27.4.13

25 aprile: la storia non si cambia




Il tentativo di trascinare la giornata del 25 aprile nel novero delle commemorazioni di una non precisata “pacificazione” nazionale è impresa sia improponibile da un punto di vista storico, sia impresentabile da un punto di vista etico-politico. Chi è schierato in questo filone nostalgico-revisionista vuole semplicemente sfruttare il trascorrere inesorabile del tempo come paravento per coprire colpe e vergogne che sono e rimarranno, purtroppo per loro, indelebili. Il 25 aprile del 1945 i partigiani non sono scesi dalle montagne per stringersi la mano con gli ex gerarchi o per dar loro una pacca sulle spalle incoraggiandoli: “Coraggio la prossima volta vi andrà meglio!”. Il 25 aprile del 1945 si è posta la parola fine ad una guerra di popolo in cui erano ben individuate le figure dei liberatori e degli oppressori, in cui erano ben chiare finalità e intenti di entrambe le parti, in cui se fosse prevalsa la difesa della dittatura, nessuno dell’altro schieramento avrebbe avuto scampo. Il 25 aprile del 1945 ha segnato il tracollo di un regime becero, violento, subdolo ed infame. E di quel regime facevano parte personalità variegate, intellettuali e analfabeti, codardi e violenti, razzisti e trasformisti. Di quel regime faceva parte Araldo di Crollalanza. La nostra neo presidente della Camera Laura Boldrini ci ha ricordato che non esiste un fascismo “buono” ed uno “cattivo”. Esiste solo l’espressione più volgare e ignobile di occupazione del potere che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia. E Araldo di Crollalanza ne era protagonista autorevole e quindi ancora più colpevole di altri. A Tonio Rossani ed a quanti come lui sono alla spasmodica ricerca di una giornata dedicata alla pacificazione, ricordo che il 2 giugno è la festa della Repubblica, nata dalla Resistenza, dopo che venne fatta chiarezza in modo inequivocabile sui ruoli ricoperti tra coloro che avevano scelto le armi della dittatura o la forza della democrazia.

23.4.13

1414: Monopoli si ribella

In Italia quando si parla di volani per la crescita, il pensiero vola immancabilmente al cemento. Sembra l’unico moltiplicatore che dia garanzie e che abbia due grossi vantaggi per la classe politica: mantenere quote di potere autoreferenziale, e non impegnare molto i neuroni in faticose elucubrazioni, giacché, organizzare e gestire appalti è semplice. Altro è pianificare controlli e verifiche. I dati dell'Autorità della vigilanza sui contratti pubblici relativi al 2011 ci dicono che gli appalti in Italia valgono l’8,1% del PIL. Di questi quelli che superano i 150.000 euro sono l’86%. Le cosiddette “grandi opere”. A fronte di ciò Eurostat ci dice che l'Italia è all'ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell'Ue a 27) e al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione: l'8,5% a fronte del 10,9%. Leggevo questi dati “in nuce” a delle riflessioni sulla scoperta del torrione cinquecentesco, avvenuta nei giorni scorsi in seguito ai lavori di rifacimento della piazza XX Settembre. Mi chiedevo, ingenuamente forse, come mai non si possa capovolgere il corso degli eventi. La rilevante scoperta archeologica è avvenuta “per caso” in seguito ad un progetto di sistemazione di un sito pubblico. Ma non si potrebbe partire dall’assunto che cercare di riportare alla luce preziosi reperti del nostro passato possa essere una priorità? E indirizzare conseguentemente risorse che vadano ad investire in quella “posta” di PIL tanto trascurata? L’effetto economico moltiplicativo derivante da un’azione del genere sulla nostra città, dalla vocazione turistica (come amiamo definirla) sarebbe rilevante e non confinerebbe il risultato nei ristretti ambiti estivi, come finora ciecamente si è operato. La moderna archeologia utilizza sistemi di sondaggio preventivo (“carotaggio”) che permette di stratigrafare il terreno consigliandone o meno lo scavo. Immaginiamo come sarebbe suggestivo riportare alla luce i resti della principale Porta Nuova della città, probabilmente giacenti sotto largo Plebiscito. Oppure ritrovare nei pressi di Largo Fontanelle segni della presenza dell’antico monastero domenicano. O rivivere le epiche vicende svoltesi al cospetto delle guglie dell’antico Castello/Acropoli, dove qualche rudere certamente riposa sotto largo Vescovado.




La storia dell’antico castello della città affonda le sue radici nella notte dei tempi. Le vicende che ne hanno caratterizzato l’esistenza hanno un sapore vagamente leggendario. A quel tempo due giganti si fronteggiavano e si alternavano al potere nel teatro tattico-strategico del Mediterraneo: Bisanzio e il Normanno. Per tutti gli storici la matrice normanna di questo fortilizio è fuori discussione. Esattamente si trovava “all’incontro del giardino del palazzo vescovile e le case del Monte Splues, e girava per la strada, per cui si va a S.Domenico” (Cronaca Indelliana). Tuttavia, se indubbiamente, la dominazione normanna iniziata nel 1043, costrinse a trasformare l’architettura difensiva della città, insabbiando l’antico porto-golfo, e rinforzando gli avamposti rivolti verso l’interno, la presenza di un sito “attrezzato” nella zona è già segnalata dall’Indelli, nella sua cronaca, nel 968, quando, descrivendo brevemente le fortificazioni della città (le antiche mura terminavano prima dell’antica chiesetta di S. Caterina “extra moenia”) elenca, tra le altre, “un’Acropoli ove adesso è l’Episcopio”. Qualche indizio dell’esistenza di una qualche opera difensiva pre-normanna si riscontrerebbe anche nel contesto delle vicende che portarono Costante II a scacciare i Longobardi nel 663, dove alcune cronache riferiscono che “...prese i castelli e di paesi della marina Oria, Celia, Conversano, Monopoli, Bari”. Nel campo solo delle ipotesi sconfina quindi un’origine addirittura Longobarda del “castrum”, dato che nel 659 il re Grimoaldo, dovendo effettuare un breve soggiorno a Monopoli, “vi fece costruire varie chiese” (Indelli). Domenico Capitanio (“Il sistema difensivo e la città”, Monopoli nel suo passato, V) riportando le parole dell’Abate Corona lo descrive come “di dimensioni spropositate rispetto alla città, come un capo in un corpo nano, fatto di grossissime pietre, sorgeva su una bella piazza…nel luogo più alto…pareva fusse posto sulle spalle della città…da sopra poi si scopriva tutta la campagna, in modo che la si poteva tenere sempre netta”). Solo queste “grossissime pietre”, non supportate però da alcun ritrovamento, potrebbero far supporre la sovrapposizione di strutture medievali ad un origine primieramente classica. 




L’antico castello fu distrutto nel 1414 (a colpi di artiglieria, ci informa ancora Capitanio). Il Saponaro (V. Saponaro, “Monopoli tra storia e immagini, dalle origini ai giorni nostri”, Fasano 1993) scrive: “I cittadini di Monopoli si ribellarono al castellano, per soprusi e angherie sofferte e assaltarono il castello, radendolo quasi al suolo e uccidendo il castellano”. Più specificamente, le “angherie” a cui si allude erano favoritismi sulle gabelle e concussioni praticate dagli Ufficiali Regi verso coloro che potevano “ungerli” (Nihil sub sole novi…). Il Nardelli invece attribuisce le cause alla prepotenza del Castellano quale custode delle chiavi delle Porte, nell’aprirle molto tardi, anche nella stagione invernale. Fu poi inviata una delegazione alla sovrana Giovanna II per spiegare i motivi del gesto, che non erano attribuibili a ribellione, ma a resistenza contro i soprusi, e la regina perdonò e confermò i privilegi già concessi dal predecessore Ladislao. Insomma, i cittadini di Monopoli sacrificarono la loro “perla” difensiva pur di sottrarsi con orgoglio alle prevaricazioni del “potente” dominatore di turno. Altri tempi, altre coscienze.

20.4.13

Monopoli: storia di un autentico Barone

Scrutando nel passato della nostra città scoviamo figure emerite che si sono distinte per dirittura morale e coscienza civile. Nel Risorgimento queste qualità spesso avevano modo di coniugarsi con il patriottismo, che, in quel tempo, era forza propulsiva della tensione verso la libertà e la giustizia sociale. In questo post propongo la storia del Barone Tommaso Ghezzi Petraroli, rivisitata da Remigio Ferretti in un articolo pubblicato su "Puglia" del marzo 1984, corredato da mie note.


Il barone patriota monopolitano

Il Barone[1] Tommaso Ghezzi-Petraroli è certo una delle figure più fulgide del Risorgimento meridionale. Nato a Monopoli il 21/1/1803 da antica e nobile famiglia di origine spagnola, si mise subito in luce per le sue doti di ricca umanità e viva intelligenza, diventando, appena ventitreenne, Sindaco[2] della città natia, poi, Consigliere provinciale e Deputato provinciale alle Opere Pubbliche. Affascinato dagli alti ideali di libertà, di indipendenza, di Patria[3], congiurò, con altri generosi spiriti di Puglia e Basilicata contro il regime borbonico e fu tra i capi dei moti del 1848. Ma quando trionfò la reazione, egli pagò duramente lo scotto dei suoi trascorsi patriottici[4], specie in relazione agli storici eventi della Dieta di Monopoli[5] e del Memorandum di Potenza[6]. Processato e condannato a 19 anni di carcere, ne scontò cinque, terribili, nei bagni penali di Procida e di Nisida. Durante la spietata prigionia rifulse il mirabile comportamento della sua consorte, donna Maria Concetta Manfredi[7], che per poter visitare frequentemente l'adorato marito, si privò di oro, gioielli e denari, che elargiva agli esosi suoi carcerieri. Graziato nel settembre del 1855, tornò a casa, distrutto da un male inesorabile. Vi morì solo tre anni dopo il 24 maggio 1858. 
Mentre le gesta e le sventure del patriota monopolitano sono note ai più, per merito di quanti si dedicarono allo studio del Risorgimento meridionale, primo fra tutti il Lucarelli[8], meno note sono le circostanze della sua formazione, della sua attività amministrativa, della sua cultura.
Non sappiamo, ad esempio, dove avesse studiato. Certamente dapprima a Monopoli, poi forse a Napoli; sappiamo però che era fecondo e focoso oratore e, per quanto ci è dato di leggere, scritto di suo pugno, penna erudita e brillante. Ne fanno fede le pagine del diario relativo agli anni di carcere, ed alcune lettere destinate ad amici da Panfilo Indelli nel prezioso libro: “Pagine dimenticate” e la commovente iscrizione, da lui dettata nel 1841 che campeggia sul portale del Cimitero di Monopoli.[9]
Ma la misura della sua vasta e profonda cultura umanistica è offerta da una sua epistola, dal Ghezzi scritta nel 1843[10] e dedicata ad un suo giovane concittadino e parente, Sante Martinelli, ma pubblicata solo nel 1966 su “La Stella di Monopoli” dal rev. Don Cosimo Tartarelli[11], benemerito cultore di storia patria.
Lo scritto prende lo spunto dalla scoperta di alcuni mosaici in una villa a circa un miglio di distanza dal centro cittadino, verso ponente, di proprietà di tal Matteo Siena[12]; ma, in realtà, anche al di là del fine didattico a pro del Martinelli, allora poco più che ventenne, è un piccolo e prezioso saggio sulle origini di Monopoli e gli avvenimenti più importanti della sua storia.
Lo stile, di evidente sapore ottocentesco, anzi con cadenze e costrutti addirittura tardo-settecenteschi, è parecchio decoroso, anche in virtù di ampie volute di gusto classico, raramente vivacizzato da qualche “fiorentinismo” e solecismo[13].
Ma quel che più induce a sorpresa e ammirazione è la sicura padronanza che il Ghezzi mostra in genere, del mondo antico e in particolare della latinità. Il Barone, infatti, rivela una cultura vasta e ricca, certo “umanistica” non però in senso stretto, ché essa spazia dalla archeologia al diritto, dalla filosofia alla storia, dalla Bibbia a Dante. Gli è familiare Cicerone (in particolare quello del “De legibus”) come attestano lo stesso “cursus” della sua prosa, ma anche testuali citazioni di passi del grande Arpinate. Egli non solo conosce i maggiori poeti latini, quali Orazio e Ovidio (quello delle Metamorfosi), ma anche i minori, quali Valerio Massimo[14] e persino l'oscuro Flegonte di Tralles[15], autore di una Storia delle Olimpiadi.
A parte qualche svista e qualche idiotismo, l'epistola del Ghezzi è una interessante spia per chi voglia meglio approfondire la sua inquieta e forte personalità[16].

