Plauto era un attore girovago; investiti i guadagni della sua attività teatrale in rischiose operazioni commerciali, perse tutto e fu costretto a lavorare alla macina di un mulino.