Remigio Ferretti.

[1] Il titolo nobiliare gli pervenne dal padre Gaspare che lo aveva ricevuto dal fratello Pietro. Il nonno Tommaso Nicola (1703-1751) era erede diretto di Pietro Francesco Ghezzi (o La Ghezza), capitano d’artiglieria, che, contraendo matrimonio con Laura Petrarolo (o Petraroli) di Ostuni, ultima del ramo baronale della casata, trasmise ai suoi discendenti il titolo e il feudo. (Notizie da “Monopoli Illustre” di Michele Pirrelli).
[2] Dal 1826 al 1831.
[3] Tommaso Ghezzi assistè da bambino alla visita che Gioacchino Murat compì a Monopoli il 24 aprile del 1813 e ne fu sicuramente affascinato. Nel 1822 fece parte della delegazione che incontrò i patrioti greci venuti a chiedere aiuti ai liberali in Terra d’Otranto. Fece parte della Giovane Italia, viaggiando spesso nella provincia per tenere i contatti con gli altri patrioti ed “attrezzò” il suo villino sito vicino al Convento dei Frati Minori per le riunioni “politiche”.
[4] Egli disperse per la sua attività molta della sua fortuna; dopo la condanna subì poi l’espropriazione di tutti i suoi beni.
[5] Non appena giunta la notizia certa dei tumulti e delle stragi del 14 e 15 a Napoli, inizia a Monopoli la giornata memorabile del 22 maggio 1848 con lo sferragliare di carrozze che portano forestieri al Borgo dove si sono formati crocicchi di curiosi: qualcuno improvvisa brevi comizi (Tommaso Ghezzi parlò sotto lo sventolante vessillo tricolore), alcuni si scambiano cenni d’intesa, i più sono indifferenti, qualcuno disapprova apertamente. Il gruppo dei forestieri e dei cittadini con alla testa il Barone e Don Giuseppe Del Drago si reca al Comune dove il Sindaco Francesco Paolo Martinelli assume un atteggiamento “pilatesco” e la voce grossa la fa il Capitano Don Angelo D’Erchia dall’alto della sua autorità militare, affatto intimorito da alcuni atteggiamenti “spavaldi” nei suoi confronti, soprattutto da parte di “personaggi” ambigui di Ceglie. I patrioti, meravigliati e seccati dalla indifferenza, se non dalla ostilità, manifestata dai rappresentanti delle Istituzioni e che pare contagiare il popolo tutto che li circonda, decidono di ritirarsi a discutere nella locanda dell’Albergo Mylord all’angolo tra Via Polignani e Piazza V.Emanuele, gestito dal Sig. Salvatore Alba. La funzione “strategica” di Monopoli, posta a metà strada tra Lecce e Bari, nonché la “vitalità” patriottica dimostrata negli anni precedenti dai nostri concittadini a partire da Rocco Lentini, aveva ispirato la proposta dell’istituzione nella nostra città di un “governo provvisorio”. Tra i molti partecipanti (“La porta della locanda pareva un formicaio”) alcune “spie” che poi tradirono i patrioti davanti ai giudici borbonici. (Notizie tratte dalla tesi di laurea “La cospirazione monopolitana del ‘48” di Maria Mastronardi).
[6] Il 25 giugno, in Potenza convennero i cospiratori dalla provincia di Bari (monopolitani, il Barone e il sac. Don Carlo De Donato), dal Salento, dalla Capitanata, dal Molise e dalla Basilicata e formularono il solenne “Memorandum delle provincie confederate di Basilicata, Terra d’Otranto, Capitanata e Molise”, nel quale si pronunziarono contro la repressione borbonica e a favore dello Statuto con “facoltà di modificarlo, correggerlo in ciò che vi ha d’imperfetto, e meglio adattarlo al progresso reclamato dall’andamento della Civiltà dei tempi”.
[7] Sposata il 19 dicembre 1821.
[8] Antonio Lucarelli (1874-1952) studioso di Acquaviva delle Fonti, allievo di A. Labriola, uno dei massimi esperti di brigantaggio.
[9] “Tu che questi avelli pietosi a meditare ti conduci, vedi delle umane sollecitudini come poca polvere rimane!”
[10] Venne scritta a metà agosto del 1838 e data alle stampe il 10 luglio del 1843 dopo un “visto” di censura.
[11] Don Cosimo Tartarelli (1906-1987) fu un sacerdote estremamente colto (conosceva diverse lingue classiche, moderne e due lingue orientali), custodiva una ricchissima biblioteca ed era un accanito cultore di storia patria. Uomo tenace e schivo verso qualsiasi tipo di onorificenza, costruì dal nulla, viaggiando spesso all’estero per raccogliere fondi tra gli emigrati, le chiese di Cristo Re, Antonelli e Madonna del Rosario, per anni Arcidiacono della Cattedrale, terminò la sua esistenza come “parroco di campagna”. (Nicola Giordano). 
[12] Furono scoperte, anche monete greche, etrusche e romane. (D. Capitanio, “Monopoli nel suo passato”, vol.5.
[13] Dal lat. Solcecismus, dal gr. Soloikismòs e questo da Sòlojkos, che parla scorrettamente come un abitante di Soloi\lat. Soli, città di Cilicia. Errore contro la purità della lingua o contro la buona sintassi, cosi detto perché gli abitanti di Soli, colonia di Rodi la patria della greca favella, mescolandola in Cilicia, l’avevano corrotta.
[14] Valerio Massimo è uno storico Romano del I secolo. Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia il suo protettore Sesto Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali “Factorum et dictorum memorabilium libri IX”. Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti ripresi da fonti diverse (tra le quali Marco Tullio Cicerone, Tito Livio, Varrone ed altri), suddivisi in 95 categorie.
[15] Paradossografo, vissuto nel I secolo d.c., a Tralles (odierna Aydin in Turchia), “liberto di Adriano Imperatore”, di lui ci è giunta una raccolta di prodigi ed eventi soprannaturali (ha descritto l’eclissi di sole del 24 novembre 29 d.C. a mezzogiorno, accompagnata da un terremoto, particolarmente forte, nella regione contigua della Bitinia) tramandata in un solo codice Palatino. La storia delle Olimpiadi è narrata fino al 140 d.c. Della sua opera si interessò per motivi filologici anche Giacomo Leopardi.
[16] Per tutti si cita il giudizio dato dal can. Manfredi (uno dei “delatori” al processo), alla notizia del suo arresto: “E’ già in gabbia, il leone!”.

5.4.13

Monopoli: il barone e Capitan Fracassa.



Di solito quando enumeriamo le virtù appartenenti ad uno stimato conoscente ci potremmo fermare a cinquanta, sessanta; se volessimo proprio esagerare senza sconfinare nella vanagloria, arriveremmo a novanta. Non ci sogneremmo mai di toccare i “millanta”. Pur tuttavia, anche il nostro suolo natio è frequentato da personaggi che, coniugando riflessivamente il verbo, “si millantano”. Bisogna peraltro riconoscere che il personaggio del millantatore affonda le sue radici nel passato, dai classici letterari a quelli teatrali. Ricordiamo il famoso Pirgopolinice, il “Miles gloriosus” di Plauto, per non citare il quasi contemporaneo filosofo greco Teofrasto che, nei “Caratteri”, fotografò per la prima volta l’archetipo del personaggio. Scorrendo nel tempo, troviamo poi il Calandrino, protagonista di gustosi episodi narrati nel Decameron nei quali è proiettato alla ricerca dell’elitropia, erba donante i poteri dell’invisibilità: una virtù che farebbe comodo a tanti nostri politici, per sfuggire alle congiure della magistratura. La maschera assurge sempre più a trasfigurazioni giullaresche: nella commedia dell’arte e nel romanzo d’appendice viene promosso da soldato a Capitano: Matamaros o Fracassa. Non è dato sapere se di lungo corso o meno. In particolare nel caso del racconto di Théophile Gautier, egli, barone di Sigognac (guarda che combinazione!), esercita le sue doti solo quando riveste il ruolo di Capitano, sul palcoscenico: ha inizio lo sdoppiamento della personalità e si sdogana definitivamente la finzione quale governo del mondo. Facciamo un salto indietro e torniamo all’impero bizantino. Dal palo passiamo alla frasca? No, c’è un filo conduttore. Fino al regno di Eraclio (VII sec.), i titoli nobiliari erano quelli in auge presso i cugini d’occidente. Poi Alessio I Comneno, senza consultare nessun saggio, riformò la materia e istituì nuove scale gerarchiche che resistettero fino alla caduta dell’Impero nel 1453. Quindi ci furono Basileos, Despotes, Sebastokrator, Kaiser, Protosebastos ecc. ecc. Dopo un lungo elenco arriviamo finalmente ad Akrita, il Barone. Quindi, ricapitolando, se oggi qualcuno volesse fregiarsi del titolo di Akrita, dovrebbe vantare (o millantare) un suo avo insigne, vissuto alla corte di Bisanzio fino al 1453. Facilissimo da dimostrare. Basta pagare una società araldica che ricostruisca il proprio albero genealogico, per poi continuare a recitare sul palcoscenico il ruolo di boccaccesco Capitano/Barone.

29.3.13

Monopoli e l'eredità di Egnazia

Qualche giorno fa ho rievocato l'incontro tra egnatini e pediculi, sublime esempio di solidarietà, atto d'amore che ha dato alla luce la città di Monopoli. Questo prodigio auspicherei si potesse replicare sostituendo gli interpreti con menti e risorse che si coalizzino per restituire civiltà e rispetto per l'ambiente, progresso e amministrazione trasparenti e lungimiranti alla nostra città. Oggi propongo uno scritto di Remigio Ferretti, corredato di mie note, che idealmente ci imbarca su una navetta che oltrepassa i confini del tempo atterrando in quei remoti contesti. 

Seduto all'ombra della Chiesa di S. Michele(1), con un rinvio memoriale alla nota sinestesia(2) carducciana, mi perdo nel “divino del pian silenzio verde”(3), contemplando dall'alto la nostra “marina” e spingendomi con lo sguardo lungo l’Adriatico, dalla bianca Monopoli verso le rovine di Egnazia, che, ergendo verso il cielo la sua Acropoli, pare ancora non del tutto doma. 
Dolcemente immerso nell'onda reflua dei ricordi storici e letterari, mi viene in mente un emistichio(4) di Virgilio: a Enea che ansioso chiedeva del suo destino, così risuonò la voce di Apollo: “Antiquam exquirite matrem(5). Infatti, mi par proprio di vedere che Monopoli, avanzando verso sud, sospinga le sue case, i suoi figli, la sua anima verso Egnazia, la sua ideale genitrice. 
Era Egnazia una fiorente città dei Messapi, retta da sovrani saggi e bellicosi (il piú noto è il re Opi), tanto potente da sconfiggere la gloriosa Taranto(6) (471 o 473 a.C.), nel tentativo di opporsi alla fatale grecizzazione della nostra regione e di tutto il Mezzogiorno. 
A circa 7 miglia a nord di Egnazia viveva una piccola comunità di Peuceti (o Pediculi), in maggioranza pescatori, che disponeva di una lunga, profonda e pescosa insenatura, una specie di porto naturale: questo antico centro si chiamava Porto Pedie (o Porto della Giovinezza) e, prima ancora, forse Dyria. 
Certo, i confini tra Peuceti e Messapi erano alquanto labili; per di piú, andando a ritroso nel tempo, sino alla protostoria, è possibile trovare stretti legami tra i due gruppi etnici, risalenti da un'unica stirpe indo-europea, illirico-balcanica. 
Fu così che, quasi spariti i sostrati linguistici originari, imparammo a parlare l'idioma dell'Ellade e a venerarne gli Dei, assimilandone pensiero, arte e costumi. 
E fummo maestri di civiltà: quando i Latini erano ancora pastori o i barbari dominavano le valli dell'Adige e del Po, Aristocle, detto Platone, dalla mente divina e dalle “larghe spalle”, viandante famoso, visitava le nostre contrade, già rischiarate dal genio di Pitagora e di Archita. 
Ma, purtroppo, la tanto celebrata aquila romana, radendo a volo le nostre terre e tutto sconvolgendo, ne distrusse quasi completamente lo stupendo rigoglio. Un pò alla maniera di Ennio, dicemmo: “Noi che fummo Peuceti, Messapi, Greci, ora siamo latini(7)
Mentre si spegneva il sacro fuoco (era metano?) che Orazio vide ardere spontaneamente sugli altari di Egnazia, in Galilea era stato crocifisso un Uomo-Dio, la cui morte cambiò la storia del mondo: anche la Puglia diventò cristiana. 
Estinta la forza di Roma, l'aquila fatale, già volta da Costantino, contro il corso del sole, verso l'Oriente, tornò a volare nel nostro cielo, con penne e grido diversi. E parlammo ancora greco, non piú quello di Omero, la lingua arida e complicata dei curialisti e sdolcinato delle alcove di Costantinopoli. 
I Goti poi, guidati dal fiero Totila, nel tentativo di strappare all'Impero d'Oriente il dominio dell'Italia meridionale, invasero la Puglia e saccheggiarono la bella città messapica, compromettendone per sempre il prestigio e l'opulenza. La gran parte della popolazione si rifugiò nella vicina località di Porto Pedie e così, dalle due comunità, nacque un'unica città, la nostra Monopoli. E come Porto Pedie aveva imparato da Egnazia a venerare “gli Dei falsi e bugiardi”, soprattutto Mercurio, che presiedeva al commercio e ne favoriva i traffici, gli scambi e i profitti, così Monopoli, sconfitta e prostrata Egnazia, trasse occasione per una piú fervida fede cristiana, accogliendone la dignità episcopale e la Croce patriarcale. 
Nei secoli, mentre della città di Messapo non restarono che i ruderi e persino il suo porto si inabissava, Monopoli, sita alla confluenza dell'Appia con la Traiana, cresceva di abitanti e di importanza, grazie anche al suo porto naturale, che i suoi nemici riuscirono purtroppo a insabbiare. Posto di transito e di sosta tra Bari e Brindisi, finì con l'assumere il ruolo di solo e comodo sbocco dì un vasto retroterra. 
Sul filo del tempo edace, eserciti e popoli, di razze o nazioni diverse, calpestarono e dominarono le nostre contrade: Longobardi, Svevi, Angioini, Aragonesi, Ungheresi e, da ultimo, Murat, alfiere della libertà, col suo bianco cavallo e i suoi predoni, per non parlare dei Saraceni e delle loro incursioni e devastazioni. In noi certo qualche traccia è rimasta degli usi e delle lingue di tante genti straniere, ma nella nostra indole, nel nostro carattere, nel nostro dialetto, resiste qualcosa che ci lega alla matrice egnatina e quindi alla civiltà, alla cultura, all’idioma di Atene e di Bisanzio. 
Quando sulla bocca del nostro popolo fioriscono parole come: cèndre, vastèse, pèndeme, trappìte, zóche, chénistre, ci rendiamo conto che in esse, duri a morire, sopravvivono etimi greci, a ricordare e confermare la nostra identità e la nostra storia. 
Quando Monopoli, per antica tradizione, accoglie e abbraccia, con senso di spiccata ospitalità, tutti i forestieri che vi capitino e molti inserisce nel suo tessuto umano e sociale, dando loro affetto e sicurezza, imita e ripete Porto Pedie, che accolse e abbracciò i profughi di Egnazia, a formare una stessa famiglia, una nuova comunità, unica per leggi, riti e civili costumanze. 
Quando, con orgoglio e stupore, ammiriamo i nostri cantieri e laboratori, le opere del nostro lavoro e del nostro ingegno, soprattutto le realizzazioni e i successi dei nostri imprenditori, specie nel settore del commercio, frutto di fiuto e di coraggio, il pensiero corre a quel dio Ermes, a cui i nostri lontani progenitori dedicarono templi, preghiere e devote cerimonie e da cui forse abbiamo tratto una delle nostre due anime, quella laica e mercantile. 
Quando ci prende quel dolce sopore, quella sottile mollizie, quella saputa pigrizia, che sono in fondo la nostra riserva psicologica e il sale della nostra esistenza, ci riconosciamo ultimi figli del vicino Oriente dove rifulse la Troia del ben chiomato Paride e della bella Elena, la fastosa Persia, tutta sete e gemme, la lussuriosa Bisanzio di Teodora, donde giunse qualcosa sino a noi, influenzando alquanto il nostro modo di sentire e di vivere. 
Quando, nei momenti gravi e decisivi della nostra giornata terrena, meditiamo sui misteri della vita e della morte, riscoprendo la nostra anima migliore, quella cristiana, ripensiamo grati all'apostolo Pietro, che, predicando e benedicendo, passò per le nostre plaghe, diretto al suo supplizio romano e ci diciamo felici di avere, da allora, creduto in Dio uno e trino, cogliendo nel suo volto la nostra stessa immagine e di avere poi, tramite Egnazia, accresciuto la nostra fede in Cristo e la dignità della nostra Chiesa.

Pubblicato su “L’Informatore” del 29/3/1986.



(1) A 13 km. da Monopoli, alle “falde” della Loggia di Pilato, sorge S. Angelo di Frangesto poi S. Michele Arcangelo, protettore dei campi, una chiesetta risalente al sec. XI o XII anticamente annessa ad un convento di suore del Casale, che si dice fu retto da una Agnese monopolitana.
(2) Fenomeno psichico consistente nell’insorgenza di una sensazione auditiva o visiva in concomitanza con una percezione di natura sensoriale di diverso tipo, o, in semantica, stretto rapporto tra due parole che si riferiscono a sfere sensoriali diverse ( es. “voce chiara”). (Treccani).
(3) G. Carducci: “Il bove” v. 14.
(4) Dal lat. tardo “hemistichium”, gr. μιστίχιον, comp. di μι “mezzo” e στίχος “verso”. Nella metrica classica, ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla cesura. Per estens., sono così chiamati i versi incompiuti dell'Eneide di Virgilio, e, in genere, qualsiasi verso incompleto. (Treccani).
(5) Cercate l’antica madre!
(6) Narra Erodoto: “…fu questa la più grande strage di Greci e Reggini che noi conosciamo, che dei Reggini morirono 3000 soldati e dei Tarantini non si poté nemmeno contare il numero”.
(7) Quinto Ennio (239 a.C. – 169 a.C.) poeta, scrittore e storico romano: "Nos sumus Romani qui fumus ante Rudini", Annales Liber XVIII.

19.3.13

Manisporche: un Sindaco di cartone.





L’accoglienza è stata di tipo pirandelliano: un manichino-Sindaco vestito dal certosino lavoro di mesi dell’associazione. Una provocazione sottile, che anticipava le scontate e vetuste obiezioni che sarebbero state sollevate da un mondo politico abituato a ragionare in termini di marketing. Il mondo politico di centro-sinistra, peraltro, invitato dal movimento, ma sostanzialmente depresso, e presente probabilmente solo perché, in questo periodo di sconsolata perdita di riferimenti, sarebbe intervenuto anche alle riunioni dei Barbieri Organizzati, purché potessero rappresentare una confortante stazione per un treno da prendere al volo, destinazione governo. Infatti la provocazione ha fatto una vittima: il prof. Carbonara, pretendendo che “il progetto dovesse camminare su delle gambe” è finito, proprio con le sue, di gambe, nella rete della riproposizione della vecchia logica che per vincere ci vogliono delle belle e carismatiche persone. Con questa logica che si trascina da 20 anni il centro sinistra ha infatti vinto sempre. Ricordo Guccione con il suo carisma, sostenuto dalla sua “gioiosa macchina da guerra”, che finì fuori strada alla prima curva. E poi? Ah si, Leoci. (ma parliamo sempre di centro sinistra?) di cui è difficile trovare tracce di presenza nella storia cittadina, tranne che per il rilancio del calcio professionistico in comunella con rispettabili imprenditori baresi. Invece si parte dal progetto. Ambizioso e avveniristico per una popolazione abituata al piccolo cabotaggio, ma affascinante se si riesce a intuire quali potenzialità esso può offrire. Per la prima volta si concerta un metodo flessibile e dinamico che un’amministrazione moderna, attenta allo sviluppo sostenibile, può adattare al territorio ed al suo ambiente ed alla legislazione gerarchicamente sovrastante, concependo strutture agili e “aperte” al contributo delle categorie produttive e alle esigenze delle fasce più deboli dei cittadini. Un progetto nel quale “ogni tassello sarà indispensabile alla struttura complessiva”, pena il suo depotenziamento. Praticamente un capovolgimento di quella consuetudine dell’approssimazione e dell’avventurismo, che provoca “mostri” e corruzione. Un’architettura trasparente, costantemente proiettata al dialogo, all’informazione ed all’interfacciamento con la città. Una città che ha bisogno “di un nuovo riscatto” simile a quello del 1530, ha esortato Angelo Papio, che si vedeva fosse tendenzialmente esitante a comporre una sinfonia troppo mistica per il lavoro presentato, quasi a voler rassicurare i tanti ultras dell’ipertecnicismo” che spopolano anche nella parte sinistra del cielo. Noi da semplici osservatori non nutriamo questa remora e, ritornando in tema teatrale rassicuriamo i beckettiani: questa volta Godot alla fine arriverà, ma sarà circondato da tante persone che stenderanno con decisione il lenzuolo candido sul quale riscrivere la storia della città. Una città che, voglio ricordarlo, è nata da un sublime atto d’amore. Quando Totila distrusse Egnazia, la ricca, i suoi abitanti fuggirono con le loro vesti nobiliari, con i calzari principeschi verso Portus Pedie, la povera. E quello spicchio di cultura ellenica chiese asilo ai pescatori. Tutti si sporcarono le mani e un grande abbraccio sancì l’accoglienza e creò la “città unica”. Sporchiamoci di nuovo le mani e quell’atto d’amore, perduto nella notte dei tempi, avrà di nuovo un senso.

7.3.13

Influencer o opinion leader?





L’esplosione del Movimento 5 Stelle ha posto sotto la luce dei riflettori il radicale mutamento che è avvenuto sul piano della comunicazione globale. Fino a qualche anno fa (e fino all’ultima consultazione elettorale) eravamo abituati ad un tipo di comunicazione politica che aveva estorto metodi di persuasione di massa dal marketing pubblicitario che, a sua volta, era plasmato su indagini di mercato e target consumistici di segmento. Essa percorreva arterie monodirezionali e si estrinsecava su format omologhi, tanto da escludere qualsiasi manifestazione che non fosse “in linea”. Nel 1994 il marketing ebbe la benedizione istituzionale con Forza Italia che organizzò la sua vittoria con strategie di mercato innovative rafforzando la sua nascita virtuale con la presenza “sapiente” sul territorio delle agenzie di Publitalia. Singolarmente, da contraltare a questo schema ci fu solo Di Pietro che “bucava” il filtro massmediatico proprio con la sua totale difformità comunicativa, fatta di slang proverbiali e inciampi di grammatica, al pari del successo nel varietà degli anni ‘60 del fenomeno Mike Bongiorno. Le strategie di persuasione valorizzarono la figura degli “opinion leaders” che occupavano i circuiti con sapienza e suadenza professionale. Con l’era di Internet la platea dei consumatori/elettori si è via via trasformata ed è nata un tipo di comunicazione “digitale” che grazie alla nascita dei social network, corre sempre più su un percorso binario, interattivo che ha conquistato il desiderio di protagonismo di chi si è sempre sentito manipolato senza possibilità di replica. Sembrava una scoperta epocale: finalmente uno strumento inattaccabile di democrazia diretta, che, al momento di darsi rappresentanza parlamentare, nel caso del MS5 diventa “democrazia liquida”. Grillo stesso, secondo Umberto Eco, trae il suo successo dall’aver ignorato i tradizionali mezzi di comunicazione, e dall’aver saldato in un connubio rivoluzionario rete e piazza, agorà metafisica e reale. Nasce Utopia? Non è così semplice, purtroppo. Gianroberto Casaleggio stesso ci parla dell’avvento di una figura aggiornata dell’opinion leader: l’influencer. Sta in rete, cura blog, interviene sui social, consiglia e convince, blandisce e critica. Quando critica si trasforma in “troll”, una figura perversa, che opera per innescare conflitti e generare dubbi. Insomma per dirla con Gillin "Il new influencer nasce come esercizio di democrazia brutale”. Anche la rete quindi è “inquinata”, infestata da messaggi contraddittori e confusi, e non è semplice districarsene. Queste riflessioni, stranamente, sono emerse quando ascoltavo, tra gli altri, l’intervento di Massimo D’Alema alla direzione del PD. Mentre i circuiti invisibili ed innervati di internet pilotavano milioni di messaggi, veniva redarguita la platea con l’ammonimento che “il rinnovamento non significa la messa in liquidazione di una classe dirigente” (messaggio a Renzi), perché ci siamo fatti gabbare da un “signore di 65 anni che fa riunioni a porte chiuse e prende a calci i giornalisti” (messaggio a Grillo). Infatti. La vecchia comunicazione politica va sempre di moda: evidenziare sempre e solo quello che ci fa piacere per attaccare l’avversario.

1.3.13

Chi (stra)parla oggi?




Torno ancora sulla questione dell'eccessiva personalizzazione della politica. La domanda da cui partire è: con quali criteri si effettua una scelta della persona giusta che debba governare uno stato/paese? Il fatto che sia più o meno simpatico, che appaia più o meno affidabile, più o meno competente, più o meno carismatico, il fatto che dica barzellette o si mostri serio ed integerrimo, il fatto che sia colto o che sembri “uno di noi”, alla nostra portata. Queste sono tutte categorie che attengono alla sfera degli umori, delle sensazioni, che mettono in moto gli ingranaggi dell’emisfero destro del cervello, quello dominato dai neuroni dell’emotività e lasciano in letargo quello sinistro che sollecita la riflessione ed il raziocinio. Poi ci sono coloro, in genere lobbies, che scelgono colui che meglio può rappresentare interessi di parte, che può più facilmente essere malleabile o peggio manipolato, che sa fingere e camuffarsi meglio. La prevalenza di questo orientamento verso la persona, mutuato dalle grandi democrazie occidentali, nelle quali le forme di governo sono organizzate sulla base della repubblica presidenziale o del premierato, che noi abbiamo cercato di copiare, introiettandone i presupposti nel nostro ordinamento che la nostra Costituzione ha voluto invece basata sui principi della democrazia parlamentare “diffusa”, perché vengano rappresentate tutte le idee in campo, non è detto che sia la migliore delle impostazioni. Prove evidenti ne sono i fiumi di parole che vengono spesi per polemizzare o esaltare i “gesti” dei singoli (il papa, Grillo, Bersani, Renzi, Monti, Berlusconi in macrocosmo, e Risimini, Suma, Papio, Galanto, Romani, Ciaccia o persino un Lacasella qualunque, nella nostra piccola realtà). Quello che voglio dire è che il “motu proprio” del singolo, per quanto autorevole o eclatante che sia, non merita maggior interesse o spazio di quello che invece dovrebbe “pesare” di più nelle nostre riflessioni, e cioè la strada, il percorso da compiere per migliorare le nostre vite. I media in questo non ci aiutano, anzi, rincorrendo quello che desidera la “pancia”, ci amplificano i proclami e i vittimismi, le invettive e le contro-repliche, creando un’immensa bolla di gossip nella quale annaspiamo quotidianamente. Sarebbe persino da augurarsi che le consultazioni fossero sempre meno frequenti, tanto siamo invasi, nelle campagne elettorali, da tanta di quella inutile quantità di nulla. La sensazione è che anche la politica (come la cultura e l’istruzione), sia diventata “merce”, che possa essere piazzata da qualsiasi imbonitore di turno che sappia vendere il suo prodotto, la politica come volano di sviluppo nel mercato globale, fattore di arricchimento e di consolidamento di poteri più o meno forti. Per assurdo, lo stallo in cui si è arenata la legislatura appena iniziata potrebbe costringere finalmente a parlare di programmi e di cose concrete e il merito di tutto ciò, non si può disconoscere, è del M5S. Sono d’accordo con chi (Emiliano) afferma che si tratti di un’opportunità e non di una iattura.

27.2.13

Non si gioca più a rubamazzetto.




Al tavolo da poker della XVII legislatura (i superstiziosi avrebbero saltato questa numerazione) il mazziere Bersani distribuirà le carte e due giocatori risponderanno “parol”. Un terzo giocatore vorrà vedere le carte e contemporaneamente rilanciare. Bersani dichiarerà: legge elettorale, legge sul conflitto d'interessi, legge anticorruzione (riveduta e corretta), taglio dei parlamentari. Un poker d’assi. Il M5S rilancerà con in mano reddito di cittadinanza e abolizione di ogni forma di finanziamento ai partiti. Tentativo di scala reale. Nel poker non esiste la formula “provo e divido” ma Bersani che è di estrazione popolare, come ha tenuto a ricordare a Grillo, sa forse anche giocare a stoppa e proverà a dividere. Le sorti della legislatura sono tutte qui, ad un tavolo da gioco dove se qualcuno blufferà e verrà scoperto, verrà cancellato dalla scena politica come se avesse barato. C’è da dire che le proposte fin qui adombrate, pur essendo di portata rivoluzionaria, visto l’immobilismo che sinora le ha circondate, rimangono solo delle riforme che non contengono “in nuce” nessun embrione di “progetto” economico/sociale. Cioè, non sappiamo ancora che tipo di società ha in mente il PD, perché dal 1989 non lo abbiamo ancora capito, essendo stato sempre al rimorchio del “pensiero unico” con blandi correttivi, e non sappiamo ancora che tipo di società abbia in mente il M5S, essendo stato dalla sua nascita ancorato alle “cose” da fare per non lasciare “nessuno indietro”. Quindi il grande dilemma, a mio parere, è proprio questo: la devastante cessione di sovranità che è stata operata in favore dei mercati e dell’Europa, consentirà di recuperare un progetto sul quale costruire un’architettura economica e sociale che rimetta al centro i giovani, il lavoro, la piccola impresa e i ceti più deboli? Che sia in grado di ripensare e realizzare un nuovo sistema di sviluppo? Nel passato fine settimana gli elettori hanno chiesto di mostrare pubblicamente le carte di identità (se non il codice genetico) delle forze politiche che ambiscono rappresentarli. E hanno bussato alla porta delle istituzioni chiedendo finalmente di rientrare in possesso del loro futuro. Questa porta va spalancata, non ci si può più nascondere o camuffare. Non si gioca più a rubamazzetto.

25.2.13

La pentima (Acqua di Cristo)




Questa poesia è dedicata alla piccola spiaggia tra Cala Portavecchia e Lido Bianco comunemente conosciuta come "La pentima" o “Cozze”, ma che storicamente prende il nome di "Acqua di Cristo" a causa della sorgente di acqua dolce che si riversa nel mare dalle rocce sottostanti e rinfresca la sua temperatura nelle canicolari mattinate estive. Il suo aspetto varia continuamente sotto l'influsso delle correnti che ne trascinano la sabbia.


Inumata di cemento
umile e sapida
cava focaia

supina ti giaci
placida e trasparente
gemma tra i faraglioni
solcata nel profondo
da gelide stimmate.

Mi piace sorvegliare
le tue mutevoli bizze
le tue resistenze
le tue umiliazioni

ora spigoli aguzzi
ora tenera frolla
ti ritrai ed avanzi
la sabbia alacre
sudario e levatrice
fragile satellite
nel cerchio della vita.

Affacciato sul poggiolo
origlio rilassato
l’andante moderato
dell’onda risaccale
l’anima blandita
d’aromi salmastri
che s’insinuano garbati.

Ansa del mio letargo
nicchia della memoria
serva delle stagioni
puntuale sentinella
frantumi l’orgoglio

noi ignavi schegge
brulicanti nell’infinito.

16.2.13

Fallimento di un papato.



In questi giorni, succedutisi all’annuncio delle dimissioni di papa Ratzinger, le parole più usate da commentatori di varia estrazione e professione, tralasciando le banalizzazioni degli esponenti politici, sono state “umiltà”, “coraggio”, “estremo atto d’amore” e quant’altro. Alcuni, leggo, attribuiscono al pontefice solo una leggera “dislessia” comunicativa. Pochi hanno utilizzato l’unica parola che fotografa miseramente questo periodo trascorso al governo della Chiesa: fallimento. Ratzinger non solo ha lasciato irrisolti tutti i problemi lasciati sul tappeto alla scomparsa del suo predecessore, ma, paradossalmente, li ha complicati ulteriormente, esasperando contrasti e dissapori interni ed esterni alla Chiesa, seminando l’impressione che di lui si potesse tranquillamente fare a meno, considerata la sua presenza arroccata su posizioni reazionarie e, in alcuni casi, evanescente. La Chiesa aveva impiegato 400 anni per cercare di imboccare una svolta epocale con la convocazione del Concilio Vaticano II. Purtroppo papa Giovanni XXIII è scomparso prima di riuscire a pilotarne l’effettiva applicazione e da allora è iniziata una sapiente e certosina opera di smontaggio che ha avuto il suo culmine con Benedetto XVI che, già in precedenza da capo del S.Uffizio, e poi dal soglio pontificio, è tornato a concezioni e impostazioni da concilio tridentino, datate 1564. In questi otto anni sono stati scagliati anatemi contro qualunque voce dissidente o d'intendimento rinnovatore. Sono stati riallacciati i rapporti con gli scismatici lefebvriani, rigenerandone la reputazione all’interno della comunità ecclesiale e così facendo ci si è inimicati i più fedeli difensori delle tesi conciliari. Sono state bypassate tutte le novità più interessanti che provenivano dal Concilio, come il dialogo con le altre fedi, l’antisemitismo, il superamento delle liturgie preconciliari ecc. Sono stati scontentati gli ebrei rinfacciando loro la cecità rispetto alla venuta di Cristo e con la riabilitazione del vescovo negazionista Williamson. L’Islam è ritornato ad essere definito dalle parole bizantine: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane“, e non dall’ammissione conciliare che altre fedi possono contenere “semi di verità”. Quando Ratzinger si insediò accennò alla presenza di “sporcizia nella Chiesa”, concetto riecheggiato nella frase sul suo “volto deturpato”. Forse si riferiva ai peccati della Chiesa, morali e finanziari. Ha reclamato la dura condanna degli abusi sessuali commessi da religiosi, vincolandoli ad auto-denunciarsi, senza però far seguito con l’obbligo per i vescovi di rivelare i reati di cui avessero notizia. E le denunce inevase che dovessero esistere negli archivi delle diocesi? I casi di vittime rimaste anonime potrebbero essere numerosissimi. Vogliamo parlare dello IOR e della persistente impunità che copre le operazioni di questo braccio armato della finanza, coperto dal crocifisso? L’organismo creato (Autorità di Informazione Finanziaria) per sovrintendere a tutte le transazioni della santa Sede è stato reso subito parzialmente inoffensivo dalle modifiche intervenute da parte del cardinal Bertone. Il Consiglio d'Europa ha infatti invitato “la Santa Sede a rafforzare il proprio regime di vigilanza». (Cfr. rapporto Moneyval del luglio 2012). Forse la “sporcizia” si riferiva ai temi della morale sessuale e della bioetica? Qui siamo tornati a Paolo III. Rapporti pre-matrimoniali, omosessualità, contraccettivi (ricordiamo lo scivolone sull’uso del preservativo), sacerdozio femminile, matrimonio dei preti, comunione ai divorziati, persino la masturbazione negli adolescenti, fecondazione assistita, eutanasia: tutti rigorosamente bollati come peccato o eterodossia, senza l’ombra di una benché minima concessione di un dialogo. Fatto sta che tutti questi comportamenti anziché far diminuire la “sporcizia”, in otto anni l’hanno fatta proliferare. I teologi si smarcano, le vocazioni in Europa calano vistosamente, gli scandali costellano la cronaca vaticana, la rigida precettistica viene dai più ignorata. A chiudere il cerchio, la scoperta di avere accanto maggiordomi e collaboratori pronti a tradirlo. Umiltà, coraggio, atto d’amore. Forse si. Ma anche un’ammissione storicamente irrefutabile.

12.2.13

Bersani come Depretis?


Per il PD il tempo delle scelte definitive e consolidate sul terreno di una consapevole costruzione di valori fondanti e non negoziabili, quello che un tempo si sarebbe chiamato “sovrastruttura”, non è più venuto, e, alla fermata di questa remota e sperduta stazione, attende invano un popolo confuso e distratto. Il rollio ed il beccheggio della nave PD ormai affliggono di mal di mare quella fetta di elettorato che non volendosi più identificare con ciò che “non si è”, fatalmente si rivolge all’oblio dell’astensione o a confortevoli sponde neocentriste, che, della “non scelta” finalizzata a saltare sul carro vincente, hanno fatto la loro filosofia esistenziale. Ben più convinte sono le schiere di chi, con bronzee fattezze, dichiara di “essere” e di esistere esclusivamente per i propri interessi, catalizzando così facilmente coloro i quali sono abituati a ragionare con la mano dentro il proprio portafoglio, vuoto o pieno che sia. In Italia siamo passati dall’epoca in cui la difesa oltranzista dei propri valori, schierati frontalmente sul confine Est-Ovest, provocava storture e devianze di ogni tipo, ad un’epoca in cui tutto si annacqua e si liquefa al contatto viscoso del Dio-mercato. Fin quando ha retto un sistema industriale e consumistico virtuoso, integrato con una fiscalità improntata alla redistribuzione del reddito ed ancorato ad una solida impalcatura di diritti e welfare, tutto andava bene e chi ci perdeva erano solo i poveri del terzo mondo, così lontani da rassicurare i nostri egoismi. Ma quando la classe media, sotto i colpi della crisi aggravata, ma non causata, dallo scoppio della rendita finanziaria, è scivolata verso il basso, questo tracollo ha svelato nella sostanza un modello di sviluppo inacidito e irreparabilmente bacato. La sinistra (mi scuso per questi termini desueti) diventata costola e terreno di conquista del centro bancario-affaristico, non ha saputo recuperare un centro di gravità che consentisse di guardare verso il futuro e ha deciso di scartare il cannocchiale del progetto a favore del più comodo e sbrigativo microscopio del tatticismo. La sinistra radicale ed antagonista si è macerata e suddivisa nella miserevole ricerca del metro quadrato da difendere ed occupare con tanto di bandiere e logotipo. Vendola e Sel hanno operato una scelta coraggiosa ma, ahimè, facendo i conti senza l’osteria che cambia padrone, ma non gestione.
Non sorprende quindi che la battuta di Monti, “PD nato nel 1921”, abbia suscitato tanta reprimenda. Il PD è un partito che si sente moderno e sempre sul pezzo. Per Bersani sentirsi apostrofare “vecchio comunista” è stato insopportabile. D’impulso si sarebbe potuto replicare che era come se Monti avesse dato al cardinale Bagnasco del “vecchio Inquisitore”, ma questa forse è un’altra storia. Sarebbe stato interessante invece, ricordare che l’Unione Liberale, background che il nostro Premier dice di possedere, fu fondata da Camillo Benso Conte di Cavour qualche anno prima, nel 1859. Il problema è che sembra sia diventato un assioma che “vecchio” = disdicevole. A proposito di Cavour. Gli storici fanno dello statista piemontese l’ideatore di quella prassi secondo la quale i partiti politici fermi su posizioni contrapposte possano, in circostanze propizie, coalizzarsi su temi rilevanti, tagliando così le radicalità estreme portatrici di impeti ed istanze inconciliabili col “bene comune”. L'espressione stessa “connubio” (sinonimo ironico di “matrimonio”), indica l'accordo politico del febbraio 1852 tra due schieramenti del Parlamento Subalpino, quello del Centrodestra, capeggiato da Cavour, e quello del Centrosinistra guidato da Urbano Rattazzi. Le basi dell’intesa furono assai semplici: abbandono delle ali estreme del Parlamento, sia di destra sia di sinistra, e confluenza del Centrodestra e del Centrosinistra su di un programma liberale di difesa delle istituzioni costituzionali e di progresso civile e politico. Non vi ricorda qualcosa? Furono i prodromi di quella malattia nazionale il cui virus iniziò a diffondersi nel 1882: durante il governo di Agostino Depretis gli esponenti più progressisti della Destra entrarono nell'orbita della Sinistra. Venne così a crearsi un nuovo schieramento centrista moderatamente riformatore, che bloccava l'azione delle ali progressiste più radicali nel Parlamento. Benvenuto il trasformismo. Da allora gli italiani iniziarono a sospettare che non valesse più tanto la pena continuare a fidarsi delle “idee”, ma che forse era più produttivo affidarsi agli uomini… “forti”. Fascismo transeat. La purificazione nella Resistenza, la nascita dei nuovi partiti e i blocchi contrapposti riportarono la bussola della politica sull’importanza dei valori. Poi, come detto, le ataviche propensioni fortemente corroborate dalla corruzione della casta, hanno avuto di nuovo la meglio e la personalizzazione della politica ha di nuovo occupato il centro del palcoscenico. Le contrapposizioni tra berlusconisti (uno solo in capo) ed anti-berlusconisti, finti o autentici (tanti capetti) ci hanno composto la colonna sonora più stucchevole degli ultimi vent’anni. Il problema è che a questo gioco c’è qualcuno più bravo e tutti gli altri sono copie sbiadite. Lo stesso strumento delle primarie per scegliere il leader, gratta gratta, non è altro che un’ennesima abdicazione della forza e della pregnanza dei contenuti sull’altare del carisma e della penetrazione mediatica. Che significato ha mettere a confronto candidati che alla fine dovrebbero avere la stessa visione del mondo e del progetto da presentare, contro la coalizione avversa? Matteo Renzi è il paradigma di questa deriva. Il suo incedere da movida, altezzoso, puntellato di slogan pseudo-moralisti, i suoi effetti speciali hi-tech, gli scioglilingua oscillanti tra il buon senso della massaia e l’arroganza del “sotuttoio”, ne fanno un contraltare del Berlusca convertito alla new wave. Aver fondato il suo successo sulla “sindrome della notte di Capodanno” ha nascosto la pochezza dei suoi contenuti. Se lavorasse alla Apple avrebbe fatto fortuna con un'applicazione dedicata: I-rottamo. A conferma di ciò i suoi più famosi méntori Ichino e Gori sono ora uno transfuga e l’altro auto-rottamato. E anche sullo scenario monopolitano non mancano emuli e cloni entusiasti. Ora tutti si dichiarano a parole contro la personalizzazione della politica. Tutti. Quelli che hanno tolto il nome e quelli che si sono intitolati la lista. Quelli che si accampano in TV e quelli che la ripudiano. 
A proposito: attenzione, questa volta al gioco sta partecipando qualcun altro che ci sa fare.

8.2.13

Al di sopra della legge.



Mario Draghi non è più un cittadino italiano. Perlomeno dal marzo 2009, se non da prima. E lo stesso dicasi per gran parte del management di Bankitalia. E per Lamberto Cardia ex presidente della Consob. Essere cittadino italiano significa essere uguale a tutti gli altri cittadini nei confronti della legge. E la legge italiana disciplina l’obbligo di denuncia: esso vige per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio (art 357-358 cp.) nell'esercizio delle loro funzioni o per i reati di cui vengono a conoscenza in ragione dell'esercizio che essi svolgono. E gli “incaricati di pubblico servizio” ex art. 358 sono coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata, dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.

Ricostruiamo brevemente i fatti.

L'8 novembre del 2007, il Monte dei Paschi di Siena annuncia con una nota di aver raggiunto un accordo con Banco Santander per l'acquisto di Banca Antonveneta per 9 miliardi di euro,

Rothschild fu l’Advisor di Santander nell’operazione che portò al passaggio di Antonveneta a Mps ad un prezzo di circa 3,5 miliardi superiore a quanti ne aveva pagati l’istituto spagnolo soltanto due mesi prima. Nell'operazione precedente con cui Santander aveva acquistato Abn Amro, la allora settima banca italiana era stata valutata 6,6 miliardi di euro, incluso il valore di Interbanca (tra gli 800 mln e 1,1 mld) che però Santander si è guardato bene dal vendere dato che era l’unico asset strategico. All’annuncio una parte della stampa finanziaria è entusiasta(1), ma una parte più consistente(2) è quantomeno perplessa. E come paga l’acquisto il MPS? “Il corrispettivo sarebbe stato finanziato per il 50% circa attraverso un aumento di capitale offerto in opzione a tutti gli azionisti. Per il 20/25% circa tramite la cessione di asset non strategici e per la restante parte attingendo alla liquidità disponibile al “funding” tramite strumenti di debito (senior e subordinate)” In parole povere debiti su debiti. Il MPS non aveva il becco d’un quattrino in cassa. Però il MPS non può iscrivere a bilancio una bolla così grossa. E cominciano i trucchi. A luglio 2008 MPS, dopo aver scatenato la sua fantasia “creativa” per racimolare denaro, riversando sul mercato porcherie tossiche di ogni tipo, comincia a pagare Santander e solo allora Bankitalia chiede spiegazioni e rettifiche. Queste rettifiche (con altre evoluzioni nel cielo della finanza virtuale) vengono fatte prontamente….nel marzo 2009! Quindi a marzo 2009 Bankitalia e la Consob, se non erano guidate da dei piloti automatici, avevano tutti gli elementi per portare le carte in tribunale. Ma non l’hanno fatto, venendo meno ai loro obblighi, non tanto istituzionali, quanto quelli che dovrebbe avere qualunque cittadino che viene a conoscenza di una ipotesi di reato, ancor più se siede su delle poltrone di alta responsabilità. Proprio quegli obblighi di responsabilità che vengono fatti pesare sulle spalle delle migliaia di lavoratori delle banche e delle poste quando si chiede loro di vigilare sulle operazioni della clientela per fronteggiare i pericoli del riciclaggio e dell’evasione fiscale. Quegli operatori che rischiano in proprio anche per delle semplici omissioni e quando commettono un errore devono affrontare processi e vessazioni mediatiche, senza neanche una difesa legale dell’Istituto del quale fanno parte. Quella per lo Stato tecnocratico è solo feccia. Ma i managements non si toccano perché devono salvare l’onore e il prestigio dell’Italia nel club/cupola della finanza europea. Mussari è saltato dalla promozione per meriti sul campo a presidente dell’ABI, quando un altro banchiere, Profumo, anche lui non proprio integerrimo, ha avuto l’ordine di scaricarlo proprio da Bankitalia, perché diventato troppo scomodo. L’impressione è che metodi e comportamenti siano stati mutuati da un’altra Cupola.



(1) http://video.corriere.it/acquisizione-ottima-notizia-il-sistema-bancario-italiano-speriamo-diventi-anche-correntisi-/82096924-8e11-11dc-8287-0003ba99c53b

(2) http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2007/11/mps-compra-antonveneta.shtml

5.2.13

Fiction: Tutta la città nel cuore



Isabella, una ispettrice del Ministero del Progresso, viene incaricata di recarsi a Monbusto in Puglia per verificare le notizie che vengono diffuse sull’incredibile grado di civiltà che si dice sia stato raggiunto da questa ridente cittadina adagiata sul mare Adriatico. L’ispettrice accetta di malavoglia: altre volte ha visitato cosiddetti “miracoli” che poi si sono rivelati una “bufala”. E’ particolarmente legata ai temi ambientali: il padre faceva parte dell’equipaggio di “Greenpeace” ed era scomparso durante una missione nel Pacifico, inghiottito durante una tempesta. 
Arriva nella cittadina e viene subito pervasa da profumi e colori inebrianti. Le contorte cortecce degli ulivi secolari e un trionfo di melograni la stordisce e la riporta a scenari del suo vissuto con il papà che le insegnava le varietà più intriganti della flora mediterranea. Incontra il Sindaco e le autorità che la guidano alla scoperta del paese. In particolare conosce Umberto, il presidente del Consiglio Comunale, che con i suoi occhioni azzurri, la barbetta bionda e i modi eleganti la colpisce nel profondo. La città è linda e pulita, le strade sgombre, perfettamente asfaltate e il traffico ordinato e disciplinato. Il centro storico è perfettamente strutturato con piccoli esercizi commerciali e antiche botteghe artigiane. La zona industriale è ecocompatibile e tutte le aziende sono dotate di impianti di smaltimento a norma. Recentemente nella zona portuale è stata demolita una vecchia fabbrica dell’anteguerra ed al suo posto è stato allestito un parco ittico/biologico. Una casa di una antica famiglia situata in area in parte comunale, denominata “Del Serpente”, è stata ristrutturata e trasformata in Museo. Il sistema di riciclo dei rifiuti è perfettamente funzionante e i cittadini di buon grado conferiscono materiale di scarto che viene poi in parte riutilizzato dalle stesse aziende del circondario. La cinta urbana è perfettamente regolata da un piano urbanistico che prevede minime estensioni sul territorio e agevolazioni per chi ristruttura e affitta case di proprietà. Il resto dell’edilizia è di tipo popolare per agevolare l’acquisto alle giovani coppie. Tutta la città è dotata di percorsi agevolati per disabili e piste ciclabili. Lo splendido litorale è un perfetto connubio tra esigenze del turismo e libertà di accessi al mare che sono garantiti ogni 100 metri di percorso. Gli edifici scolastici sono stati tutti ristrutturati in modo antisismico e dotati di impianti solari e collegamenti internet wi-fi,, come d’altronde accade in tutta la città. I giovani che terminano le scuole dell’obbligo sono agevolati nell’ingresso nel mondo del lavoro mediante partecipazioni a corsi di aggiornamento compartecipati dalle aziende interessate. Esistono numerosi impianti sportivi sicuri ed accessibili a tutti. In centro campeggia un teatro comunale mentre in periferia c’è un multisala ed un cinema all’aperto. Per gli anziani esistono case di riposo comunali e iniziative di impegno sociale per mantenerli sempre coinvolti nella vita della città. Le splendide e caratteristiche campagne che fanno parte del suo variegato territorio sono tutte urbanizzate e dotate dei servizi essenziali: gas, luce, telefono e trasporti. L’amministrazione comunale è efficiente e trasparente e mantiene i conti in pareggio grazie a spese oculate e entrate progressive basate sul reddito dei cittadini. 
Isabella non crede ai suoi occhi: finalmente ha conosciuto la città ideale, quella dei suoi sogni e quella dove avrebbe voluto vivere. Il resto lo fa l’amore: Umberto la conquista e lei decide di vivere per sempre a Monbusto. 
Anche questa è “fiction”.

21.1.13

S. Pietro Martire: perchè non sarò mai neutrale.



Per qualche secondo chiudiamo gli occhi ed immaginiamo la Monopoli medievale. Siamo nel 1500 circa. Nel suo palazzo signorile incastonato al centro del paese, il magistrato Leo Arpona era soddisfatto. Erano arrivati i Veneziani e avevano portato con sé arte e cultura, catalizzando gli interessi delle menti elette della città. Arpona era contento perché, grazie alla sua posizione, aveva maturato delle conoscenze all’interno della leadership dei nuovi dominatori, che gli avevano consentito di arrivare a commissionare un dipinto nientemeno che a Giovanni Bellini, artista la cui fama aveva varcato i confini delle sue origini. Arpona aveva un sogno: la sua famiglia era devota ai domenicani e fin dalla sua infanzia gli avevano raccontato la storia avventurosa di Pietro Rosini, della sua vita integerrima, rigido custode della dottrina, e soprattutto della sua morte da martire. In qualche modo voleva legare indissolubilmente il suo nome a quella vicenda così ricca di epica e misticismo e insieme donare alla città e alla cristianità di Monopoli un segno indelebile del suo amore. Così colse l’occasione che gli si era presentata con l’arrivo dei Veneziani. L’artista raccolse l’invito e la splendida tela arrivò in città. Arpona scelse come destinazione naturale il convento dei frati domenicani, dove aveva già fatto erigere una cappella al Santo. Purtroppo il convento era fuori dalle mura e ciò costituiva fonte di apprensione per il magistrato, considerati i tempi mai stati tranquilli per l’avvicendarsi in quel tempo di tante vicende belliche con dominatori più o meno barbari di usanze e di costumi. Ma tant’è, il quadro fece bella mostra di sé nella cappella di famiglia. Quando Arpona morì, nel suo testamento citò la provenienza del quadro e “fu sepolto con l’abito domenicano all’interno della cappella” sotto lo sguardo amorevole del “suo” Santo (Cfr. G. Bellifemine La Basilica di S. Maria Amalfitana p. 70). Questo fu il primo atto d’amore che dette inizio alla vicenda che arriva fino ai giorni nostri. Il secondo fu la ricostruzione della cappella (distrutto il convento da Andrea Gritti, comandante della guarnigione veneta, perchè non potesse essere utilizzato dalle truppe del marchese del Vasto) con l’icona del Santo, nella nuova Chiesa di San Domenico ad opera dei frati, aiutati dai fondi stanziati da alcune famiglie nobili monopolitane, tra cui gli Indelli, imparentatisi con gli Arpona. E poi via via a cavallo dei secoli con tutte le vicende già narrate, legate alla spoliazione imposta arbitrariamente dai gerarchi fascisti baresi, ostacolata fino all’ultimo da chi, erede dell’amore di Leo Arpona, continuava a difendere la monopolitanità dell’opera. E’ questo il motivo per cui chi è monopolitano non può rimanere né insensibile né “neutrale” di fronte a questa storia. L’arte, il mecenatismo, le proprie radici, la devozione, il martirio, la santità, sono categorie che appartengono alla sfera dei sentimenti e della fede non a quella delle competenze amministrative e burocratiche. L’obiezione tecnica che si solleva è che l’estrema fragilità del dipinto impone la sua custodia in ambienti asettici, privi di umidità e tenuti costantemente sotto controllo. Probabilmente la nostra città è considerata arretrata da questo punto di vista e, a questo punto, se effettivamente un sito del genere non esiste sul territorio comunale, è arrivato il momento di attrezzarsi. Confidiamo che la prossima Amministrazione, ultima erede di quell’atto d’amore iniziato nel 1500, si faccia carico, magari in concorso con le autorità ecclesiastiche, che gestiscono l’attuale Museo Diocesano, di un progetto di allestimento di una degna sede per il dipinto che possa così ritornare, legittimamente, dove Arpona volle che fosse conservato.

18.1.13

Moby Dick


Alla radio un vecchio brano del Banco Di Mutuo Soccorso: Moby Dick.
Come d'incanto quel connubio straordinario di parole e musica mi ha trasportato sul mare frastagliato e tumultuoso, teatro delle vicende narrate da Melville...
Ho pensato alle balene ed al loro strano mondo fatto di solitudine nel branco, di apparente beatitudine nella loro maestosità, di istinti di solidarietà, di slanci di passione ed altruismo.
Le balene hanno un cuore grande non solo fisicamente.
Loro hanno un Tom Tom integrato che consente loro di sapere dove si trovano in qualsiasi parte del globo.
Ciò non esclude che siano dotate di una fantasia che li proietti da qualsiasi parte loro vogliano essere.
Sono perseguitate nella loro vita da parassiti che si attaccano alla loro pelle.
Ma loro sopportano stoicamente come fosse un destino ineludibile.
E poi Moby Dick...
Il suo mantello bianco. Sempre in lotta con il suo cacciatore. Ancora più sola nella sua inebriante bellezza. Moby Dick che ha scoperto una ragione di vita nell'essere cercata, nell'essere preda ambita e agognata. Moby Dick la balena bianca, lo splendido angelo che vive nel desiderio di coloro che hanno una vita che pesa come una condanna, ma una mente leggera come una brezza. Lei potrebbe fuggire, solo lo volesse, ma non lo fa.
Si offre preda incantevole alla bramosia della fiocina, si dona con orgoglio al piacere del tormento.
Si dice che quando spiaggia una balena accade perché ha perso l'orientamento.
Non è così.
Ha perso il desiderio del gioco, la voglia di innamorarsi della vita e dei suoi tornanti ubriacanti.
E’ stata colpita al cuore ed è morta di inerzia.

15.1.13

Ripetitori


Incredibile!. Non credevo a quello che stavo leggendo quando ho appreso della possibile edificazione di altri TRE ripetitori sul nostro già tormentato territorio. Orrore. Immagino questi nuovi ammassi di ferraglia minacciare la Chiesa e la scuola di Antonelli, o tumefare il bosco di Carluccio o la macchia di Tortorella. Monopoli, grazie al suo splendido connubio tra mare e colline, è stata vittima predestinata in passato di queste indecenti aggressioni. A nulla sono valse le sollevazioni popolari, le denunce, le interpellanze. Tutto inutile, tutto da archiviare. Ma attenzione il ragionamento non vale solo per Monopoli (per il proprio cortile come dicono gli anglosassoni...). Stesso discorso dovrebbe farsi per Polignano, Fasano o il paese di Vattelapesca. Dobbiamo smetterla di considerare la legittima aspirazione dei cittadini a non farsi prendere per i fondelli, come un fatto esclusivamente locale. I grandi temi ecologici vanno sollevati e dibattuti in modo globale. Perché si formi una catena solidale che scuota dal profondo questo nostro paese da decenni ormai in mano ad una classe politica prona e corrotta. Voglio dire, per esempio, che la pur auspicabile soluzione prospettata tempo fa di spostare tutti i ripetitori (di tutti i tipi) sul monte S. Nicola, è una soluzione minimalista, che risolve il problema fino e non oltre alla zona di caduta del segnale più forte che sia stato scatenato sul territorio. Invece, a mio modo di vedere, va rivisto dalle fondamenta l’approccio generale di tipo culturale all’argomento. Si deve capire che la terra, come l’acqua e come l’aria non sono dimensioni infinite, ma interagiscono e si compenetrano in un ecosistema che madre Natura ci ha donato con specifici confini e limiti. In sostanza la domanda che ci dobbiamo porre è: perché la concorrenza tra operatori telefonici o tra network televisivi o quant’altro si deve giocare sul terreno del “chi ha il segnale più forte e chiaro, che arriva più lontano, vince”? La concorrenza deve spostarsi sul terreno della qualità, cioè il segnale deve essere uguale per tutti, concentrando i ripetitori in siti disabitati senza devastare l'equilibrio florovivaistico e consentendo su un unico manufatto l’accesso e la disponibilità a chi ne ha i titoli. Non facciamo emergere questioni "tecniche" difficili da risolvere! Cominciamo ad investire nella salute degli utenti e non solo sull'audience pubblicitario! Ora il "campo" c'è ed è nella presa di coscienza dei cittadini! Inoltre le amministrazioni locali devono ottenere maggiori poteri di controllo e coordinamento ed essere autorizzate a esigere dei canoni di servizio per lo sfruttamento del territorio messo a disposizione. La concorrenza così sarà incentrata sui servizi offerti, sulle tariffe, sulla trasparenza dei costi, e non sulla potenza del segnale.
Leggo anche che l'assessore Rotondo, sfiduciato dalla sostanziale impotenza del Comune ad ostacolare queste installazioni, si tira indietro, «perché non butto dalla finestra i soldi dei cittadini». Grande. I soldi dei cittadini infatti vanno buttati in tutt'altre faccende quali gestioni demenziali della raccolta rifiuti e differenziata, svendite del patrimonio comunale, ripavimentazioni infinite dell'anello del Borgo ecc. ecc. Non chiediamo di incaricare Longo e Ghedini con le loro parcelle milionarie a nostra tutela, ma di far valere i nostri diritti in ogni luogo e circostanza utile e non solo in Tribunale.
Questa è una tra le tante battaglie di civiltà a cui sarà chiamata la prossima classe politica nazionale e locale. Speriamo la accolga con forza propulsiva e gioiosa determinazione.

12.1.13

S.Pietro Martire: il dipinto conteso



Ripropongo in questo post un articolo di Remigio Ferretti riguardante la storia del famoso dipinto conteso che contiene numerosi spunti e aneddoti storici, corredato da alcune mie note.

TUTTA LA STORIA DEL GIAMBELLINO IL GRANDE ESULE

Del S. Pietro Martire, il famoso dipinto del Giambellino(1) che, dal XVI secolo ad oggi, ha costituito e costituisce, per Monopoli, motivo di orgoglio, amarezza e nostalgia, hanno scritto, molti decenni fa, uomini di valore e competenza(2). Essi ne hanno ricordato le vicende, studiato ed illustrato i pregi pittorici, alla luce dell'arte rinascimentale e dell’intera opera dell'illustre pittore veneto. Sicché, specie per quest'ultimo aspetto, poco o nulla potrebbe aggiungersi a quanto sostenuto e pubblicato da tali benemeriti studiosi.
Può essere comunque, in particolare per i giovani, nuovo e per certi versi stimolante, rifare la storia del Giambellino e del periodo che va dal 1913 al 1933, approfondendone i risvolti politico-ammininistrativi, con brevi connotazioni d'ambiente e di colore ed anche gli echi, i ricordi e i rimpianti del periodo successivo, ancor oggi non del tutto spenti.
L’”avventura” di questo quadro(3), di valore inestimabile, si snoda attraverso gli ultimi due lustri della democrazia prefascista, il ventennio fascista e l’era repubblicana: quasi settant'anni di storia della città e delle classi dirigenti che, espressione dei diversi climi politici, mentalità e costumi, vi hanno governato ed operato: puntuale punto di riferimento, tra i primi piani e dissolvenze, il nostro Giambellino.
Siamo nei primi mesi del 1913. Nel firmamento politico italiano, non privo di nubi, l’astro maggiore è Giolitti(4), con la sua luce e i suoi maligni influssi. La guerra libica si è da poco conclusa e, come dopo tutte le guerre, urge l'esigenza di una “ripresa”; per favorirla, si tenta di “mettere ordine” nei vari settori della vita del Paese, anche in quello dei “beni culturali”.
Piomba infatti in terra di Bari un inviato del Ministero della Pubblica Istruzione, Capo-Sezione presso la Direzione generale per i Monumenti, Antichità e Belle Arti, il dott. Attilio Rossi(5), funzionario accorto e zelante. Egli ha un preciso compito: prendere visione del patrimonio artistico delle diverse città, constatarne le condizioni e agire in conseguenza, ai fini della sua tutela e conservazione.
Giunge a Monopoli, verosimilmente già informato della esistenza, nella cinquecentesca Chiesa di S. Domenico(6), del capolavoro belliniano, vi si reca e, alla sua vista, si mostra stupito e ammirato, poi scandalizzato e dolente per lo stato deplorevole del dipinto.
Era sindaco di Monopoli il dott. Giuseppe Pugliese (1875-1953), uomo integerrimo e medico valente, riservato ed austero, anche se a volte non privo di humour. Già capo della Civica Amministrazione per breve tempo (nel 1910) era, di estrazione e convinzione, liberale, espressione di quella “borghesia illuminata” che si considerava erede della migliore tradizione risorgimentale.
Il Rossi informa le autorità locali dell'esito della sua ricognizione e della inevitabile decisione di proporre al Ministero il trasferimento del quadro a Roma per il suo necessario ed urgente restauro, a mente dell'art. 4 della legge 20.6.1909, n. 364.
Comincia così uno spietato braccio di ferro tra il comune di Monopoli e l’Autorità centrale: chi è in realtà questo dott. Rossi? Come mai si presenta senza preavviso e senza credenziali? E’ legalmente abilitato ad operare una vera e propria “spoliazione” ai danni della città? Per ottenere precise risposte a tali interrogativi, l'Amministrazione interpella le superiori Autorità: le risposte non lasciano adito a dubbi: il dott. Rossi è designato a pieno titolo dal Ministero competente a compiere la ricognizione delle opere d’arte in terra di Bari!
Gli effetti della visita del Rossi non si fanno molto attendere: il 24 maggio del 1913, il Ministero, con telegramma, invita il comune di Monopoli, in forza della Legge già citata, a spedire senza indugio a Roma il Giambellino, per l’indispensabile restauro.
Nel silenzio delle Autorità locali, il 13 giugno (appena venti giorni dopo), torna tra noi il dott. Rossi: porta questa data il verbale di consegna del dipinto, stilato nella Chiesa di S. Domenico e firmato dal rappresentante del Ministero, dal Sovrintendente di Puglia dott. Cremona e dal vice-sindaco f.f. Pietro Giudice, maggiore in congedo (sintomatica l'assenza del sindaco Pugliese). Nel documento si sottolinea il preciso impegno del Ministero alla restituzione della tela al Comune di Monopoli, appena ultimato il restauro, nonché all'assunzione delle spese. Mentre si svolge il triste protocollo, lungo la via S. Domenico sostano gruppi di cittadini, che vivacemente protestano contro la decisione romana; non è difficile intravedere, anche a tal riguardo, la “regia” dell'Autorità comunale, non priva di ingenuità e forzature, ma comunque ammirevole, che spesso si giovò, nell’appassionata difesa del dipinto, di un argomento ad “effetto”: lo spauracchio di disordini e la necessità di garantire l'ordine pubblico. Altri motivi addotti a sostegno della generosa battaglia erano di natura giuridica (il dipinto, affidato in custodia alla Congrega di S. Cataldo, era di “esclusiva proprietà” del comune, in virtù del D.L. 7.7.1866, n. 3036, relativo alla soppressione degli Enti ecclesiastici) altri, di fatto (si negava che la tela fosse gravemente compromessa “ad opera dei tarli”, tanto da causare “il distacco delle vernici”) tutti, per la verità non molto solidi. In realtà, l'Amministrazione comunale non si fidava dell'Autorità centrale, certo non a torto!
Il S. Pietro Martire, molto probabilmente affidato al Comando dei Carabinieri, non parte subito per la capitale, certo per le pressioni, i temporeggiamenti, i cavilli cui abilmente ricorre il sindaco: si eccepisce, tra l'altro, la mancata emanazione e notifica di un regolare decreto del Ministero, che peraltro arriva il 24.6.1913, corredato dal parere del Consiglio superiore. Anche il Questore di Bari, Calabrese, sollecita, in pari data, la consegna del quadro. Ma questo rimane ancora presso la Caserma dei Carabinieri, nonostante una ennesima, perentoria diffida ad adempiere, del Ministero, in data 9.10.1913. Infatti, ancora il 29.11. dello stesso anno, il sindaco Pugliese, che non si rassegna, invia un lungo motivato esposto al locale comando della Benemerita, con invito…a rimettere al proprio sito, nella Chiesa di S. Domenico, il disputato dipinto.
Ma, verso la fine del 1913, il Giambellino raggiunge Roma.
Ebbene, incredibile a dirsi, già il 2.2.1914 il nuovo sindaco di Monopoli, Pietro Rotolo, interessa l'on. Luigi Capitanio(7), perché perori presso il Ministero la sua restituzione. Subentra la dolorosa parentesi della guerra 1915-18, ma subito dopo, le autorità comunali tornano a insistere per riottenere il dipinto. Particolarmente interessante e vivace, l'intervento, nel 1920, del Sindaco avv. Vadalà presso le autorità romane, peregrine le scuse addotte dal Ministero per giustificare la ritardata restituzione, di cui pur si ribadisce l'impegno: persino la non ancora ripristinata sicurezza dei trasporti per ferrovia! Sorprendente la proposta, con riservata del 19.7.1920, del Sovrintendente Carlo Calzecchi(8) al Sindaco della città: un cospicuo indennizzo dello Stato al Comune di Monopoli, in cambio del S. Pietro Martire.
Ma il quadro, che, assai ben restaurato, faceva bella mostra di sé a Palazzo Venezia, nella Sala dei Parametri, incantando critici, artisti, amatori e turisti di tutte le città e nazioni, resta ancora, “grande esule”, in Roma. E ciò, nonostante si levino molte voci, anche autorevoli, ad invocare il suo ritorno in patria, tra le altre, quella dell'ispettore onorario alle Belle Arti, cittadino battagliero e buon pittore, Vincenzo Brigida, e l'indimenticabile Armando Perotti(9).
1922: avvento del Fascismo. Al Sindaco Ignazzi subentra, ancora una volta, il dott. Pugliese, che riprende, imperterrito, dopo circa un decennio, la strenua lotta per la riconquista del Giambellino. E gli arride, questa volta, la vittoria: il prefetto Gasperini, il 24.12.1925, gli annunzia che la penata restituzione è stata autorizzata. Val la pena di osservare che il fascismo adottava, sin da allora, il metodo del “bastone e della carota”: dopo il delitto Matteotti(10)(e il resto), parve forse opportuno restituire ad un comune del sud quanto era stato maltolto dalla “fiacca ed imbelle democrazia parlamentare”. Comunque il sindaco Pugliese l'aveva spuntata e con lui l'intera città. Il S. Pietro Martire è sistemato sul palazzo comunale, nella Sala che sarà poi chiamata “Perricci”.
Ma, purtroppo, per lo stupendo dipinto non è ancora finita! Ormai non è più tempo di sindaci, ma di podestà. E' nominato podestà di Monopoli un giovane avvocato, colto e intelligente: Giuseppe Maggi. Ma, in tempo di dittatura, anche gli uomini dotati e capaci possono poco.
Consolidato il regime, la “carota” torna ad essere un volgare vegetale; arriva dall'alto un invito, (in realtà un ordine): i Comuni debbono cedere le loro opere d'arte più insigni per costituire, in Bari, una Pinacoteca provinciale. La vocazione autoritaria del "nuovo corso" si sposa con quella antica del Capogruppo ad accentrare, a monopolizzare, a strafare. Con delibera dell'8.8.1929, il S. Pietro Martire viene "dato in custodia" all'Amministrazione Provinciale di Bari.
La grande fiammata giambelliniana, che pare si spenga, pure, qualche anno dopo, dà ancora timidi guizzi: nel 1933 un prefetto coraggioso, infastidito per le beghe dei gerarchi monopolitani, nomina Commissario straordinario al Comune l'avv. Giacomo Caracciolo. Uomo di destra, onesto, pignolo ed attivo, estraneo alle cricche dei politicanti locali, è inviso ai "capi" fascisti e da essi, con ogni mezzo, osteggiato. Ebbene, molti pensano che egli sia l'uomo adatto a "strappare" a Bari il tormentato dipinto; c'è infatti, agli atti, una petizione di cittadini che, informati, speranzosi, pressati, a tal fine si rivolgono a lui: primo firmatario, il sig. Giovanni Iaia. Ma la cosa non ha seguito, ché i fascisti, dopo circa un anno, riescono a liberarsi dallo scomodo commissario Caracciolo.
Dopo, per quasi cinquant'anni, pavidità, disinteresse, silenzio; ancor oggi il Giambellino è "esule" in Bari e costituisce "la gemma più preziosa" della Pinacoteca (testuale espressione usata, qualche tempo fa, dalla sua direttrice, dott.ssa Belli-D'Elia(11)). Alle rare, più recenti sortite di alcuni tenaci innamorati del Giambellino, tendenti a riaverlo tra noi, si obbietta, e a ragione: Se vi fosse restituito, quale sede degna e sicura gli destinereste? Forse ancora la Sala Perricci, da tempo adibita alle riunioni del Consiglio comunale, che non proteggerebbe certo il capolavoro da gravi, forse irreparabili danni?
La prospettiva della creazione di una galleria d'arte antica e moderna nella nostra città è invero molto lontana: il Giambellino dunque resta ancora a Bari, in verità sorvegliato, tutelato, ammirato. Ma Monopoli, se e quando vi pensa, si sente umiliata, mutilata: il Giambellino non è stato soltanto una meravigliosa opera d'arte, ma un fatto ideale e culturale di speciale rilievo, una testimonianza di civico prestigio, un brandello vivo della sua storia.
Ed ora, una breve morale di questa che favola non è: tre classi politiche, tre generazioni la prefascista, denigrata spesso a torto, la fascista e l'attuale, maturata in tempo di democrazia repubblicana, si sono succedute, nel giro di circa settant'anni. Se si dovesse formulare per esse un giudizio di valore, la prima sarebbe promossa con lode, la seconda, respinta con biasimo e la nostra…rimandata ad altra sessione, perché impari ad amare Monopoli d'amor più forte!
Ci pare già di sentire certi corvi gracchiare: ma questo è provincialismo, è campanilismo! Ebbene, voi corvi, malati di falso cosmopolitismo, ricordate che Socrate, “cittadino del mondo”, fu figlio della sua amata Atene, ove nacque, visse, meditò e morì. E fu Atene, luminosa per storia, cultura, arte e scuole filosofiche che gli schiuse più vasti orizzonti del vero. In patria, si sa, i “profeti” non hanno fortuna e a Socrate non toccò sorte diversa, ma la sua città, proprio processandolo e condannandolo a morte, lo consacrò gloria e guida dell'intera umanità.

Pubblicato su “Puglia” del 25-26/5 e 4/6/1981 e “L’Informatore” del 25/7 e 26/9/1987.

(1) Giovanni Bellini (Venezia, 1433 circa – Venezia, 26 novembre 1516) pittore italiano, uno dei più celebri del Rinascimento, noto anche con il nome Giambellino.

(2) All’epoca di questo testo, sicuramente Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni, Firenze, 1968

(3) Il dipinto raffigura il Pietro da Verona al secolo Pietro Rosini (c.ca 1205 – 6 aprile 1252) santo patrono della sua città nel momento dell’assassinio a Seveso. Infatti, si racconta che il priore domenicano venne assassinato nella foresta di Barlassina con una roncola, mentre si recava a piedi da Como a Milano. Le agiografie riportano che intinse un dito nel proprio sangue e con esso scrisse per terra la parola "Credo”.

(4) Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Si concludeva indi quella che è stata poi definita dagli storici l'”età giolittiana”, un periodo di progresso economico, di rivoluzione industriale e di modernizzazione, di notevole rigoglio culturale e di mutamenti nella società e nel costume, che avvicinarono l'Italia al livello dei paesi più moderni e industrializzati; furono "gli anni in cui meglio si attuò l'idea di un governo liberale" (Croce, Storia d'Italia, p. 233).

(5) Attilio Rossi, (Castel Madama 1875-1966), fu dirigente presso la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti dove espletò importanti incarichi, quale direttore della Regia Calcografia e direttore di Villa d'Este; fu anche autore di articoli di carattere storico artistico e bibliofilo. Ha lasciato un fondo privato costituito dalla sua immensa biblioteca.

(6) La presenza dei frati domenicani, dell’ordine dei Predicatori, a Monopoli risale al 1270 ed è stata tra le prime in Puglia. I domenicani fondarono fuori le mura, nell’area di Cala Fontanelle, più precisamente in prossimità della Cripta di S. Giorgio, la Chiesa di Santa Maria Nova, omonima della chiesa dello stesso ordine di frati a Firenze. Dopo la distruzione della chiesa e convento di S. Maria Nova nelle guerre del 1528, il 10 aprile del 1532 i frati decisero di costruire il loro nuovo complesso all’interno dell’abitato a mezzo permuta dei loro terreni “extra moenia” vicino al complesso dei Minori Osservanti, con un terreno di don Pirro della Croce. Il quadro era stato commissionato dalla famiglia Indelli per essere posto nella Cappella di famiglia all’interno della chiesa.

(7) Luigi Capitanio (Monopoli, 15 dicembre 1863 – 20 agosto 1922) medico e politico, è stato deputato nelle file del Partito Liberale nella XXIV Legislatura del Regno d'Italia.

(8) Carlo Calzecchi Onesti (1886 – 1943) Soprintendente dal 1933 al 1939.

(9) Armando Perotti (Bari, 1865 – Cassano delle Murge, 1924) scrittore e poeta, studioso e giornalista, attento osservatore e conservatore delle realtà pugliesi e della cultura regionale fu un letterato di grande sensibilità e cultura.

(10) Giacomo Matteotti fu ucciso il 10/6/1924 dal mazziere fascista Giuseppe Viola durante il suo rapimento.

(11) Pina Belli D’Elia è stata direttrice della Pinacoteca provinciale, dal 1974 al 1988.